IL PARTITO PRESO DELLE COSE
Dal punto di vista delle cose. Rappresentazioni e classificazioni: feticci, enciclopedie, micromondi
di Tommaso Guariento

Se le merci potessero parlare, direbbero: il nostro valore d’uso può interessare gli uomini, A noi, come cose, non compete. Ma quello che, come cose, ci compete, è il nostro valore. Questo lo dimostrano le nostre proprie relazioni come cose-merci. Noi ci riferiamo reciprocamente l’una all’altra soltanto come valori di scambio. Si ascolti ora come l’economista parla con l’anima stessa della merce: “Valore (valore di scambio) è qualità delle cose, ricchezza (valore d’uso) dell’uomo. Valore in questo senso implica necessariamente scambio; ricchezza, no” “La ricchezza (valore d’uso) è un attributo dell’uomo, il valore è un attributo delle cose. Un uomo o una comunità è ricca; una perla o un diamante è di valore… Una perla o un diamante ha valore come perla o diamante. Finora nessun chimico ha ancora scoperto valore di scambio in perle o diamanti. Gli scopritori economici di questa sostanza chimica, i quali hanno pretese speciali di profondità critica, trovano però che il valore d’uso delle cose è indipendente dalle loro qualità di cose, mentre il loro valore compete ad esse come cose1.

Come gli antichi totem l’insieme delle merci non sarebbe che un sistema di classificazione e di conoscenze di sé della società per interposto oggetto. È producendo e scambiando cose una società non farebbe altro che riprodurre simbolicamente se stessa, la propria articolazione interna, le proprie divisioni2.

Come classifichiamo e rappresentiamo le cose? Qual è la differenza fra cose e persone? Come distinguiamo fra cosa e cosa? Nel momento in cui la distinzione fra animato ed inanimato sembra assottigliarsi inesorabilmente, possiamo ancora parlare delle cose come una sfera separata da quella umana? E le cose, dal loro punto di vista, possono elevarsi allo statuto di persone? Che una cosa possa diventare animarsi, diventare un ente dotato di coscienza, costituisce non solo il tema di alcuni film recenti (Autómata, Transcendence), ma anche l’oggetto di una seria riflessione filosofica su limiti ed aspirazioni della specie umana3. Quando la specie umana assume come possibile la realizzazione di un artefatto dotato di coscienza (di una mente simile o superiore a quella dell’homo sapiens), allora le vecchie questioni antropologiche del feticismo e dell’animismo tornano a porre nuovi interrogativi.

     È nostra intenzione proporre una breve riflessione intorno a tre modi di rappresentazione delle “cose” qui intese in senso generale come elementi di un qualsiasi raggruppamento o collezione. Le cose sono ciò che viene classificato, raggruppato e suddiviso all’interno delle ontologie4: questo perché ammettiamo che non vi sia un’unica scienza delle cose, ma molteplici sistemi di tassonomia.
     Il primo è quello del feticcio, l’oggetto animato – nel quale cui la cosa si ibrida con la persona: esso può agire, sentire, parlare, nuocere o aiutare.
     Il secondo è quello dell’ente medievale, le cose come entità dotate di proprietà ed attributi, così come sono descritte negli erbari, nei bestiari e nelle enciclopedie. Una cosa è identificabile come una forma stabile, composta da un numero finito di elementi. Il mondo delle enciclopedie medievali è come un’immensa Wunderkammer, la collezione finita di tutto ciò che esiste.
     Infine vi sono le cose come Objects, gli enti primi dei linguaggi di programmazione informatica, definiti da due soli elementi: le proprietà ed il comportamento. Tutto ciò che esiste può essere ridotto ad una raccolta di oggetti, proprietà e comportamenti nei mondi virtuali della programmazione informatica. E di questi mondi, noi che ne siamo gli utenti inconsapevoli, cosa sappiamo? È ancora valida la distinzione fra persone e cose? Come sono cambiati i nostri sistemi di classificazione e rappresentazione del mondo degli oggetti? Tre modi di pensare, classificare, rappresentare le cose: quali i rapporti, le sopravvivenze, le cesure temporali?

 

1. Feticci

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Fig. 1 Nkisi (Nkondi) congolese e Legba del Benin

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     Il termine feticcio nasce come definizione coloniale per una serie di artefatti d’uso rituale reperiti dai commercianti portoghesi fra le popolazioni della costa africana centro-occidentale (allora chiamata Guinea)5. La definizione più triviale di feticcio rinvia etimologicamente al verbo latino facere, inteso sia nel senso di costruzione artificiale, sia come fatum, destino (secondo la lezione di Du Brosses, autore del primo studio introno al feticismo inteso come categoria concettuale). La domanda che i comemercianti portoghesi ed olandesi si pongono rispetto a questi strani oggetti è: perché i nativi considerano gli artefatti ch’essi stessi hanno costruito come se fossero delle divinità? Perché li nutrono, porgono loro degli alimenti, perché credono che degli agglomerati di pietra, fango, capelli, terra, sangue ed altre sostanze siano in grando di compiere azioni a distanza (come uccidere o far ammalare qualcuno)?

