CENSORSHIP
Mala tempora currunt con intervista ad Adalberto Abbate
di Salvatore Davì


Adalberto Abbate, Adunata sediziona, serie Rivolta, stampa su pvc telato, 200 x 200 cm, 2009.
Courtesy Galleria Francesco Pantaleone

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«Da molto tempo sono stati analizzati in altre società i capovolgimenti silenziosi, ma nondimeno fondamentali, provocati in esse dal consumo. Così il successo spettacolare della colonizzazione spagnola fra gli indios è stato svuotato dall’uso che se n’è fatto: benché sottomessi, se non addirittura consenzienti, spesso questi indigeni usavano le leggi, le pratiche o le rappresentazioni loro imposte con la forza o con la seduzione per finalità diverse da quelle dei conquistatori; le trasformavano in qualcosa d’altro; le sovvertivano dall’interno – non già respingendole o trasformandole (anche se a volte così accadeva), bensì attraverso mille modi di impiegarle al servizio di regole, costumi o convinzioni estranei alla colonizzazione alla quale non potevano sottrarsi. Essi metamorfizzavano così l’ordine dominante: lo facevano funzionare secondo un altro registro».

[ Michel De Certeau, L’invention du quotidien, (1980); trad. L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2010, p.66. ]

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La costituzione di una lessematica, ovvero il procedimento con il quale si stabiliscono i nomi delle cose, è l’operazione prima su cui si fondano le diverse comunità per parlare su qualcosa e per assumere dei sensi e dei significati che distinguono la propria cultura. Se consideriamo però che negli individui riscontriamo delle variabili, anche i lessemi e quindi la cultura avranno lo statuto della relatività e della variazione. Nonostante ciò i tratti che caratterizzano la cultura risultano contraddittori: essa è statica perché il suo persistere nel tempo ne favorisce la ripetizione promuovendo una fruizione inconsapevole, ma è dinamica poiché i rapporti di scambio e i contatti con altre culture la sottopongono a un continuo processo di invenzione e reinterpretazione che ne consente una produzione consapevole. Staticità e dinamismo si configurano come tratti discordanti che avviano un processo dialogico che vede da un lato il modello ideale, perseguito dalle istituzioni come garanzia di conservazione, dall’altro quello reale, caratterizzato dalle dinamiche di un contesto che svolge la funzione di innovazione. Questa dicotomia presuppone il riconoscimento di un codice condiviso che equivale al modello organizzativo di una determinata comunità e che è basato su una stratificazione di modelli.

Rispetto a questa struttura è possibile distinguere due livelli di intervento che hanno la base nel confronto tra norma e devianza: i modelli non proibiti che equivalgono a quelli consentiti e i modelli proibiti che sono puniti o censurati. La legislazione regola i livelli culturali e determina prescrizioni che veicolano la fruizione verso il senso di una cultura univoca presentata come patrimonio. La teoria giuridica e quindi lo Stato costruiscono il patrimonio culturale come un monolitico concetto-limite, soggetto alla sovranità della Nazione, col fine di controllare la realtà intellettuale attraverso l’inconsapevolezza dell’inculturazione.
Gli organi di potere legislativo nelle loro ramificazioni esecutive e negli enti che ne sovrintendono la valorizzazione e la fruizione creano tutto ciò. Questi enti finalizzano i propri sforzi in procedure che operano con l’ausilio di strategie direzionate verso un messaggio ben preciso, prestabilito e funzionale alle ragion di Stato e al sentimento nazionale. La storiografia e le pratiche di produzione contemporanea vengono monitorate e sono stabilite anche le classi di valore alle quali corrispondono i tipi diversi di divulgazione, la precisa traduzione oppure l’omissione completa.
In Italia il sistema di giurisdizione frammenta la responsabilità di questi processi attraverso numerose sedi periferiche che controllano i documenti ufficiali e i diversi settori di produzione culturale. La promulgazione normativa attua così una sorveglianza che spazia dalla regolamentazione del sistema dell’editoria alla conservazione del materiale archivistico.

Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, Dlgs 42/2004, stabilisce i confini in materia di tutela nell’art. 2, comma 3, affermando che «sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà». La dichiarazione d’identità patrimoniale continua nel comma 4 dello stesso articolo: «i beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela». È chiara l’esigenza di restringere il campo d’intervento a quei prodotti che costituiscono valore di civiltà, ma se analizziamo la relazione tra la cultura e la società notiamo che non può esistere alcun fatto sociale al di fuori della cultura, per cui il termine civiltà risulta usato con valore di significato, ovvero abolendo il ricorso al contesto e diventando di conseguenza un’interpretazione strumentale di un determinato significante. Lo Stato elabora un concetto di civiltà che gli è proprio, esclude il valore relazionale del senso che presuppone un fruitore che significa, un macrocontesto ed anche un microcontesto e una cultura individuale. L’uso dell’avverbio compatibilmente presuppone invece una tutela delle esigenze istituzionali tant’è che una certa fruizione, secondo la normativa, potrebbe potenzialmente comportare effetti negativi.

Lo stesso Codice entrando nello specifico degli archivi e quindi nella raccolta di documenti che interessano tutta la collettività, chiarisce la posizione dello Stato in merito alla consultabilità di tali documenti nell’art. 122, comma 1, affermando che «I documenti conservati negli archivi di Stato e negli archivi storici delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico sono liberamente consultabili, ad eccezione:

a) di quelli dichiarati di carattere riservato, ai sensi dell’articolo 125, relativi alla politica estera o interna dello Stato, che diventano consultabili cinquanta anni dopo la loro data;

b) di quelli contenenti i dati sensibili nonché i dati relativi a provvedimenti di natura penale espressamente indicati dalla normativa in materia di trattamento dei dati personali, che diventano consultabili quaranta anni dopo la loro data. Il termine è di settanta anni se i dati sono idonei a rivelare lo stato di salute, la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare;

b bis) di quelli versati ai sensi dell’articolo 41, comma 2, fino allo scadere dei termini  indicati al comma 1 dello stesso articolo».

Esiste un’ambiguità che chiarisce nuovamente la posizione assunta dal potere in merito alla fruizione. Giorgio Agamben esaminando il problema della legge in Walter Benjamin sostiene che, il sovrano è il potere che decide sullo stato di eccezione; il paradosso consiste nel fatto che il potere può sospendere una legge per determinati fini, ma l’eccezione è un tipo di esclusione che in linguistica corrisponde a ciò che non è, pertanto non è fruibile. L’ambiguità della legge risiede nel termine eccezione che apparentemente connota un’assenza di rapporto con la norma, mentre al contrario questo si mantiene in relazione con la regola attraverso lo stato di sospensione1. L’eccezione collegata direttamente con la norma diventa legittimo impedimento; Benjamin dice che «la tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda ad esso. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la produzione dello stato di eccezione effettivo»2.
Lo stato di eccezione esce dalla norma quando a priori si decide di sbarrare l’ingresso a determinati documenti o parte di essi; l’art. 41, comma 3, risulta palese: «nessun versamento può essere ricevuto se non sono state effettuate le operazioni di scarto. Le spese di versamento sono a carico delle amministrazioni versanti». L’abbandono consiste nello scarto aprioristico che esprime il carattere sovrano dell’imposizione; il potere che va oltre la regola della fruizione è addirittura sostituito dalla messa al bando.

