Vuoto apparente
In sostanza, il vuoto
a cura di Silvia Calvarese

“Il punto zero del silenzio non vuol dire assenza di rumore, è piuttosto un atteggiamento di ascolto dell’altro, del mondo che ci circonda”1. È così che inizia l’articolo di Pasquale Napolitano per questo numero di roots§routes. Un’affermazione che può essere allargata al concetto stesso di vuoto, e non solo a quello di silenzio; ad essere messa in discussione in questo numero, infatti, è proprio l’idea di un punto zero assoluto, dove non esiste nulla e nulla è mai esistito, dove c’è una totale assenza di rappresentazione o impossibilità di rappresentare quello che non c’è, che manca.
Dare sostanza – qualunque essa sia – al vuoto non è così impossibile come si pensa. Bisogna solo provare a porgere attenzione a quel sistema complesso di relazioni umani, storiche e culturali che un ambiente contiene in potenza o, in alternativa, che è capace di generare.
Il numero §Vuoto Apparente racconta di come attraverso le arti – dall’architettura alle opere ambientali, dalle arti visive alla musica – si è saputo ascoltare, leggere e dare forma a particolari contesti e situazioni, trasformando dei semplici spazi in luoghi e dei semplici avvenimenti in momenti.

Nella progettazione dello spazio urbano e degli edifici architettonici il vuoto ha assunto un ruolo determinante, divenendo luogo in cui convergere una serie di attività spontanee; un’idea di architettura non fisica, che comprende attività e programmazione, capacità di costruire situazioni, interazioni, di contenere più letture. “Inutile muovere i muri se si può muovere la gente”2.

Alberto Iacovoni, nel suo articolo per roots§routes, ci racconta di come l’elemento “vuoto” abbia avuto un ruolo determinante nella progettazione di Section d’Or, progetto ammesso alla seconda fase per il Concorde Secteur A a Vernier, Ginevra, presentato con il suo studio ma0.
Il progetto, ci racconta, si è ispirato a Place Jemaa el-Fna (Marrakech, Marocco) che altro non è che un grande spazio vuoto “all’interno di più reti continue che attraversano la città cui appartiene e che è diventata nel tempo uno dei luoghi che ribolle delle attività più disparate, nonostante recenti norme tentino di ordinarne il caos permanente. Una piazza che è stata dichiarata recentemente dall’Unesco patrimonio orale dell’umanità”.
Uno spazio pubblico intenso, ci racconta Iacovoni, un “vuoto assoluto altrettanto quanto il deserto che si estende aldilà delle montagne dell’Atlante, verso l’est e il sud ma, per ragioni stratificate nel tempo, nodo inestricabile di flussi che hanno portato mercanti, viaggiatori, contadini a incontrarsi e a scambiare merci e storie. E questa piazza è un paradosso poiché non vi è nulla nella sua forma che abbia il merito di tanta vitalità. […] Opposto positivo di tante architetture progettate incapaci di produrre un decimo di tanta effervescenza sociale…”.
L’articolo mette in evidenza come oggi anche gli architetti ragionino sempre di più in termini di approccio ad una situazione, ad un contesto specifico, e non esclusivamente in termini di allestimento, forma e dimensione. Si tratta di pensare lo spazio non solo come un insieme di forme, ma anche come un insieme di funzioni; progettare uno spazio vuoto significa anche dare la possibilità alle persone che lo abitano e lo vivono di inventarne gli usi, secondo le proprie esigenze. “Ogni sito porta con sé il proprio potenziale di dilatazione. La chiave sta nel lavorare ogni metro quadro come una specificità. È una combinazione di azioni sovrapposte e simultanee che raccontano la capacità di un luogo a evolvere, ad essere diverso o complementare secondo le attività dei visitatori, gli orari, le stagioni”3.

Anche l’artista Ugo Marano, di cui ci parla nel suo articolo Pasquale Napolitano, lavora ogni metro quadro come una specificità; il suo è uno dei casi in cui l’arte contemporanea non entra in uno spazio museale convenzionale per essere esposta, ma entra in relazione con un territorio specifico, il cui carattere è determinato dalle memorie degli abitanti e dalle relazioni sociali che lo costituiscono, a cui bisogna dare forma.
“L’artista si mette al servizio di una comunità, intendendo l’opera e la sua genesi come processo di sperimentazione territoriale: ogni opera, realizzata, o anche solo progettata, è un laboratorio, uno spazio delle opportunità, dove i legami sociali, le memorie, la storia dei luoghi, gli interessi vitali, le conoscenze e le vocazioni possono aiutare a costruire i progetti mentali di partenza per la conoscenza e per il vivere”.
L’artista, con la sua Piazza dei flauti, ha realizzato uno spazio aperto, luogo di incontro e ascolto reciproco, di condivisione e progettazione.

Anche le architetture delle opere di Carmelo Baglivo “attendono di essere riempite, colonizzate e abitate, per poi essere abbandonate di nuovo”. Il vuoto lasciato da alcune opere o edifici viene occupato da nuove strutture, in un dialogo formale e temporale che allude al consumo del territorio urbano, allo sviluppo incessante delle metropoli moderne “troppo piene”, come affermato in un’intervista del 2005 al suo studio IaN+. “Un troppo pieno che impedisce lo sviluppo delle relazioni che hanno generato la storia dei luoghi”4. Storie e relazioni hanno infatti bisogno di spazio. In un gioco tra antico e moderno, effimero e monumentale, le diverse architetture si fondono e si compenetrano, generando forme e composizioni nuove, per un paesaggio contemporaneo.

