POLITICS AND POETICS OF DISPLAYING
“Artistic replays” e differenza culturale
di Sally Price

Che cosa succede a un oggetto etnografico quando lascia il suo territorio d’origine e viene affidato – sia fisicamente che concettualmente – agli esperti, nelle cui mani verrà valutato, mostrato, interpretato e a volte anche ri-fatto? Lo storico Greg Dening, in un suo scritto sugli oggetti provenienti dalle Isole Marchesi, descrive questo processo facendo riferimento alle trasformazioni che accadono quando i reperti passano da un lato di una spiaggia all’altro e acquistano esistenza “solo in virtù del fatto che sono preservati nei musei, negli archivi e nelle biblioteche di tutto il mondo”. Dening scrive:

………….“To discover them in their Diaspora demands a pilgrimage to cities on every continent… Old men’s white beards, ankle-bands of hair, gorgets of turtle shell, stone tiki clubs, spears and paddles, stilt-stirrups, bowls and tapa-covered skulls… lie under glass or on shelves and walls, their colours faded to dull browns and greys. They seem disconnected and disembodied, trophies of adventurous moments, not expressions of the spirit… who made them. They tell no stories. No one really knows them. Usually they are marked “Marquesan this” or “Marquesan that”. …They are traded, exhibited, prized. They become part of aesthetic conversations about art or primitivity. …They become evidence in debates about dispersal points and cultural relationships. Or they are classified, made into typologies. …They become problems of preservation and committees will sit and wonder what is the effect of air-conditioning on old men’s beards. They are thus transformed, made over into a currency of other cultural values.”1

Nel pensare a queste trasformazioni durante il periodo delle esplorazioni o l’era coloniale, come ha fatto Dening, non è difficile trovare esempi del fenomeno che lui descrive – artefatti le cui associazioni con i loro creatori, proprietari e scopi culturali vengono abbandonate, maschere spogliate dai costumi di cui erano parti integrali, oggetti rituali trasformati in opere d’arte, suppellettili conservate in magazzini climatizzati per essere preservate in eterno. Dare una nuova vita a oggetti collezionati come testimonianza di culture lontane era parte della logica dell’“etnografia di salvataggio” che fu alla base della creazione dei grandi musei nel mondo. L’idea che salvare prodotti materiali provenienti da diverse società del mondo e preservarli per i posteri in luoghi gestiti dall’Occidente rappresentasse un lodevole contributo alla Scienza e all’Illuminismo, rimase largamente slegata da questioni riguardanti il rispetto delle intenzioni dei loro proprietari originali. Questo processo sostanzialmente ha dato carta bianca (ripeto: fisicamente e concettualmente) ai collezionisti e agli esperti dei paesi Occidentali, basandosi sul presupposto che i nativi non avrebbero compreso o apprezzato la suprema importanza di preservare la prova tangibile del loro modo di vivere “autentico” (cioè: relativo a prima del contatto con l’Occidente).

Durante l’ultimo quarto del ventesimo secolo, questi presupposti cominciarono a trovare una certa opposizione, quando antropologi ed altri cominciarono a interrogarsi sia sul merito scientifico che sulla giustificazione etica di tali appropriazioni. Il fatto che queste tendenze siano abbastanza recenti diventa evidente se paragoniamo gli approcci dominanti del XXI secolo con le linee guida per le raccolte etnografiche che hanno fissato i parametri dell’acquisizione di materiali nativi nella metà del XX secolo. Così come i manuali utilizzati all’inizio del secolo (per esempio l’Instructions Sommaires pour les collecteurs d’objets ethnographiques, redatto per la spedizione francese Dakar-Djibouti del 1930 e Notes and Queries on Anthropology del Royal Anthropological Institute del 1892, ripubblicati in 1951), il Guide to Field Collecting Ethnographic Specimens, redatto nel 1967 dall’illustre antropologo della Smithsonian Institution William C. Stutevant, era ricco di consigli utili su come inventariare, misurare, documentare, etichettare e preservare gli oggetti – persino su come spedirli al museo e come riuscire a farli passare attraverso la dogana.2 Ma nulla sulle questioni riguardanti la proprietà culturale. Come ricercatore sul campo, Sturtevant sosteneva con grande empatia le persone le cui vite costituivano il suo oggetto di studio, ma il suo approccio al collezionismo rifletteva lo stato del pensiero antropologico degli anni ’60, con alcuna elaborazione della sua criptica dichiarazione (p.11) secondo la quale “ci sono alcune questioni etiche in relazione al collezionismo”. Negli anni ’60 e nei primi anni ’70 registrare e fotografare clandestinamente rituali era l’ordine del giorno.3 Dopo tutto, come ci si poteva aspettare che i nativi capissero o apprezzassero l’importanza di introdurre i dettagli delle loro vite nelle pieghe della conoscenza scientifica?