      Ciò che oggi sappiamo rispetto a questi oggetti è che in realtà la loro natura è più complessa di ciò che appare della semplice apparenza estetica6. Oggetti come il Nkisi congolese ed il Legba del Benin (Fig.1) sono frutto di una complessa serie di azioni rituali, come hanno dimostrato Alfred Gell e Marc Augé. Il feticcio è fondamentalmente un medium, un oggetto che permette da un lato la comunicazione fra vari piani (immaente e trascendente, oppure fra un individio e l’altro). Esso è anche un contenitore: contine un anima o uno spirito, lo cattura e lo trasforma in strumento. Il Nkisi, come si può facilmente evincere dal suo aspetto, ha il potere di nuocere a distanza: è costrutito mediante una serie di identitificazioni successive: il legno nel quale viene modellata la figura del feticcio è infatti associato da un sacerdote allo spirito di un valoroso cacciatore. Quando l’albero associato al cacciatore viene tagliato si mescola la sua linfa a quella di un uccello sacrificato. Secondo le fonti etnografiche il cacciatore muore dopo dieci giorni. Ovviamente il cacciatore non muore perché viene tagliato l’albero, ma perché in un qualche modo è condannato a morte7. Poiché dal tronco d’albero “caricato” dell’anima del cacciatore si costruice il feticcio, quest’oggetto posside la facoltà di uccidere. L’aspetto che rende complesso il Nkisi non è dunque la sua forma, ma il processo della sua fabbricazione.

     Allo stesso modo, anche il Legba non è una semplice statua di terra, ma la sua costruzione implica una serie di passaggi obbligati. Anche in questo caso il feticcio non è un semplice “dio di terra”, ma una sorta di memoria artificiale.

Gli oggetti magici sono l’equivalente della scrittura, per le società senza scrittura, dei sortilegi e dei talismani negli ambienti colti pre-scientifici, […] Il dio oggetto (e sotto quest’aspetto Legba è il più spettacolare) costituisce l’istanza ed il luogo per mezzo del quale bisogna passare per andare da un individuo all’altro, da un punto all’altro o da un ordine simbolico all’alto, ma è anche da sé a sé poiché l’intimità e l’interiorità individuali sono plurali. L’oggetto simbolico ed il feticcio affermano e negano allo stesso tempo le frontiere8.

Con l’invenzione della scrittura assistiamo alla nascita di una memoria minerale. Dico minerale perché i primi segni vengono incisi su tavolette d’argilla, scolpiti su pietra, perché fa parte della memoria minerale anche l’architettura […]9.

Nelle sue varie forme il Legba funziona da segnale per le zone interdette e le zone accessibili, come traccia di un’avvenuta iniziazione, come memoria della genealogia delle famiglie e come memoria totale dell’intera società. Queste considerazioni etnografiche giungono però a posteriori: il primo contatto con le popolazioni della Guinea non avviene nel segno della reciproca comprensione, ma nella disastrosa forma della sottomissione. Quando gli Europei giungono in Costa d’Avorio ed incontrano le popolazioni locali, queste vennero categorizzate non secondo l’aspetto astratto ed universale della natura umana, ma come “oggetti”, cose sprovviste di un anima. Contribuisce a rafforzare questa definizione il fatto che proprio queste popolazioni avessero l’abitudine di considerare alcuni dei loro artefatti come esseri viventi o divinità. Si produce quindi una sorta di chiasmo antropologico ben più grave di quello che la posizione troppo democratica e conciliante di Bruno Latour ne Il culto moderno degli dei fatticci presenta. Da un lato abbiamo infatti dei collettivi di umani e non-umani che tendono ad attribuire un valore di agency (la capacità di causare una serie azioni, sia a livello sociale che fisico) ad artefatti considerati inanimati dagli Europei, dall’altro, gli stessi Europei considerano le suddette popolazioni alla stregua di merci, semplici oggetti di scambio sprovvisti di agency. Così infatti vengono definiti gli schiavi africani trasportati nelle Antille nel Code Noir francese del 1687:

Dichiariamo gli Schiavi essere mobili, e come tali entrare nella Comunità […] essi possono essere spartiti egualmente fra co-ereditieri […]10.

Poiché la distinzione fra persone e cose non è semplicemente una sottigliezza giuridica od ontologica, ma investe completamente l’ambito politico e sociale, la sua messa in discussione è allo stesso tempo una critica ai valori illuministici ed universalistici della modernità11. La cultura moderna europea introduce concetti come ideologia, alienazione, feticismo proprio per distanziarsi criticamente dalla non-modernità, ma allo stesso tempo considera la schiavitù come un fatto naturale all’esterno dei suoi confini12. Ed è tanto più naturale sottomettere e considerare le persone come cose, se queste “persone” non hanno raggiunto lo stadio necessario di “razionalità e civiltà” per adorare una divinità unica e trina, o per non sapere che il pane senza lievito ed il vino si possono trasformare in corpo e sangue di Dio.

