Gettare il corpo nella lotta
Sul corpo con importanza
di Sonia D’Alto

Tra gli oggetti esistenti,
solo il corpo umano
ha il potere
di colpire un’anima.
[Simon Weil]

 

 

Animale non ancora definito, come vuole Nietzsche, l’uomo è libertà finché non è condizionato da un’essenza. Egli, dunque, non si identifica con nulla, nemmeno con la propria singolarità. La libertà, dunque, più che un concetto, un valore o un diritto, è un’opzione o una forma di vita (bios), distinta dal semplice vivere (zoe): essa è dunque un’esperienza a cui dà forma non il pensiero astratto ma l’esistenza concreta.
Come emerge dagli studi di embodiment, a partire dalle novità proposte dai ritualisti di Cambridge, noi possiamo imparare attraverso l’uso del corpo, la conoscenza è corporale (in contrasto al celebrale); attiva, (non semplicemente contemplativa), e potenzialmente trasformativa (non meramente speculativa). Dunque il corpo innanzitutto come strumento di conoscenza e, dunque, anche di lotta. Ma il corpo è sempre rivolto-a, rivoltato-a, spossessato a se stesso e da se stesso, è luogo in cui risulta impossibile fare una differenziazione tra fuori e dentro, vuoto e pieno, proprio e improprio. Il corpo è ciò che esponendomi, mi espone agli altri e in questo senso risulta vettore del nostro essere-al-mondo. Tuttavia, occorre notare quanto già Merleau-Ponty ben sapeva, e cioè che in questo punto di contatto del corpo si mostra uno spazio d’assenza, una mancanza di aderenza a sé, una sorta di incompiutezza. Come a dire che nel sé del corpo abita anche l’altro da sé, l’estraneo a sé. Evidentemente qui viene meno ogni idea di intimità e interiorità, così come descritte dalla formulazione di Sant’Agostino: Extraneus extremus, interior intimo meu. Tuttavia nella sua superficie diventa veicolo di significazione. Non è un caso che la performance artistica non è rappresentazione ma presenta un carattere riflessivo, spesso di critica, messa in discussione, capovolgimento dello status quo. Per l’antropologia postmoderna questo significa che possiamo parlare di Homo performans, non in quanto animale di intrattenimento, quanto invece essere che si rivela a se stesso; Erica Fichte Lichte ricorda come la performance più che una riflessione estetica pone quesiti di tipo etico.
Il corpo, come ‘carnaio di segni’, per citare Bataille, nel campo artistico della Body Art squaderna un’eterogenea fenomenologia, che di fatto sposta nell’ambito estetico azioni di carattere quotidiano, politico, sociale, rituale, anti-repressivo, auto- riflessivo.

Valie Export, Genital Panic, 1969

I tratti distintivi della performance politica, nel cui filone rientrano numerose azioni, sono spesso tangenti l’ambito del genere. Molte sono le donne militanti, una delle prime attive sotto il profilo identitario-politico-di genere è sicuramente Claude Cahun, attraverso la sovversiva presentazione della “propria” identità. Va citata l’austriaca Valie Export. La sua Genital Panic (1969) è dimostrativa: l’artista si mostra seduta su una sedia mentre imbraccia un fucile e con gambe divaricate che mostrano l’apertura del cavallo dei pantaloni, o ancora Tapp und tast kino (Cinema Tocca e palpa, 1969), realizzata in strada dove lascia palpare il proprio seno tramite una macchina/scatola celibe. Yoko Ono in Cut Piece del 1964 seduta in ginocchio si fa tagliare gli abiti dal pubblico. Atsuko Tanaka espone il corpo ponendo in evidenza la questione del genere femminile unitamente a quello tecnologico: Electric Dress (1957), per esempio.
Marta Minujin e Niki de Saint-Phalle operano dall’interno del “Nouveau Réalisme” parigino una serie di azioni distruttive corporali.
Adrian Piper “incarna” il genere femminile e – incorporato a esso – la questione razziale. Studiosa di Kant, sempre vicina alla natura, seguace della metodica dello yoga, analizza il duplice polo natura-cultura, sondando per un verso tratti fisionomici e comportamenti umani e per l’altro costumi e discriminazioni sessuali e razziali. Tra le opere a riguardo si ricorda Mythic Being (1973), la costruzione di un alter ego maschile con cui performa per strada comportamenti stereotipati da giovane (tra)vestito/a con parrucca afro, pantaloni e occhiali da sole, realizzando un formulario di catalisi sociale.
Ivonne Rainer è autrice di un NO manifesto per la danza rendendosi complice di un minimalismo quasi orientale per la sua rivoluzione; come filmmaker dimostra oltremodo una forte impronta femminista e di genere: la rabbia contenuta dell’essere sessuale femminile di “A film about a woman who…”.
Pipilotti Rist utilizza il corpo attraverso la lente della videocamera. Sintomi psicosomatici, interferenze, sono alcuni degli elementi che troviamo già nella sua prima video-performance: I’m not the girl who misses much (1986), psicodramma linguistico e visivo, di genere e politico. Attraverso l’intervento su una frase di una canzone di John Lennon – Happiness is a warm Gun – e trasponendo la terza persona di “lei non è una ragazza” nella prima persona “io non sono una ragazza”, l’artista si inserisce all’interno di un discorso identitario e di genere, afferente agli studi teorici contemporanei dell’epoca e della performance (P. Phelan, 2001).
Martha Wilson tra il 1972 e il 1973 realizza Painted Lady e Make up the Image of my perfection/I make up the image of my deformity (1972) in cui esplora il maquillage, l’azione del truccarsi femminile diventa il mezzo che le donne utilizzano per cambiare la propria immagine e proiettarsi nella sfera pubblica. Ora, a più di dieci anni dall’inizio del ventunesimo secolo sembra che il trucco non basti più, c’è bisogno di una foto truccata, di un profilo allestito, per garantire che il corpo funzioni sulle piattaforme globali.