A partire dal 1980 tutto questo cominciò ad essere sottoposto a critica, specialmente in Nord America: dubbi e interrogativi hanno iniziato a minare le comode certezze sulle priorità alla base del collezionismo e del display etnografico, e sui rapporti tra etnografi o altri collezionisti e le persone le cui vite stavano documentando. Questo cambiamento, che plausibilmente si può rintracciare nel Civil Rights Movement, fu nutrito da una serie di eventi e sviluppi sociali, dalle proteste contro la Guerra del Vietnam all’ascesa del femminismo e all’incremento del turismo globale. Inoltre, la decolonizzazione e le migrazioni contribuirono all’invigorimento delle politiche identitarie, e quindi a una partecipazione più aperta delle voci native ai dibattiti sul collezionare ed esporre la cultura materiale. Diventò sempre più chiaro che le persone le cui vite erano state oggetto delle esposizioni etnografiche erano perfettamente in grado di spiegare la loro storia, le loro pratiche culturali,  le loro tradizioni artistiche, e che lo facevano a loro modo, senza dover sempre passare per l’intervento di un interlocutore Occidentale.

Ma quanto è diventato diffuso questo spostamento verso il riconoscimento del valore e della legittimità delle voci native? La mia recente esplorazione del mondo museale francese mi dà ragione di essere pessimista.4 Propongo di guardare a pochi esempi specifici di oggetti che hanno “attraversato la spiaggia” dall’Australia per essere re-incorporati nel centro di Parigi come ornamenti del nuovo Musée du Quai Branly (MQB), costruito come una vetrina del XXI secolo sullo stato dell’arte delle culture dell’Africa, Asia, Oceania e America Nativa.

L’architetto Jean Nouvel ha proposto l’integrazione di artefatti Aborigeni nell’edificio del museo che ospita il bookshop, le aree di gestione della collezione e i programmi didattici. L’idea era quella di riprodurli sulle pareti e sui soffitti, sempre illuminati, per renderli visibili dall’esterno anche di notte. Cominciarono quindi le negoziazioni, avviate dall’ambasciatore francese in Australia, incluso uno scambio di lettere tra Jacques Chirac e il primo ministro australiano John Howard, prima che due curatori Australiani s’incaricassero dell’attuazione dell’operazione, in stretta collaborazione con uno specialista sull’Oceania del MQB ed altri. Furono stati selezionati quattro uomini e quattro donne in rappresentanza di diversi gruppi Aborigeni. La generosa attenzione riservata dalla stampa è stata incoraggiata dalle notizie di generose donazioni economiche da parte del governo Australiano e altre fondazioni. La visione ufficiale dell’Australia era che il coinvolgimento nel MQB avrebbe offerto un’opportunità unica per accrescere la visibilità internazionale degli artisti indigeni e dell’immagine dell’Australia nel mondo.5

Vediamo in che modo gli artefatti sono stati re-installati a Parigi  dagli architetti Cracknell & Lonergan, a cui fu affidata il loro allestimento nell’edificio del museo.