 

2. Le cose e dio

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Fig. 2 Ibn Buṭlān, Tacuini sanitatis (Argentorati (Strasbourg): Apud Joannem Schottum librarium cum prærogativa cæs. maiestatis ad sexennium, 1531).

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Il modo medievale di conoscere il mondo è fondato su un universo del sapere chiuso e gerarchico. Le summae del sapere medievale non registrano ancora la differenza moderna fra qualità primarie (calcolabili ed universali ed analizzate dalla scienza) e qualità secondarie (relative alla cultura, alle tassonomie, ai discorsi)13. Per il sapere medievale gli oggetti del mondo (siano essi naturali, artificiali, immaginari o vegetali) sono riconducibili ad un elenco finito di elementi caratterizzati da una combinatoria finita di proprietà. Queste proprietà, che precedono la distinzione fra qualità primarie e secondarie, restituiscono un’immagine del mondo come catalogo o raccolta di cose:

L’enciclopedia [medievale] non intende registrare ciò che realmente c’è ma ciò che la gente tradizionalmente ritiene che ci sia – e pertanto tutto ciò che una persona istruita dovrebbe sapere, non solo per conoscere il mondo ma anche per comprendere i discorsi sul mondo14.

L’idea che il mondo sia un insieme finito di cose, legate da proprietà comuni in numero limitato, è sia alla base del modello di conoscenza medievale che di quello ellenistico, sul quale si fonda. La rappresentazione dello spazio cosmologico, sociale ed epistemologico di quel tipo particolare di ontologia che costituisce il complesso delle conoscenze medievali è caratterizzata da:

  1. un tempo ed uno spazio limitati
  2. un numero finito di elementi, ripartiti secondo classi in numero limitato
  3. un numero finito di proprietà che si attirano e respingono, distribuite in gradazioni diverse a seconda degli oggetti

Nell’ontologia medievale una cosa è dunque identificabile a partire da un numero di proprietà limitate, ed è inserita in uno spazio ed in un tempo chiusi. Prendiamo il caso particolare della rappresentazione della natura: fra medioevo e rinascimento possiamo comprende i meccanismi del mondo biologico per mezzo dei Tacuina sanitatis (Fig. 2):

Tacuinum è un nome ricavato dall’arabo che non abbiamo tentato di tradurre, al quale abbiamo aggiunto un suffisso latino. Il nome arabo originario era Taqwim as-sihha, Taqwim significava “tavola delle materie” e as-sihha “della salute”. Si tratta di proporre, in modo intellegibile e visuale, una sintesi delle conoscenze mediche dell’epoca concernenti sia gli alimenti sia tutto ciò che poteva influire sulla salute: la vita in casa e fuori, le diverse attività, le emozioni, fino alla scelta dei vestiti e all’influenza delle stagioni15.

Il tacuinum sanitatis è una tabella di comparazione che classifica piante, animali e minerali mediante la combinazione di sole quattro proprietà e loro gradazioni (freddo, caldo, secco, umido). Queste proprietà corrispondono ai quattro umori contenuti nel corpo umano (bile nera, bile gialla, flegma e sangue). A loro volta i quattro umori identificano i caratteri psicologici e fisiognomici degli individui (melanconico, collerico, flemmatico, sanguigno). Tale concezione dei rapporti fra mondo naturale ed umano risale alla Grecia del II secolo, ed in particolare alle teorie mediche di Galeno.
     L’antropologo francese Philippe Descola ha chiamato questo particolare tipo di ontologia analogismo, includendo in questa classificazione non solo l’episteme medievale ed ellenistica europea, ma anche il sistema cosmologico della Cina arcaica e quello delle popolazioni pre-colombiane dell’America centrale:

Intendo per [analogismo] un modo di identificazione che fraziona l’insieme degli esistenti in una molteplicità di essenze, di forme e di sostanze separate da scarti minimi, a volte ordinati da una scala gerarchica, di modo che sia possibile ricomporre il sistema dei contrasti iniziali in una densa rete di analogie che legano le proprietà intrinseche delle entità distinte16.