Anche il mondo dell’editoria, in Italia, è sottoposto a codifiche di fruibilità. La SIAE (Società Italiana Autori ed Editori) nell’articolo 1 dello Statuto definisce la propria struttura e funzione dichiarando che «esercita l’attività di intermediazione, comunque attuata sotto ogni forma diretta o indiretta di intervento, mediazione, mandato di autori o loro eredi, rappresentanza ed anche cessione per l’esercizio dei diritti di rappresentazione, di esecuzione, di recitazione, di riproduzione e di radiodiffusione, ivi compresa la comunicazione attuata attraverso ogni mezzo tecnico delle opere tutelate». Il problema della riproduzione, dove manca l’hic et nunc dell’originale della stessa opera, è affrontato da Benjamin in quanto valore d’uso e d’unicità che trova le basi nel rituale; oggi è la prassi che lega l’opera d’arte alla politica e quindi all’economia. Prendere dunque come esempio la SIAE, istituzionalmente definito come un «ente pubblico economico a base associativa» che «assicura una ripartizione dei proventi dei diritti d’autore tra gli aventi diritto anche secondo l’effettivo contributo di ciascuno», significa porre l’attenzione sui fatti politici ed economici ai quali si connettono i fenomeni culturali.
I motori della censura e del controllo ramificati verso i prodotti definiti dalla legge come “opere dell’ingegno” e il volto speculare di queste operazioni si manifesta nell’indifferenza burocratica volta ad una presunta oggettività; si preserva così il valore economico più che quello culturale fatto di libera diffusione e comunicazione. La distanza tra lo spessore emotivo, relazionale e quello del sistema di scambio dei beni in cui consiste l’economia è così garantito.

A questo punto è lecito chiedersi come risponde il mondo della cultura, nello specifico quello delle culture visive, e come vengono configurate le pratiche quotidiane di rideterminazione delle leggi che impongono un freno alla libera comunicazione di informazioni.

L’istituzione pubblica supporta poco la scena artistica italiana formata su base internazionale; la scarsa incisività del sistema consiste anche nelle ridotte politiche economiche rivolte ad artisti e operatori della cultura. La legislazione e le regole del mercato hanno assunto sovranità politica al punto tale da destinare all’esilio numerosi artisti; l’abbandono del paese diventa un criterio di selezione che dimezza le possibilità di pluralismo espressivo. Nella cultura, come nel modello legislativo, vengono attuate le pratiche di esclusione parziale o quelle di omissione totale. Nonostante la relativa paralisi dell’apparato di competenza, molti artisti rivolgono la loro attenzione alle profonde dinamiche che formano questi meccanismi di censura.

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Adalberto Abbate, Mala tempora currunt, serie Rivolta, incisione su sanpietrino, 9 x 7 cm, 2009.
Courtesy Galleria Francesco Pantaleone
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Adalberto Abbate (http://www.adalbertoabbate.com) è tra gli artisti italiani che più sente l’esigenza di esprimere una critica sociale rivolta alle modalità di informazione, attraverso l’uso di simbologie e documenti fotografici che riattivano la memoria e le procedure che questa innesca nella coscienza. Un’indagine sul quotidiano che destruttura cinicamente modelli passivamente assorbiti dalle comunità. La provocazione riguarda l’universo di significanti usati nella pratica sociale della comunicazione spesso assoggettata a schemi di formazione di sensi e significati. Essi sono condizionati da logiche di formazione di valori che i poteri utilizzano per accreditare la loro presenza; un metodo per colonizzare il proprio territorio. La tecnica consiste nell’avvalorare tesi che portano alla costruzione della condivisione di una memoria e di un pensiero nazionale in contumacia, ovvero esclude velatamente la libera acculturazione dai propri programmi istituzionali. Il contesto storico e culturale assunto come legittimo, coincide con la volontà di fare della tradizione, veicolata in modo definito, la tacita base di riferimento di una comunità. Abbate decostruisce e ridetermina i dispositivi di tali immaginari che risiedono nella canalizzazione di una precisa informazione al punto da far emergere una nuova antropologia dell’immagine che straripa di sensi.

La serie Rivolta sembra testimoniare con ironia l’assopimento della società di fronte al taglio censorio che costruisce status e inventa valori. Passamontagna e bavagli irrompono sui volti immortalati come nei vecchi ritratti di famiglia, in Adunata sediziosa. Lo stesso accade in Dimostrazione gerarchica, dove la struttura della fotografia rimanda ironicamente a quelle di potere. Palermo says è strettamente collegato alle pratiche quotidiane che reinventano lo stato dell’anonimato subordinato alla disinfettata burocrazia istituzionale, che non prevede né l’emotività né tanto meno la libera presa di posizione, comunicata come esigenza pubblica da condividere.L’artista siciliano dà voce ai processi di formazione identitaria che passano da affermazioni e denunce comunicate al di fuori dei sensi della legge. Il lavoro di Abbate mette in moto una riflessione sulla responsabilità di ciò che vediamo, facciamo e diciamo.
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Adalberto Abbate, Dimostrazione gerarchica, serie Rivolta, stampa su pvc telato, 130 x 150 cm, 2009.
Courtesy Galleria Francesco Pantaleone