Martha Wilson, Make up the Image of my perfection/I make up the image of my deformity, 1972

Le questioni che si presentano sono molteplici e coinvolgono i temi del corpo, dell’identità del genere e delle sue mutazioni ecotecniche. Ma di più. Data la complessità, molte altre tematiche potrebbero essere prese in considerazione, a partire da una riflessione sul mutato concetto di realtà o, ancora, sull’estetizzazione della vita di ogni giorno, con la sua creazione di un effetto sanguisuga nella produzione di immagini. In tale contesto si inserisce il lavoro contemporaneo di Dries Verhoeven. L’artista si serve del corpo per un’indagine e una critica sociale e identitaria. Ceci n’est pas… (2013) è realizzata a Strasburgo. È un’opera straordinaria, legata al corpo e alla sua immagine, alla questione della sua esponibilità. In una scatola di vetro posta al centro della città, ogni giorno è esposta una persona diversa, persone spesso straordinarie per la fisicità. Si tratta di una sorta di vetrina che espone un campionario umano, una tassonomia grottesca, una sorta di antologia di Spoon River. Categorie umane, scomode, camera delle meraviglie, la buffonesca corte di Filippo IV di Spagna ritratta da Velasquez, queste sono alcune delle possibili suggestioni che nascono guardando le immagini di questo progetto su Google. I corpi umani esposti secondo categorizzazioni sociali, al servizio della corte del mondo capitalistico, che assegna le identità alle persone in base alla provenienza, al corpo, alla sua natura. Il grottesco realistico diventa in chiave moderna l’allusione allo smascheramento del paradosso: Ceci n’est pas…, recita il titolo magrittiano. Il pubblico/passante si ritrova ogni giorno a confrontarsi con qualcosa di inaudito per una vetrina, carne e corpo umano, esposti secondo categorie sociali, di genere o religione. Spesso corredate da cartellini didattici che non fungono da spiegazione all’intrattenimento dello spettacolo dell’arte, ma anzi da interrogativi e da sollecitatori di questioni sociali e umane.
Wanna Play (Love in the Time of Grindr) è un’altra opera di Dries Verhoeven, realizzata nel 2014, la quale incrocia problematiche ecotecniche ed etiche. In essa troviamo l’uso delle tecnologie più aggiornate, dell’app di Grindr, sistema di comunicazione e di chat utilizzato dalla comunità omosessuale, unito alla performance fisica dell’artista. Il progetto consiste in una performance in cui l’artista per quindici giorni conduce una vita completamente online, mettendosi a disposizione attraverso l’app di Grindr della comunità omosessuale vicina alla sua localizzazione web, e contattando coloro che vogliono incontrare l’artista per condividere qualcosa, che non sia una prestazione sessuale. Uno scambio di azioni condivise, quotidiane azioni che sono un’utopia per la realtà più diffusa della chat. Una partita a scacchi, una colazione insieme, lavarsi a vicenda, condividere le pagine di uno dei loro libri preferiti. Si tratta di una sorta di test che l’artista rivolge all’app, per verificare meccanismi sociali, psicologici; attraverso l’uso del media si realizza un’analisi antropologica.
Si potrebbe definire la posizione di Verhoeven nei confronti dell’app un misto di incertezza e di inquisizione sospettosa: egli ha notato, infatti, come la liberazione del corpo omosessuale nella sfera sociale e pubblica durante gli anni Ottanta, ovvero la nascita e proliferazione di bar, locali e spazi della città che tale comunità si ritagliava, sia stata progressivamente surclassata e superata dal territorio virtuale della chat. La sua paura e i suoi dubbi sono rivolti a una generazione di giovanissimi, che si ritrovano a scoprire la propria sessualità attraverso l’artificialità del contatto e l’accordo di un appuntamento il cui fine è solo quello sessuale. Quindi sceglie una chat che mira a condividere