“Cosa” identifica nell’episteme medievale un aggregato stabile di proprietà discrete. Le cose appartengono allo stesso modo ai regni minerale, vegetale, umano ed artificiale. Come ricorda Umberto Eco, la funzione delle enciclopedie medievali era quella di registrare e raggruppare le cose secondo un sapere di tipo classificatorio-leggendario. Per questo nel Libro sulle proprietà delle cose, un oggetto come la calce viene descritto nei seguenti termini:

La calce è una pietra cotta dalla quale si produce la malta mescolandola assieme a sabbia ed acqua. La calce è detta viva secondo Isidoro perché, benché essa sia fredda esteriormente, pure contiene del fuoco al suo interno. Infatti quando aggiungiamo dell’acqua, il fuoco interno si manifesta. La natura della calce è molto particolare poiché quando è calcinata, essa è accesa dall’acqua, questa stessa acqua che spegne il fuoco; la calce è spenta dall’olio che invece ravviva il fuoco […] Secondo Platearius la calce è calda al terzo grado e quando è mescolata all’olio può guarire le vescicole e le piaghe purulente, la calce può anche ricucire le vecchie ferite, e può distruggere la carne morta che si è formata sulle piaghe […]17.

Osserviamo le modalità tipiche della classificazione delle cose nel ragionamento di un autore medievale: la calce è descritta secondo la sua funzione, secondo la composizione e gradazione degli elementi primi contenuti in essa ed infine secondo le opinioni gli autori antichi. La conoscenza delle cose nelle enciclopedie, negli erbari e nei bestiari costituisce un insieme di informazioni interessate (poiché di queste cose l’uomo deve potere far uso), leggendarie (perché a differenza della conoscenza scientifica non c’è un principio di falsificazione della verità dei fatti) ed infine limitate e combinatorie (perché gli oggetti vengono classificati in base alla composizione dei quattro elementi semplici). L’aspetto combinatorio è ancora più marcato nel Liber principiorum medicinae di Raimondo Lullo, un manuale di medicina medievale:

[…] noi ammettiamo che gli elementi siano in numero di quattro, cioè il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra: questo non ha bisogno di prove: è stato sufficientemente provato dai filosofi Antichi. Fra questi elementi, il fuoco è caldo per sé stesso e riceve il secco dalla terra; la terra è secca per sé stessa e riceve il freddo dall’acqua; l’aria è umida per sé stessa e riceve il caldo dal fuoco; l’acqua è fredda per sé stessa e riceve l’umidità dall’aria. Per esperienza e grazie ai nostri sensi corporei sappiamo chiaramente che alcune erbe sono di una complessione più calda che altre, altre sono più fredde […] Da questo noi inferiamo come principio ce vi siano quattro gradi […] Ogni elemento possiede per sé stesso queste gradazioni (prima, seconda, terza, quarta) quando entra in una complessione negli individui e nelle specie […] Le opinioni degli Autori possono contraddirsi, ma i principi naturali non possono contraddire la natura. Poiché gli Antichi hanno delle opinioni diverse sulle qualità e le complessioni delle erbe semplici, è necessario ricercare quello che nei loro discorsi si accorda meglio con i principi della natura e ciò che li contraddice. Bisogna inferire poi ciò che si accorda ai principi della natura, secondo le condizioni di quest’arte18.

Il ragionamento classificatorio di Raimondo Lullo porta alle estreme conseguenze lo stile delle enciclopedie medievali: il Liber principiorum medicinae non è strutturato infatti come un semplice erbario medievale, o come un tacuinum. Lullo mette al vaglio le opinioni degli Antichi con un metodo nuovo di classificazione, più combinatorio che empirico. Egli è infatti l’epigono di un modo ancora greco-ellenistico di concepire l’archivio del sapere. Il mondo appare agli occhi del filosofo catalano come un vasto assortimento di oggetti dotati di proprietà graduate e poste in rapporti di differenza ed opposizione fra loro. Per questo nel Liber principiorum medicinae i mali che affliggono il corpo umano (in particolare i vari tipi di febbre) vengono controbilanciati dall’assimilazione di erbe e decotti composti dagli elementi di tipo e gradazione opposto a quello della malattia. Se il soggetto presenta un eccesso di sangue (caldo) deve essere controbilanciato da un nutrimento prevalentemente freddo (contenente cioè una gradazione corrispettiva d’acqua):

La percezione ingenua comprende il mondo come un caos. Per superarlo, i predecessori di Lullo ordinarono per gradi gli aspetti del reale in funzione di somiglianze più o meno ampie. Lullo parte al contrario dalla differenza, opponendo i termini in estremi e facendo sorgere fra loro delle mediazioni. Egli concepisce un sistema logico molto originale che permetteva, per mezzo di operazioni ricorrenti, d’inventariare tutti i legami possibili fra concetti ed enti, ponendo così la nozione di rapporto alla base di ogni meccanismo del pensiero. A quest’arte combinatoria che egli inventò si ispirarono nel corso dei secoli Nicola Cusano, Charles de Bovelles e Leibniz prima, ed a seguire la linguistica e l’antropologia strutturale19.

Il discorso delle enciclopedie medievali ci restituisce un’immagine del cosmo compatta, interconnessa e polarizzata delle cose. La superficie variopinta degli enti rivela allo sguardo del sapiente una rigida combinazione di proprietà in tensione. Il regno sublunare composto da enti minerali, vegetali, animali ed artificiali è ingabbiato nella rigida circolazione dei quattro elementi e delle quattro proprietà. Dal caos della percezione ingenua descritta da Lévi-Strauss si passa ad un’ontologia chiusa, polare e scandita da un ciclo costante di generazioni e corruzioni (Fig. 3).