La sfida era quella di riprodurre delicatamente originali dipinti a mano, spesso nelle loro misure originali, utilizzando materiali di applicazione industriale, un processo che richiedeva adattamenti sia per quanto riguarda la scala che la texture. “Un invecchiato Tony Watson”, scrisse un giornalista, “fu visto con uno sguardo sconcertato mentre il direttore di progetto Peter Lonergan reggeva un pannello di metallo di mezzo metro che conteneva, enormemente ingranditi, i punti che aveva preso da pochi centimetri quadrati del dipinto originale di Watson… Dio solo sa cosa ne ha pensato il vecchio.” 6 E dopo che uno dei suoi quadri di rosso selvaggio fu scelto per essere inserito nel museo, non gli fu chiesto se per lui andava bene che Cracknell & Lonergan aggiungessero al quadro un po’ di verde. Le punte di lancia e le cicatrici di Lena Nyadbi, disegnate in un bianco e nero contrastante, furono convertiti in grigio su grigio – apparentemente perché si armonizzavano meglio con le esclusive residenze haussmanniane che si trovano dall’altra parte della strada sulla rue de l’Université; quando lei espresse la sua riluttanza nell’approvare il risultato (obbiettando che faceva sembrare la sua arte simile a delle salsicce) fu minacciata di essere estromessa dal progetto.7 Infine, il quadro di “Old Man” Paddy Bedford, “Thoowoonggoonarrin 2006” (Fig. 1) doveva essere sabbiato su una finestra al pianoterra, ma a causa di una trave di acciaio che attraversava lo spazio della finestra non fu possibile completare il processo, decidendo quindi di unire due dipinti di Bedford e di istallarli in un ingresso di servizio. Come un giornalista ha osservato, “La scala è cambiata, la storia è senza significato, i diritti morali dell’artista sono stati calpestati.”8

 

Fig. 1. Thoowoonggoonarrin 2006
Ocres et pigments naturels sur lin Belge

150 x 180 cm, Collezione privata. Courtesy Archive Journal

Fig. 2. Parte della “riproduzione” nel corridoio occidentale del Musée du Quai Branly
Courtesy Archive Journal. (Per l’istallazione per intera, si veda Fig. 3.)

 

Prima di una recente visita al museo, la mia comprensione dell’istallazione delle opere di Bedford si basava su una foto che avevo trovato sul sito del MQB (su una pagina che ringraziava i donatori che avevano reso possibile l’inclusione di opere d’arte Australiane) – Fig. 2. Mi aveva colpito il fatto che solo uno dei tre elementi del quadro era stato riprodotto, che era stato rovesciato da sinistra a destra, e che un tratto nero era stato aggiunto al di sopra. Il 23 maggio 2012, essendo stata chiamata dal museo a lavorare sui progetti in corso per l’aggiornamento dell’esposizione Maroon nella galleria principale, ho chiesto al curatore con cui stavo lavorando di mostrarmi l’istallazione del dipinto di Bedford. Siamo usciti, scesi per le scale di servizio, attraversato corridoi e finalmente siamo arrivati in uno spazio alto e stretto, apparentemente utilizzato per le consegne e severamente vietato ai visitatori del museo. Quello che avevo visto nella foto si è rivelato soltanto una parte della vera installazione. A destra delle scale, l’istallazione si stagliava per quasi nove metri – in un nero pieno, tranne che per una forma ovale in bianco, modellata su un frammento di un’altra opera di Bedford, Lerndijwaneman. Il corridoio era così stretto che non sono riuscita a fotografare nemmeno la metà dell’istallazione. Ma lo schizzo (Fig. 3) qui riportato può rendere la differenza tra il Thoowoonggoonarrin 2006 dipinto da Bedford e il Thoowoonggoonarrin 2006 nel Quai Branly.