L’idea del vuoto non più come semplice negazione, ma come forma e sostanza, diviene a metà del Novecento uno dei temi principali della ricerca di due grandi artisti: Bruce Nauman (Fort Wayne, Indiana, 1941) che dalla metà degli anni Settanta realizza i suoi calchi di spazi interstiziali e Rachel Whiteread (Londra, 1963) che dalla fine degli anni Ottanta realizza calchi in gomma, resina, calcestruzzo e gesso di oggetti quotidiani, associati alla casa.
Usando lo strumento del calco, questi artisti hanno dato forma e sostanza allo spazio lasciato dagli oggetti.
La Whiteread usa gli oggetti come stampi e “i calchi ne sono gli spazi in negativo, i vuoti che essi formano. In questo senso sono al tempo stesso ovvi dal punto di vista della riproduzione, ma ambigui dal punto di vista della referenza poiché benché basate su oggetti utili e luoghi quotidiani, le loro sculture negano la funzione e condensano lo spazio in massa. Allo stesso tempo, sebbene appaiano unitarie e solide, sembrano anche frammentarie e spettrali. […] L’effetto di queste opere viene così associato al perturbante – ovvero al ritorno delle cose familiari rese estranee dalla rimozione”5.
Le sculture di Nauman e della Whiteread divengono così manifestazione del vuoto stesso, “tracce di qualcosa che non è più presente come dato concreto, ma che, nondimeno, permane sia come entità fisica (attraverso il suo ingombro) sia come traccia di un evento fenomenico e, non da ultimo, come memoria”6.

La stessa tecnica del calco viene ripresa da Rossella Biscotti (Molfetta, 1978) per la sua opera Le teste in Oggetto analizzata nell’articolo di Roberta Riccio; l’artista realizza sezioni e calchi delle teste di bronzo di Benito Mussolini e del Re Vittorio Emanuele III, scolpite da Domenico Rambelli e Giovanni Prini. “All’incirca un metro di altezza ciascuna, posizionate su dei pallet, realizzate per l’Esposizione Universale del 1942 e mai mostrate al pubblico -a causa della guerra- queste enormi teste racchiudono in tutto il loro peso, una monumentalità e un rigore tipico dell’arte di regime”.
Anche in questo lavoro il vuoto diviene “accoglienza del vuoto stesso. […] un vuoto immateriale, ovvero l’opera d’arte contiene pensieri e idee che essendo immateriali, non riempiono mai materialmente la scultura»7.

La musica e, quello che sembra il suo opposto, il silenzio, è invece il tema principale dell’articolo di Emiliano Battistini. L’autore, tra le altre cose, analizza l’opera 4’33’’ di John Cage, eseguita per la prima volta il 29 agosto 1952 nella Maverick Concert Hall di New York dal pianista David Tudor. Quest’ultimo, si limitò ad aprire e chiudere il coperchio del pianoforte per tre volte, senza produrre alcun suono per 4’33”.
“Il brano – afferma Battistini – dal punto di vista pragmatico, cambia radicalmente le abitudini di ascolto del pubblico, mettendo in primo piano l’azione dell’ascoltare stesso: l’attenzione passa dal musicista all’ambiente sonoro reale. L’autore, dopo aver creato il contenitore ‘vuoto’, rinuncia a ogni gesto compositivo volontario e lascia che sia il caso a riempire di rumori il silenzio. Quest’ultimo infatti ‘non esiste’ ”.
A rimanere silenzioso in quel contesto fu solo il pianoforte. Per il resto, furono 4’33’’ pieni di rumore – il respiro del pubblico, il ticchettio della pioggia sui vetri, il rumore del vento.
Un “vuoto musicale” che permette all’ambiente circostante e quindi alla vita stessa di irrompere nel proprio spazio di rappresentazione, rendendo quest’ultima soggetto e oggetto dell’opera stessa.

Tutti gli artisti e gli autori citati fino ad ora hanno provato a dare una qualche sostanza o forma al vuoto; nel contributo di Luca Cinquemani e Andrea Tortorella il vuoto è invece possibilità e occasione di non-comunicazione e il silenzio diviene una sorta di antidoto contro il bisogno di dover parlare per forza. “Dover-comunicare dover-socializzare – dover-partecipare e un pervasivo e inquietante dover esserci-mostraremostrarsi-raccontare-dichiarare-dichiararsi, e di conseguenza un sotteso, quanto minaccioso e repressivo, non poter non dire e non poter disertare”, tipico della nostra società contemporanea.
E se le nuove tecnologie ci obbligano a partecipare, a prendere parola, posizione, spesso a discapito della sostanza, possiamo sfruttare l’occasione di un vuoto per prenderci una pausa, per ascoltare gli altri, spezzare il discorso, fermarci e riorganizzare i pensieri.

Si tratta anche di saper aspettare.
E, mentre si aspetta, per esempio un Godot, non sai mai quello che ti può capitare.

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1 D. Von Drathen, Vortex of silence. Preposition for an art criticism beyond aesthetic categories, Charta 2011.
2 Lacaton & Vassal architectes, per documenta 12. www.lacatonvassal.com.
3 Ibidem.
4 http://www.ianplus.it/
H. Foster, R. Krauss, Y. Bois, B. HD. Buchloh, Arte dal 1900 Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo, Zanichelli, Bologna 2006, p. 637.
AAVV, L’arte del XX secolo. 2000 e oltre. Tendenze della contemporaneità, Skira, Milano 2009, p. 272.
A. Scardino, La scultura del vuoto, Lulu Press, 2005, p. 41.