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Fig. 3 Circolazione degli elementi (generazione e corruzione) nel manoscritto alchemico Sylva philosophorum (seconda metà XVI sec.); Schema della circolazione degli elementi di Raimondo Lullo, da Anthony Bonner, The Art and Logic of Ramon Llull: A User’s Guide (Boston: Brill, 2007), pag. 59.

 

Nonostante lo sforzo d’imporre una forma chiusa e combinatoria all’universo del sapere, nonostante la rete logico-concettuale che Lullo getta nella materia informe ed oscura delle percezioni, l’enciclopedia medievale non raggiungerà mai la forma chiusa di un insieme contenente tutte le cose del mondo. Per gli autori medievali vi sono infatti oggetti che sfuggono alla conoscenza, mettendo in crisi la macchina classificatoria: tali oggetti possono essere monstra, meraviglie, esseri o fenomeni miracolosi i quali sfuggono alla caccia enciclopedica, frantumando o mescolando le classi e le specie. L’oggetto che più si allontana dalla possibilità di essere catturato è infondo il più pervasivo, ciò che dona origine e fine alle cose, ciò che si rivela in ogni cosa ed allo stesso tempo si distanzia infinitamente dal mondo materiale. Questa cosa speciale che eccede la conoscenza è Dio.

Dio è colui il cui potere non è numerato, il cui essere non è finito, la cui bontà non è limitata […] Ogni essere manifesta la compiutezza di una finitudine, e finite sono tutte le sue operazioni dal centro dell’essere. Non così è l’essere divino, ma dal centro informe opere passano all’esterno e all’atto […].

Dio è l’eternità che agisce in sé, senza dividersi e determinarsi: Le cose create agiscono e si determinano. Esse agiscono e mancano di continuità, poiché incontrano resistenza. E allo la fatica disperde la forza. Così non è nel creatore. Egli non si trasforma e non si determina. Né ha bisogno d’ombra per riposare la fatica20.

Dio non è composto di acqua, aria, fuoco o terra, ma da qualcosa di non numerabile né limitabile. Dio non è legato al ciclo delle generazioni e delle corruzioni (fig. 3), né alle tensioni fra gli elementi. Rispondere alla domanda cosa sia Dio significa interrogarsi sul problema dei limiti della conoscenza, e quindi, implicitamente sui limiti dei dizionari, delle enciclopedie, delle definizioni.

 L’universo ha significato ben prima che l’uomo abbia incominciato a sapere che cosa significava, questo va da se. Ma risulta anche che abbia significato, dall’inizio, la totalità dio che l’umanità poteva aspettarsi di conoscere. Il progresso della conoscenza scientifica non è altro che la rettifica delle classificazioni, la costruzione di raggruppamenti, la definizione delle appartenenze e la scoperta di nuove risorse, all’interno di una totalità chiusa e complementare con sé stessa […] Nel suo sforzo di comprendere il mondo, l’uomo dispone sempre di un surplus di significazione […] Questa distribuzione di una razione supplementare è assolutamente necessaria perché il significante disponibile ed il significato recuperato restino fra loro in quel rapporto di complementarietà che è la condizione stesa dell’esercizio del pensiero simbolico21.

 Funzione della parola è significare i concetti della mente […] L’anima non trova in sé l’idea o il modello di Dio, poiché questi sono pienamente lui stesso, ma non nel modo in cui egli è nelle cose. Dio è perciò dissimile all’anima secondo tutto se stesso, e non è compreso; dunque, neppure significato22.

Ciò che viene espresso nella teologia negativa del Libro dei Ventiquattro filosofi è l’impossibilità del linguaggio (e quindi del pensiero) di descrivere completamente Dio in quanto cosa. Nell’Introduzione all’opera di Marcel Mauss, Lévi-Strauss spiega nei termini dell’antropologia strutturale questa impossibilità. Il pensiero umano, nella sua forma selvaggia è simbolico: affida cioè ad un insieme limitato di elementi combinabili fra loro il compito di racchiudere in un mondo chiuso combinatorio l’aspetto discontinuo e caotico delle sue impressioni. Il sapere medievale e quello delle società studiate da Lévi-Strauss condivide questo di chiusura, completezza e finitudine. Vi è però, sia all’interno dell’episteme medievale che di quella delle società non-moderne studiate dagli antropologi qualcosa come un punto vuoto, un oggetto che eccede e supera la limitatezza dei simboli. Questo surplus di significazione produce un fenomeno particolare nell’esercizio umano della conoscenza: non ci si può avvicinare a questo oggetto combinando i limitati segni del nostro linguaggio, poiché questo processo porterebbe infatti ad un regresso all’infinito.