Schizzo dell’istallazione di Thoowoonggoonarrin 2006 all’ingresso di servizio occidentale del museo.
Il grande rettangolo bianco rappresenta una finestra che si affaccia su un palazzo di appartamenti.
Per un’altra visione che riproduce le “Plans définitifs de l’installation de Paddy Bedford” del museo, si veda Claire Armstrong (ed.), Australian Indigenous Art Commission/Commande Publique d’Art Aborigène: Musée du Quai Branly, Paddington NSW, Australia, Art & Australia Pty Ltd. 2006, p. 22. Courtesy Archive Journal

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Tuttavia l’alterazione fisica delle opere d’arte non è il solo adattamento necessario, secondo gli obiettivi del museo, per soddisfare i bisogni del pubblico in questa capitale Europea. Le storie e i temi che le hanno ispirate dovevano anche essere spinti verso una conformità con il messaggio ottimistico che è al cuore del progetto del museo, inteso come un generoso omaggio a culture “dimenticate” e “disdegnate” di tutto il mondo. In quanto progetto ufficiale del Ministero della Cultura Francese, chiaramente il museo aveva bisogno di interpretare in maniera positiva quelle opere che alludevano troppo direttamente alle tensioni fra la Francia e l’Australia.

Prendiamo, per esempio, il trattamento di Judy Watson, artista basata a Brisbane, le cui delicate stampe hanno “una qualità eterea: figure mistiche, catturate nella spuma delle onde trasportata dal vento; la loro forma non è chiara, un miraggio vorticoso e spirituale.”9 Le opere di Watson hanno un valore fortemente politico; alcune fanno riferimento ai fiori tossici che lambiscono le acque di Brisbane, altre ai test nucleari francesi nell’atollo di Mururoa, e altre a delle lettere del 1940 dove i destinatari venivano informati che non potevano votare a causa della “preponderanza di sangue Aborigeno.”10 Dunque come rappresenta il MQB l’arte di Judy Watson? La targa che parla di lei nell’ingresso posteriore del museo (l’unico luogo dove i visitatori possono leggere dei contributi Australiani nel museo) dichiara che una delle sue opere è ispirata a “oggetti di collezioni museali dimenticate” e rappresenta “un toccante memoriale alla spoliazione sistematica delle persone indigene e delle loro culture” e che in un’altra delle sue opere, “ispirata da un sogno, l’azzurro rappresenta la memoria e la conchiglia è un simbolo ricorrente di resistenza e di sopravvivenza.”

Sullo sfondo dei test nucleari condotti dai Francesi nelle acque del Pacifico e contestando le politiche della Francia e dell’Australia sulla Guerra in Iraq, l’arte Aborigena ha offerto un vettore di solidarietà per gli interessi diplomatici di entrambi i paesi. L’iniziativa di promuovere rapporti armoniosi tra la Francia e l’Australia inserendo le opere Aborigene nell’edificio del museo ha fatto appello agli sforzi di un enorme insieme di persone – politici, diplomatici, avvocati, consulenti d’arte, cooperative locali, donatori, curatori, agenti, architetti, aziende di design, artigiani, ed altri – ognuna delle quali tendeva a cancellare gli artisti stessi, tranne che nei comunicati stampa naturalmente.

Persino la questione presumibilmente scontata di scrivere correttamente i nomi riflette la tendenza del MQB di trattare i suoi collaboratori non-europei con una nonchalance che sarebbe impensabile per le loro controparti europee. Come ha sottolineato Peter Seidel, amico intimo ed esecutore testamentario di Paddy Bedford, “il cartello fuori dall’edificio ha il nome di Old Man Gijo scritto in modo errato. Dovrebbe essere Nyunkuny e non Ngunkuny. Glielo abbiamo fatto presente tante volte… senza alcun risultato.” 11 Nello stesso spirito noncurante, il libro di Germain Viatte sulle regole di acquisizione fa riferimento a Bedford chiamandolo “Patty”, il portfolio inaugurale del museo ha optato per “Pady”, e nel 2011 il sito internet del museo dava sei risultati nella ricerca di “Pady” Bedford; Viatte è incappato in una certa confusione anche con altri nomi di artisti Aborigeni, sbagliando l’ortografia di sia Ningura che di Napurrula.12

