Discomfort
MEMOROPHILIA
o del desiderio d'amnesia
di Giulia Crisci

Immaginate l’esempio estremo, un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé…

Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio.

Qui si fa chiaro come l’uomo abbia molto spesso necessariamente bisogno, accanto al modo monumentale e antiquario di considerare il passato, di un terzo modo, quello critico: e anche di questo per servire la vita. Egli deve avere, e di tempo in tempo impiegare, la forza di infrangere e di dissolvere un passato per poter vivere: egli ottiene ciò traendo quel passato innanzi a un tribunale, interrogandolo minuziosamente, e alla fine condannandolo; ogni passato merita invero di essere condannato — giacché così vanno le cose umane: sempre la violenza e la debolezza umane sono state potenti. Non è la giustizia che siede qui a giudizio; ancor meno è la clemenza quella che pronunzia qui il giudizio: ma soltanto la vita… Talvolta proprio la vita stessa, che ha bisogno della dimenticanza, richiede il temporaneo annientamento di questa dimenticanza. (Nietzsche, 1981, pp. 1-4).

Ricordare o dimenticare sono spesso atti intenzionali, pur considerando che molti dei processi legati al ricordo sono difficili da comandare. Si può sforzare o esercitare la memoria come un muscolo più o meno allenato, si può aiutare l’intenzione a dimenticare o far dimenticare.

La memoria è il più potente lenitivo al senso di caducità, contro lo sgomento che le cose, le persone, le relazioni o tutto ciò che è umano passi. Ricordare è un modo per venire a patti con questa condizione (Jedlowski, 2016, p.12). Così l’oblio talvolta può corrispondere al potente desiderio che l’umano – o il disumano – passi, o meglio cada.

Il nostro sistema nervoso, e anche quello sociale, è in grado di negoziare l’amnesia, dimenticando perfino di aver dimenticato. La memoria traumatica può essere repressa o rimossa, più o meno consciamente, perfino collettivamente.

La Damnatio memoriae era per i latini l’estremo tentativo di esercitare potere sulla memorabilità collettiva, infliggendo la dimenticanza come pena verso i nemici, sortendo però talvolta l’effetto opposto.

How happy is the blameless vestal’s lot! | The world forgetting, by the world forgot. | Eternal sunshine of the spotless mind! | (Pope, 1717, v. 207)

Perchè cerchiamo pace nella dimenticanza? Cosa ci spinge a voler dimenticare?

Può l’amnesia proteggerci? Può l’oblio respingere la vergogna?

La memoria aiuta l’uomo a ritrovare il senso del suo stare al mondo, ne garantisce la sopravvivenza. La memoria culturale e collettiva non serve che a questo: conservare e conservarsi come gruppo, tentare di ricavare consapevolezza delle proprie peculiarità. Tant’è che questi processi si definiscono spesso attraverso una sorta di determinazione a identificarsi in senso positivo (Noi siamo questo) o in uno negativo (Non siamo quest’altro). Questo patrimonio culturale rende una società visibile a se stessa e agli altri.

La memoria è pilastro di qualunque costruzione identitaria, avendo sempre e comunque lo stesso significato e la stessa funzione: offrire una rappresentazione dotata di senso del proprio presente. (Assmann, Czaplicka, p.13)

Si può stare a disagio nella propria memoria collettiva, forse proprio perchè non la si sente prossima? Si può non riconoscersi in questa rappresentazione?

Siamo davvero la storia che di noi raccontano?

Dalla visibilità, dalla necessità di definirsi, dal bisogno identitario passano anche le identità siciliane e il tentativo di avere a che fare con le memorie traumatiche legate a mafia e violenza.

Il disagio continuo di definirsi in un’identità al negativo, antimafiosa, spesso fa il paio con la vergogna di essere continuamente ricordati tra macerie e detriti di una “Palermo come Beirut”. Questa condizione è sicuramente accentuata dalle grandi stragi del ’92, dalla loro risonanza mediatica, grosso squarcio nelle memorie collettive italiane.

La ferita, la cicatrice, è il surplus irreversibile di un dolore passato, che ha lasciato la sua traccia sul corpo, dove il coltello è passato o la pietra ha colpito. La cicatrice, il segno, è un impedimento alla dimenticanza; il corpo porta con sé tracce di memoria impresse, il corpo è la memoria. (Clastres, 1974).

La città è il nostro corpo (in) comune, dalle cui cicatrici continuamente tentiamo di distogliere lo sguardo, chi per alleggerirsi, chi per continuare ad abusarne. Ce lo portiamo a spasso con poca disinvoltura, come avessimo addosso un largo e ingombrante cappotto, che impedisce il fluire dei movimenti.
Inciampiamo sul tratto di autostrada Palermo-Capaci ogni volta che stiamo andando a prendere un aereo che ci porti da qualche altra parte.

Il fumo nero, il rumore delle sirene, i ricordi congelati, bloccati per pochi istanti mentre la città implodeva, resistono e sottostanno allo scorrere quotidiano, come un acufene, un fischio continuo nell’orecchio, spesso post-trauma, che si può distrarre grazie a rumori più forti, ma non eliminare.

Più siamo presi dell’umanissimo affanno a reprimere o a rimuovere quello che non vogliamo più vedere, più questa opportunità ci sfugge.

Le difficoltà di attraversare e farsi attraversare dalle memorie collettive del trauma sono visibili nel desiderio di sospendere l’identificazione totale, nel bisogno di nuove e più prossime narrazioni, nella voglia di intimità con il proprio dolore ancora da risolvere.

Si può essere a disagio attraversando luoghi del trauma. Si può essere a disagio nel sentire nuovamente una sirena. Si può essere a disagio nel non ricordare una memoria che ci appartiene, che tentiamo di ricostruire.

È così chi come me era troppo piccolo per ricordarsene, o non c’era ancora, tenta di ricostruirla componendo un mosaico mnemonico fatto di altri piccoli frammenti di ricordi di familiari e amici. Chiunque viva o abbia vissuto in Sicilia ha avuto modo di sentire i ricordi degli altri, e di confonderli con i propri, sul 23 maggio, sul 19 luglio 1992 e su tante altre memorabili giornate.

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E’ possibile inviare alla redazione il proprio ricordo legato alle stragi e alle storie di mafia che vi hanno attraversato a qualsiasi latitudine geografica. Ciascun racconto andrà ad inserirsi periodicamente a questa piccola raccolta, nel solo desiderio che venga ascoltato.
I file audio possono essere inviati all’indirizzo mail info@roots-routes.org, entro e non oltre il 17 luglio, preferibilmente in formato mp3 con una dimensione non superiore ai 20 MB.

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Immagine in homepage di Doris Salcedo, Shibbolet, installation view, Tate Modern, Londra 2007

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Bibliografia
Pope A., Eloisa to Abelard, 1717
Clastres P., Society Against the State: Essays in Political Anthropology, 1974, Zone Books, New York
Friedrich Nietzsche, Considerazioni Inattuali, Einaudi, Torino, 1981
Assmann J., Czaplicka J., Collective memory and cultural identity, New German Critique, No. 65, Cultural History/Cultural Studies (Spring – Summer, 1995)
Jedlowski P., Intenzioni di memoria, Meltemi, Roma, 2016