     Sono possibili sostanzialmente tre strategie di cattura della cosa che eccede la sua simbolizzazione (e potremmo qui aggiungere: della Cosa in sé). La prima l’abbiamo già introdotta, si tratta del feticcio, un oggetto materiale che però corrisponde anche ad un concetto trascendente (uno spirito, un demone, una forza), la cui funzione è quella di legare alla materia ed all’arte poietica dell’uomo la possibilità d’incatenare l’ignoto e lo spaventoso (la morte, i cadaveri, i fenomeni naturali primi di spiegazioni) in un’unica cosa-oggetto. Marc Augé, nel commentare la funzione sociale del Legba del Benin chiama questo tipo di funzione oggetto sociale totale:

Noi chiameremo dunque oggetto sociale totale qualsiasi oggetto situato, geograficamente ed intellettualmente alla frontiera fra sistemi simbolici, mediazione necessaria fra ciascuno di questi […] l’oggetto sociale totale è ciò per mezzo di cui ogni individuo può fare prova del proprio rapporto singolare all’altro, per questo è essenzialmente problematico […]23.

Possiamo quindi affermare che la totalizzazione di cui il feticcio è recipiente materiale si trasforma nell’episteme medievale in un’unità puramente concettuale. Dio è infatti ciò che eccede la possibilità di una definizione, ma anche ciò che rende possibile la vita e la morte, che causa i miracoli, e che non può essere definito né dal linguaggio umano, né dal supposto codice della natura (gli elementi e le loro gradazioni). Il terzo modo di catturare la cosa è invece rappresentato dalla forma del ragionamento matematico della rivoluzione scientifica.

[Prima dell’invenzione della scienza] lo spazio, il paradiso, la creazione e la terra cantavano la gloria di Dio e la grandezza del Suo piano. È precisamente il discorso della scienza, con l’emergenza della fisica matematica, che rende il mondo silenzioso […] la scienza afferma che esiste nel mondo un significante che non significa nulla (e non significa per nessuno). Che questo significante possa essere reperito nel mondo, un significante che è organizzato e che risponde a delle leggi, ma che non è legato ad un soggetto che può esprimersi per mezzo di questo – questa è un’idea completamente moderna. Il significante potrebbe esiste indipendentemente dal soggetto che esprime sé stesso attraverso una mediazione […] si tratta di un significante senza intenzione. La matematizzazione della fisica produce questo effetto24.

Come ha dimostrato Alexander Koyré, ciò separa la scienza moderna dalla cosmologia medievale (e con essa da tutte le società pre-moderne) è l’introduzione del concetto di infinito25. Ora, non serve ripercorrere la questione del passaggio della cosmologia aristotelica a quella di Keplero per spiegare l’introduzione dell’infinito nell’episteme europea – basterà ripensare la forma delle classificazioni degli enti nelle enciclopedie medievali. Mentre per Raimondo Lullo un oggetto è sempre una complessione di quattro elementi, quattro gradi e quattro proprietà, per la scienza moderna ciò che definiamo comunemente come “acqua” è a sua volta composto da due elementi ulteriori (idrogeno ed ossigeno), a loro volta scomponibili in elettroni, protoni e neutroni. Sappiamo che l’elettrone è una particella elementare, ovvero che non è scomponibile, e tuttavia l’operare scientifico ammette una proliferazione infinita delle sue componenti come ipotesi regolatrice. Al contrario il sapere di Lullo ipotizza un numero finito di componenti della natura. Questo può signifere semplicemente che il mondo non-moderno ammette che la totalità delle cose possa essere racchiusa in una lista finita, mentre per il moderno questa lista è invece indefinita o addirittura infinita. Questo significa, in ultima analisi, che il mondo ritorna a diventare un caos non totalizzabile e che non c’è un riposta definitiva alla nostra ignoranza sulle leggi dei fenomeni.

 

3. Un mondo di oggetti e relazioni

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Fig. 4. Programmazione orientata agli oggetti

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Fig. 5 Ontografia di Tobias Kuhn

 

Il tradizionale universo chiuso è in un certo senso più “aperto” dell’universo della scienza: implica l’apertura ad un infinto Altrove, mentre il modello della scienza è effettivamente chiuso – cioè non consente alcun al di là. L’universo della scienza moderna, nella sua insensatezza, implica […] l’abolizione di questo punto oscuro, il dominio dell’Inesplicabile che conserva le fantasie e garantisce il Senso. Al suo posto noi abbiamo un meccanismo privo di senso […] Non c’è alcun senso in mancanza di un punto oscuro, senza qualche dominio inaccessibile o impenetrabile nel quale proiettiamo le nostre fantasie […] Può essere che questo crescente disincanto dal nostro mondo attuale corrisponda alla nostra fascinazione per il ciberspazio: come se in esso potessimo ancora trovare un Limite oltre al quale il misterioso dominio della Alterità si apra26.