In conclusione, lo sguardo primitivista lascia poco spazio per accordare qualunque genere di  priorità ai dettagli (come i nomi) quando si tratta di rappresentare individui non-Occidentali – dettagli che possono essere decisamente importanti per le persone coinvolte, ma che tuttavia perdono rilevanza una volta che si entra, per esempio, nell’ambito di un museo a Parigi. Questo contrasta con l’accurata attenzione per i dettagli che riguardano individui che hanno sostenuto il museo, come comandanti militari, esploratori, o collezionisti-donatori. Ci sorprenderebbe, infatti, se il MQB si riferisse a Charles Sandison, artista Scozzese le cui opere sono presenti all’interno del museo, come Irlandese, o se si lasciasse sfuggire un refuso nel nome del collezionista Jean Paul Barbier.

Vale la pena notare che la tendenza a trattare “l’Altro” con meno cura rispetto agli Europei o agli Euro-Americani si trova in molti contesti oltre i musei, e che può riguardare tanto il razzismo puro quanto il primitivismo. Nel 1897, quando al pittore Afro-Americano Henry Ossawa Tanner fu conferito un importante premio internazionale, “un giornale di Baltimora pubblicò una foto di un lavoratore portuale nero come se fosse lui; non avendo una foto di Tanner, gli editori hanno deciso che qualsiasi faccia nera sarebbe bastata.”13 E nel caso in cui si pensi che questo tipo di sgarbo non sia più praticato, il 19 settembre 2010, Le Parisien (uno dei giornali più letti in Francia) illustrò il necrologio del cantante di Guadalupe Patrick Saint-Eloi con una foto del cantante della Martinica Jean-Philippe Marthély.14

Nel loro ruolo di individui creativi, gli artisti tendono a vedere l’arte come un’impresa innovativa che permette il gioco e l’adattamento, e spesso sono abbastanza aperti nei confronti dei modi in cui la loro arte viene percepita e trasformata da altri in nuove condizioni. Ma il contesto più ampio del “replay” artistico – dal suo posizionamento in uno scenario specifico all’etichetta che gli viene data – ci ricorda che il rispetto per il lavoro di un artista riguarda molto più che la forma fisica dell’opera in sé. Peter Seidel ha scritto a proposito dei sentimenti del suo amico Paddy Bedford sul trattamento del suo lavoro a Parigi:

………..Old Man was very disappointed that the original vision for his piece was changed at late notice. Even so, he continued    to support the project because he assumed the French public would still get to see the work and through it would take the time to learn more about him and his story, his connections to country and the injustices that befell him and his people. He was not so much offended that his painting was rearranged. Rather, he was somewhat bemused by it, and found it artistically curious. He assumed (wrongly) that despite the composite and re-arranged nature of the work, it could nevertheless still serve as a portal through which the public could educate themselves about him and his art. Old Man passed away in 2007. He never had an opportunity to appreciate where in the museum the re-publication of the piece attributed to him was put. It is clear to his close friends that if he had, he would have been offended to the core that it resides in a place that is all but inaccessible to the public.15

Una volta che le opere d’arte, restando nella metafora di Greg Dening, “hanno attraversato la spiaggia”, dovrebbe essere assolutamente chiaro che esigono una cura speciale se devono essere risparmiate dalle conseguenze di un sguardo involontariamente denigrante.

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La Traduzione è a cura di Laura Estrada Prada e Giulia Grechi.
L’articolo è stato pubblicato in Archive Journal, vol. 2, 2012.
Ringraziamo Mathilde Villeneuve per averci permesso di pubblicarlo in italiano.