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Adalberto Abbate, Palermo says, serie Rivolta, installazione copie fotostatiche a parete (particolare), 300 x 400 cm, 2009.
Courtesy Galleria Francesco Pantaleone

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Il confronto con le leggi e il timore di sbagliare limitano la diffusione di pensiero che rompe comunque gli argini di ciò che è consentito. Per questo, adesso, continuo questa breve indagine sulla censura aprendo le porte alla scrittura in prima persona. Provo a mostrare come le forme di scrittura (ad esempio l’uso dell’impersonale nella saggistica) spesso considerate adeguate, ma velatamente soggette a manifesta censura, possano essere ribaltate (con l’uso della forma personale lì dove di consuetudine non si utilizza).

Ritengo fondamentale valutare quali siano i codici che caratterizzano la nostra cultura e quali le conseguenti strategie di omissione attuate dalle istituzioni per inventare nuovi sensi ad hoc. Per far questo mi confronto con Abbate, che come ho già detto, formula una critica allo schema censorio generale. Comincio chiedendo all’artista qualcosa sulla relazione che intercorre tra la politica e la comunicazione:

Inizio domandandoti come definiresti il rapporto tra il potere e la comunicazione nella politica del nostro paese.

A.A.: Non c’è niente di più sconfortante, oggi, del rapporto tra comunicazione e potere. Per me, tranne qualche caso isolato, la comunicazione é di regime e nient’altro.

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Se dovessi definire che cos’è censura?

A.A.: Una forma di abuso legalizzato. In Italia è solo la prima condanna poi segue l’indifferenza generale verso il censurato e l’atto d’abuso.

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Sostieni che sia stata recisa ogni connessione tra le comunità che agiscono in un determinato luogo e le storie che emergono nei documenti ufficiali?

A.A.: I documenti ufficiali ci forniscono da sempre un’immagine falsata. Sembrano sceneggiature cinematografiche mascherate da documenti ufficiali. Gli italiani vivono nel sospetto con attaccata addosso la sensazione di sentirsi imbrogliati. È il paese della dietrologia dove sospettiamo di tutto e di tutti.

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Pensi che le istituzioni impediscono una profonda lettura dei fatti e assopiscono gli individui in una storia dove i livelli di valore vengono codificati in virtù di strategie volte al controllo e all’assoggettamento incondizionato?

A.A.: Tutte le istituzioni, dalle università alla stampa dalla cultura alle strutture lavorative, sono omologate per seguire un unico modello di crescita, decrescita, periodo stanziale di crisi e successivo tentativo di ripresa, voluto da uno stato corrotto e volgare.

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La cultura che dovrebbe difenderci, la stampa che dovrebbe informarci, le università che dovrebbero istruirci alla comprensione della verità seguono invece strategie atte alla distruzione dei valori, del pensiero e del coraggio in ogni singolo individuo gettando la società nel più facile assoggettamento. Il modello di crescita infinita, il successo ad ogni costo, il proseguire senza ostacoli verso il futuro è finito, fallito. K.O.
Adesso voltandoci indietro vediamo solo macerie e confusione.
La codifica dei valori avviene attraverso Il sistema scritturale che è alla base della costruzione della memoria e della storia ufficiale di una comunità. Ritieni che archivi ed editoria esercitino un potere di persuasione volto al consenso di massa?

A.A.: Assolutamente si. È triste dirlo ma è quella massa che oggi si sente indifesa, colpita, imbrogliata ad aver costruito tutto questo, ad aver progettato il proprio suicidio.

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Che ruolo pensi abbia la comunicazione visiva all’interno di questo sistema?

A.A.: Mi viene immediatamente da pensare alla “ Simbiosi mutualistica”, ovvero a quelle strutture, azioni o persone ,che se pur diverse, unendosi traggono un reciproco beneficio, uno scambio di favori, di protezione e di interessi economici.