Ad esempio, quando guardi ad una persona, tu la vedi come oggetto. Ed un oggetto è definito da due termini: proprietà [attributes] e comportamento [method]. Una persona possiede delle proprietà, come il colore degli occhi, l’età, l’altezza, e così via. Una persona ha anche dei comportamenti come camminare, parlare, respirare e così via. In questa basica definizione, un oggetto è un entità contenente assieme proprietà e comportamenti27.

I sistemi di programmazione informatica istituiscono dei veri e propri micromondi28, degli universi chiusi composti da un numero limitato di elementi e relazioni. Il codice di un programma non è altro che la lista degli oggetti in esso contenuti, delle loro proprietà e delle loro azioni. Il sistema oggi più utilizzato per la programmazione è definito “orientato agli oggetti”. Questo sistema produce una sorta di astrazione della situazione reale che si vuole simulare (Fig. 4). Gli oggetti che costituiscono un micromondo informatico sono definiti principalmente da due elementi: le proprietà [attributes] ed il comportamento [method]. Un modo semplice per visualizzare il funzionamento di un programma informatico è quello delle ontografie di Tobias Kuhn (Fig. 5): si tratta di una legenda che introduce tipologie e relazioni di un micromondo composto da individui, tipologie e relazioni29. In sostanza da un lato abbiamo una lista chiusa di elementi (gli “enti” del nostro micromondo) e dall’altro vediamo questi elementi nelle loro relazioni reciproche (le “leggi fisiche” che determinano il funzionamento del mondo). Anche se questo è un esempio molto riduttivo del funzionamento di una programma informatico (e più in particolare di come funziona un mondo virtuale), tuttavia i principi di base sono facilmente inferibili.

     Se compariamo la presentazione del mondo naturale espressa nel tacuinum con quella del micromondo artificiale della programmazione informatica, scopriamo quindi una sorprendente analogia. Lo spazio chiuso, limitato e retto da rapporti combinatori ed oppositivi descritto da Raimondo Lullo viene replicato nella sua forma artificiale all’interno di micromondo creato artificialmente.

[…] l’ontografia implica una presentazione delle relazioni fra cose senza necessariamente fornire una chiarificazione o descrizione di alcun tipo. Come un bestiario medievale, l’ontografia può assumere la forma di un compendio, un elenco di cose giustapposte e sovrapposte; essa implica inoltre una certa interazione mediante la loro collocazione. La forma più semplice a questo tipo di costruzione è la lista, un gruppo di elementi unificati non dalla logica o dal potere o dall’uso ma dal nodo gentile di una virgola30

Il mondo descritto dalla scienza moderna non è strutturato come una lista di oggetti e relazioni, ma come un caos composto di particelle quasi-invisibili e quasi inosservabili connesse da relazioni non ancora chiarite. Esso si compone anche di distanze, misure e forme letteralmente non immaginabili. Ora, questo è il vero deserto del reale: qualcosa di troppo grande o troppo piccolo per essere compreso. Di fronte a questo indefinito caos, l’uomo istituisce dei sistemi simbolici ed immaginari secondari per rendere comprensibile e meno spaventoso il mondo in cui vive. Questi sistemi sono ad esempio i micromondi informatici, che in un qualche modo richiudono artificialmente il vuoto teologico lasciato dalla dipartita dell’ultimo fatto sociale totale della cultura europea, ovvero la religione. Il significato della morte di Dio è infatti questo: per i moderni non sarà più possibile vivere in un mondo chiuso. L’uomo moderno non può più gettare uno sguardo sulla totalità dei fenomeni: non può costruire un feticcio che totalizzi tutte le cose, non può immaginare o concepire razionalmente un Dio che sia cominciamento e conclusione di tutte le cose, non può, infine (e per ora) conoscere la lista finita delle particelle elementari e delle forze che regolano le loro interazioni.

     Poiché l’accumularsi dell’archivio delle conoscenze umane non è più apprezzabile agli occhi di un solo studioso e poiché la lista degli “elementi” primi della nostra episteme si è moltiplicata in modo spaventoso, non ci resta che ricostruire nuovi sistemi di senso, ovvero delle ontologie a misura d’uomo, dei giardini chiusi dove possiamo ancora esercitare la nostra fantasia ed i nostri desideri, come quando il lettore di un’enciclopedia medievale poteva viaggiare verso paesi dalle geografie impossibili o incontrare animali fantastici semplicemente socchiudendo gli occhi dopo aver lasciato il libro che reggeva fra le mani, trasognato.