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1 Greg Dening, Islands and Beaches: Discourse on a Silent Land : Marquesas 1774-1880, Honolulu, University Press of Hawaii, 1980, p. 271-273.
2 Royal Anthropological Institute of Great Britain and Ireland, Notes and Queries on Anthropology, London, 1892 (6th edition, revised, 1951); Instructions Sommaires pour les collecteurs d’objets ethnographiques, Paris, Musée d’ethnographie (Museum national d’histoire naturelle) et Mission scientifique Dakar-Djibouti, 1931.; William C. Sturtevant, Guide to Field Collecting of Ethnographic Specimens, Washington DC, Smithsonian Institution, 1967.
3 Si veda, per esempio, la complessa tecnica che utilizzava Sturtevant per prendere clandestinamente appunti senza che i nativi si rendessero conto che le loro attività erano registrate. “A Technique for Ethnographic Note-Taking” fu pubblicato nel 1959 in American Anthropologist (vol. 61, p. 677-678) e assegnato per più di dieci anni a studenti laureati che stavano per intraprendere il lavoro sul campo.
4 Per la storia completa, si veda Sally Price, Paris Primitive: Jacques Chirac’s Museum on the Quai Branly, Chicago, University of Chicago Press, 2007 (o l’edizione completa, Au musée des illusions: le rendez-vous manqué du quai Branly, Paris, Éditions Denoël, 2011).
5 Rod Kemp [Ministro Australiano delle arti e lo sport],  “Australian Indigenous Art a Centrepiece of the Musée du Quai Branly,” comunicato stampa, 8 maggio 2006.
6 Jeremy Eccles, “Aboriginal Originals Woo French,” Financial Times, 20 dicembre 2006.
7 See Arnaud Morvan, « Traces en mouvement – Histoire, mémoire et rituel dans l’art kija contemporain du Kimberley Oriental (Nord-Ouest Australie) », Thèse doctorale, École des hautes études en sciences sociales et University of Melbourne, 2010, p. 126.
8 Ringrazio il giornalista Jeremy Eccles, che mi ha fornito questi esempi delle trasformazioni delle opere originali nelle versioni museali (emails del 13 e 14 luglio 2006). Un notevole catalogo con le opere degli otto artisti, prodotto per una distribuzione privata, fu finanziato dal governo australiano, il Musée du Quai Branly, la Harold Mitchell Foundation, la National Gallery of Australia, l’Australia Council for the Arts, e la galleria NSW. Illustra splendidamente i lavori degli artisti riprodotti da Cracknell & Lonergan sui muri e i soffitti del museo, ma non mostra nessuna immagine con le opere originali create dagli artisti.
9 http://nga.gov.au/landscapes/Wat.htm [visitato il 25 giugno 2012]
10 Michael Fitzgerald, “Veiled in Beauty: Judy Watson’s Finely Crafted Paintings Are the Lyrical and Spiritual Expression of Her Aboriginal Heritage,” Time Asia, 22 maggio 2005.
11 email del 28 maggio 2012.
12 Germain Viatte, Tu fais peur, tu émerveilles: Musée du quai Branly acquisitions 1998/2005, Paris, Musée du quai Branly & Réunion des musées nationaux, 2006, p. 61.
13 Romare Bearden & Harry Henderson. A History of African-American Artists from 1792 to the Present. New York: Pantheon Books, 1993, p. 93.
14 “Grosse erreur du journal Le parisien concernant la mort de Patrick St-Eloi,” http://www.blogu3.fr/Grosse-erreur-du-journal-Le-parisien-du-19-09-2010,55.html [visitato il 23 settembre 2010]).
15 email del 19 giugno 2012.

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Sally Price is an American anthropologist who has taught at several universities in the United States (e.g., Stanford and Princeton), as well as the Federal University of Bahia (Brazil) and the Sorbonne in Paris. Her regional focus is on the African Diaspora (especially Suriname and French Guiana), but she is best known for her critical studies of the place of “primitive art” in the imaginaire of Western viewers. She is the author, co-author, or editor of fifteen books, including I Primitivi traditi: L’arte dei “selvaggi” e la presunzione occidentale (Einaudi 1992). Other titles can be found at www.richandsally.net.