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Immagine e scrittura sono due mezzi con i quali si costruiscono simbologie e stereotipi che spesso fanno da fondamenta alla determinazione di ciò che può essere veicolato liberamente e ciò che non può essere divulgato. Uno dei temi che attraversa il tuo lavoro è quello incentrato sulle dinamiche di censura. La serie Rivolta può essere considerata una ricerca che opera sull’esigenza di mostrare tensioni e disagi nascosti nella comunicazione accreditata? Definiresti questa serie una decostruzione delle logiche censorie?

A.A.: Il progetto Rivolta del 2009 è un archivio di racconti e disagi sociali assopiti e di una rabbia che tre anni fa stava crescendo e che solo adesso vediamo rappresentarsi e purtroppo spettacolarizzarsi perdendo secondo me l’obiettivo iniziale e diventando una moda socio-culturale che il potere e la società digerirà prestissimo creandone persino un business. Tutta la cultura oggi è impegnata politicamente e socialmente. Oggi il promuovere un attivismo, una mobilitazione è uno status intellettuale. È semplicemente falso attivismo e ancora più falsa mobilitazione. La rivolta è un’azione pura istantanea e adesso è ben distante da ciò che accade. Potremmo parlare di un gioco sporco chiamato rivoluzione, e la rivoluzione, non è una cosa seria.

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Palermo says sembra dar voce alla comunità, a quell’urgenza di dire liberamente che spesso viene repressa o controllata. Gli aspetti meno visibili del sociale e le manifestazioni spontanee di critica e comunicazione possono rappresentare il motore di storie e pratiche non ufficiali che riconquistano il proprio spazio?

A.A.: La verità è nella comunicazione spontanea e nelle iniziative singole o di gruppo che si distaccano fortemente dalle pratiche ufficiali. Davanti a quelle scritte sui muri della città ho ritrovato un po’ d’entusiasmo, quello perso nei musei, tra gli artisti e gli addetti alla cultura e in tutto il sistema odierno dell’arte.

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Rideterminare il senso dei significanti. In molti tuoi lavori simboli imponenti come la svastica sono rivisitati. Quale significato ristabilisci o rovesci attraverso questo simbolo?

A.A.: Ristabilisco l’infamia storica di quel simbolo a rimarcare i difetti della società contemporanea, di un popolo complice del disastro in un mondo devastato dalla politica, dalle religioni, da ogni singola violenza e interesse personale e da una giustizia sempre più cieca e assassina.

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Concludo l’intervista e l’intero articolo dicendoti che uno degli aspetti più caratterizzante l’Italia, ovvero la burocrazia, rappresenta nella mia vita, così come in quella di molti individui, un elemento fondamentale di freno, omissione e controllo. Ti chiedo se anche tu rivedi in questa struttura una macchina di sterilizzazione delle identità e quindi un mezzo affine alle politiche di censura.

A.A.: Siamo così oltre, nel processo educativo evolutivo dove per risanare e salvare qualcosa dovremmo distruggere tutto e ricostruire. E nuovamente distruggere e ricostruire.

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Adalberto Abbate, Erziehungs – Entwicklungsprozess (Processo evolutivo educativo), stampa fotografica, 100 x 70 cm, 2004.
Courtesy dell’artista
 

1 Cfr. G. Agamben, La Potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, p. 259.
2 Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Walter Benjamin Gesammelte Schriften., a cura di Rolf Tiedemann und Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1972-1982, vol. 1, t.2: Abhandlungen ; trad. Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti. Torino, Einaudi 1997, p.33.

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Salvatore Davì ha conseguito la Laurea in Scienza e Tecnologie dell’Arte nel 2009 presso l’Università degli Studi di Palermo, nel 2011 ha frequentato il Master in Curatore Museale presso lo IED di Roma dove ha approfondito, attraverso la stesura di un progetto, il rapporto tra burocrazia, amministrazione pubblica, archivi e arte contemporanea; nello stesso anno ha co-curato la mostra della quarta edizione del premio “Talent Prize”. Nel 2012 ha collaborato con la galleria Zelle Arte Contemporanea di Palermo e attualmente svolge attività di free lance per la rivista Artribune.