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In copertina: Cabinet of Curiosities 1690s Domenico Remps

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1 Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Il carattere feticcio della merce ed il suo arcano. http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_01.htm#_ednref34
Emanuele Coccia, Il bene nelle cose : la pubblicità come discorso morale (Bologna: il Mulino, 2014), pag. 73.
3 Si veda Nick Bostrom, Superintelligence: Paths, Dangers, Strategies (New York: Oxford University Press, 2014).
4 Il dibattito antropologico introno alla questione delle “ontologie” è riassunto in Philippe Descola, L’écologie des autres : l’anthropologie et la question de la nature. Conférences-débats organisées par le groupe Sciences en questions, Paris et Dijon, Inra, respectivement les 29 novembre (Versailles: Quae, 2011).
5 Franco La Cecla, Non è cosa. Vita affettiva degli oggetti-Non siamo mai stati soli. Oggetti e disegni (Milano: elèuthera, 1998), pag. 48. Si veda anche Bruno Latour, Sur le culte moderne des dieux faitiches suivi de Iconoclash (Paris: La Découverte  ;Les empêcheurs de penser en rond, 2009), pag. 22.
6 Marc Augé, Le dieu objet (Paris: Flammarion, 1988); Alfred Gell, Art and agency : an anthropological theory (Oxford ; New York: Clarendon Press, 1998), pagg. 59–65.
7 Claude Lévi-Strauss, «Le sorcier et sa magie», Anthropologie structurale, (Paris: Plon 1958) pagg. 183–203.
8 Marc Augé, Op. cit., pagg. 84, 144.
9 Umberto Eco, La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia (Milano: Bompiani, 2011), pag. 11.
10 Si veda http://fr.wikisource.org/wiki/Code_noir/1685/orthographe_modernis%C3%A9e.
11 Si veda Roberto Esposito, Le persone e le cose (Torino: Giulio Einaudi editore, 2014).

12 Susan Buck-Morss, Hegel, Haiti and Universal history (Pittsburgh  Pa.: University of Pittsburgh Press, 2009), pagg. 21–45.
13 Per un approfondimento della distinzione fra qualità primarie e secondarie si veda Bruno Latour, «Another way to compose the common world», HAU: Journal of Ethnographic Theory, 4 (2014), pagg. 301–307.
14 Umberto Eco, Dall’albero al labirinto studi storici sul segno e l’interpretazione (Milano: Bompiani, 2007), pag. 33.
15 Otto Pächt, Le Paysage dans l’art italien : les premières études d’après nature dans l’art italien et les premiers paysages de calendrier (Brionne (France): Gérard Monfort Editeur, 1991), pag. 76.
16 Philippe Descola, Par-delà nature et culture (Paris: Gallimard, 2005), pag. 280.
17 Bernard Bartholomaeus, Le livre des propriétés des choses : une encyclopédie au XIVe siècle (Paris: Stock, 1999), pagg. 249, 250.
18 Ramón Lull, Principes de médecine. Traduction, introduction et notes par Llinarès, Armand (Paris: Klincksieck, 1992), pagg. 117–121.
19 Claude Lévi-Strauss, « L’ethnologue devant les identités nationales », in XVII Premi internacional Catalunya ,2005 Barcelone, Generalitat de Catalunya ; Paris, Académie Française, 2005.
20 Paolo Lucentini, Il libro dei ventiquattro filosofi (Milano: Adelphi, 1999), pagg. 73, 79. Si tratta di una raccolta di definizioni di Dio, compilata probabilmente nel XII secolo nell’ambiente del platonismo cristiano.
21 Claude Lévi-Strauss, Introduction à l’oeuvre de Marcel Mauss (Paris: PUF, 2012), pagg. 53, 54. Traduzione modificata.
22 Paolo Lucentini, Op. cit., pag. 85.
23 Marc Augé, Op cit., pag. 118.
24 Jason Glynos, Lacan and Science (London : Karnac Books, 2002), pag. 135.
25 Si veda Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito (Milano: Feltrinelli, 1970).
26 Slavoj Žižek, The plague of fantasies (London ;;New York: Verso, 1997), pagg. 207, 208.
27 Matt A Weisfeld, The object-oriented thought process (Upper Saddle River, NJ: Addison-Wesley, 2009), pag. 6.
28 Massimo De Carolis, Il paradosso antropologico: nicchie, micromondi e dissociazione psichica (Macerata: Quodlibet, 2008), pagg. 113–117.
29 Ian Bogost, Alien Phenomenology, or What It’s Like to Be a Thing (Univ Of Minnesota Press, 2012), pag. 37.
30 Ian Bogost, Op. cit., pag. 38.

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Bibliografia

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Bartholomaeus, Bernard, Le livre des propriétés des choses : une encyclopédie au XIVe siècle (Paris: Stock, 1999)
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—, Par-delà nature et culture (Paris: Gallimard, 2005)
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Weisfeld, Matt A, The object-oriented thought process (Upper Saddle River, NJ: Addison-Wesley, 2009)

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Tommaso Guariento, dottorando in Studi Culturali Europei presso l’Università di Palermo. Collabora con Ágalma e Janus. Quaderni del circolo glossematico. Si occupa di cultura visuale, antropologia e filosofia politica.

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