DESIRE
Desiderare il desiderio
di Pier Luigi Sacco

Nelle società caratterizzate da un livello relativamente basso del reddito pro-capite, il desiderio è associato in modo naturale alla scarsità: si desiderano per lo più cose che hanno un peso importante in una logica di sopravvivenza: un livello adeguato di cibo, per quantità innanzitutto, e se possibile anche per qualità; una casa in cui abitare; un vestiario dignitoso; l’educazione per i propri figli; la possibilità di cure mediche, e così via. In condizioni di scarsità sostanziale, il desiderio è un fatto ‘naturale’: non c’è nessun bisogno di definirlo né di indagarne i contorni, in quanto costituisce il filo conduttore delle scelte quotidiane, e spesso anche delle più semplici e trascurabili.

Già in queste società, tuttavia, la mediatizzazione associata soprattutto alla penetrazione sociale della televisione ha prodotto dei cambiamenti importanti: una volta esposti a modelli di consumo dalla forte connotazione identitaria come sono quelli delle società con livelli di reddito più elevati (e che inevitabilmente filtrano oggi a qualunque latitudine), le persone si trovano di fronte ad un panorama comunicativo che illustra ossessivamente come la vera ‘felicità’ non possa non essere legata a determinati schemi di consumo nei quali la logica del necessario è completamente sovvertita a beneficio di prodotti e servizi che sono ‘magicamente’ in grado di attirare attenzione, riconoscimento sociale, consenso e ammirazione. Se questo tipo di pressione comunicativa è stato ormai ampiamente assimilato da chi fin dalla nascita deve confrontarsi con un contesto socio-comunicativo di questo genere, per coloro che invece accedono a questo mondo di senso dai margini e spesso con poche possibilità di esperienza diretta esso finisce fatalmente per assumere una valenza mitica, si carica di significati quasi magici e produce una adesione completamente acritica ed incontrollata, che viene poi amaramente disillusa quando queste stesse persone, rischiando magari la propria vita, fanno finalmente esperienza diretta di quelle società che apparivano tanto desiderabili viste attraverso il filtro dei media, e che rivelano invece un aspetto molto differente.

La disillusione del desiderio che questa esperienza induce può portare spesso ad un rifiuto netto dell’intero contesto sociale che genera questi fantasmi illusori del desiderio, un rifiuto ancora una volta non mediato dal filtro culturale appreso da chi ha imparato a coesistere con il gioco continuo dell’illusione e della disillusione che è il motore stesso del consumo di massa, e che quindi produce una negazione radicale che alimenta in parte il fondamentalismo anti-occidentale. Ma anche al di là di queste dinamiche ‘di confine’, è la stessa organizzazione sociale del capitalismo avanzato che produce una dinamica del desiderio piuttosto complessa e, in ultima analisi, fragile. Per potersi mantenere, la nostra organizzazione sociale ha bisogno che tutti desiderino il più possibile, e che siano disposti a trasformare questo desiderio in spesa. Ma per indurre il desiderio, le strade che vengono scelte, per quanto spesso portatrici di risultati immediati, rivelano rapidamente ‘rendimenti’ decrescenti in termini di motivazione alla spesa. Da un lato, l’euforizzazione, il promettere appunto che un determinato prodotto o servizio assicurerà a chi compra determinati vantaggi identitari, che però inevitabilmente si infrangono contro l’evidenza del fatto che, se tutti o comunque tanti comprano determinate cose con l’aspettativa di un riconoscimento, questo non potrà venire proprio in quanto sono tutti o tanti ad aver acquisito quello stesso oggetto, mentre al contrario se sono in pochi a comprarlo, il riconoscimento non viene in quanto l’oggetto non è stato in grado di mobilitare abbastanza desiderio. Per cui, comunque vada, l’aspettativa euforica è destinata ad essere frustrata e a dare luogo ad una corrente di ritorno di tipo disforico. L’altra strada è quella della paura: alimentare cioè un desiderio basato sull’istinto di sopravvivenza, non più declinato secondo le sue modalità tradizionali e, per certi versi, ‘oggettive’, ma ri-orientato verso nuove dimensioni astratte, spesso impalpabili, verso minacce spesso nemmeno ben identificate ma non per questo meno presenti alla psiche individuale.

Ma tanto l’euforia quanto la paura, come dicevamo, tendono a consumarsi, e per essere continuamente rinnovate in intensità hanno bisogno di un impulso crescente – anche se, di tanto in tanto, vengono in aiuto circostanze come la nascita di un prodotto radicalmente innovativo e cool oppure una grande catastrofe naturale o sociale. In tempi ‘normali’, invece, il desiderio va alimentato, e il modo migliore di farlo è di colpevolizzare, attraverso una pressione sottile ma continua, chi sembra non voler desiderare abbastanza. La mancanza di desiderio diviene una patologia che può, deve essere curata, e così facendo, ipso facto, induce nuove forme di desiderio derivate. Una via d’uscita è offerta dalle nuove ideologie della decrescita, che caricano il desiderio di una valenza esplicitamente negativa e che propongono come modello una regressione a stili di vita pre-industriali che però in ultima analisi si fondano su un principio di repressione che finisce per produrre comportamenti derivati altrettanto radicali, ideologici ed auto-referenziali. Piuttosto che desiderare il desiderio o combatterlo o negarlo, forse può essere più costruttivo provare a costruire dei propri mondi di senso nei quali ci si riconosce. In fondo, tutte le forme di consumo identitario hanno una componente simbolica che dà loro una valenza esplicitamente culturale. Tanto vale provare a costruire una propria cultura che ci rappresenti – ed ecco forse un senso nel quale la celebre frase di Beuys secondo cui tutti siamo artisti può acquistare un valore nuovo e sorprendente.