semplici scelte quotidiane; sceglie una città come quella di Berlino in cui ancora resiste un certo numero di ostili alla chat – Londra ha una viralità di adepti come 350.000 contro i 90.000 di Berlino. Nella capitale tedesca, rispetto alle altre città europee, ancora resiste la vita omosessuale nei locali o per strada. Dries Verhoeven vuole abbattere l’inquietante meccanismo con cui la chat si consuma: finti profili che combinano secondo bricolage stereotipati – busti maschili, immagini ritoccate con Photoshop – ogni sorta di finzione e costruzione possibile ai fini di un reale possibile contatto. È l’inquietante e materialistico scenario delle chat. L’artista quindi installa un container di vetro che, come una scatola, allude al contenitore-chat. Lo schermo del suo telefono è visibile al centro della città attraverso un grande pannello con sistema di illuminazione Led. Il volto dell’uomo che interagisce con lui sarà coperto, ma la conversazione viene trasmessa parola per parola. Il container trasparente rende visibile l’artista, esposto sotto gli occhi di tutti al centro della città, fungendo da contraltare per quella che è di solito la situazione di isolamento che coinvolge invece l’azione della chat. L’artista in questo modo solleva una serie di questioni e interrogativi. Innanzitutto è possibile che per alcuni sarà la prima esperienza dell’uso della chat in questione: essi si ritroveranno quindi nella vetrina pubblica anziché in quello che poteva essere un incontro privato, veloce e quasi nascosto. È qui evidente il tema del pubblico, inteso non solo come spettatore che osserva l’opera, ma come elemento che si trova a prendere parte all’azione, eseguendo personalmente la propria performance, come spesso accade nell’ambiguità frontale della performance. Non solo: qui si tratta anche un’idea di pubblico che afferisce alla sfera della comunità, intesa non solo come comunità artistica, ma come comunità della città. Ritorna la piazza – la piazza cittadina luogo di scambio e di dibattito – che nella modernità si era progressivamente ristretta al salotto con televisione e che, oggi, trova un’ulteriore restrizione nello schermo del proprio smartphone. Ma in Wanna Play? l’artista trova la soglia magica di trasformazione dove la piazza e lo smartphone convivono insieme.
Come si vede, il gioco rituale della comunità concentrato sulla comunità omosessuale solleva interrogativi che appartengono alla comunità in generale. L’idea di spazio e di pubblico sono cambiati così velocemente che spaventano. Gli effetti sono molteplici, da contaminare anche la sfera degli affetti. Si può incontrare qualcuno senza che si cada nel circolo vizioso di voler fare esperienza anche con gli altri dieci che attendono un appuntamento e continuano a inviare immagini, gif e segnali dalla chat? La cena in un incontro non è più un passaggio obbligato. Le domande che si pone Verhoeven sono al limite dell’inquietante: è possibile che con il tempo, la piazza, lo spazio pubblico diventino solo esclusivamente un luogo di passaggio, e il vero contatto avvenga sulle chat, finalizzato ad un incontro veloce successivamente? Che valore hanno i rapporti? Come avvengono gli incontri? Che cos’è la prossimità in questa realtà smaterializzata e sciolta nel virtuale?
La sua visione negativa della chat conduce l’artista a intitolare un paragrafo del suo comunicato di Wanna Play? quale “armadio”. Questo perché egli vede un possibile inscatolamento della comunità omosessuale – ma anche etero – riposta nella sicurezza dei corpi finti esposti nei profili dei social e delle chat e nascosti nella realtà.
Potrebbe a questo punto risultare utile un richiamo a Benjamin, soprattutto per comprendere questioni dell’immagine ritoccata che viene usata nei social per falsificare e rendere appetibile il proprio profilo. Il mercato di Grindr e la sua piazza virtuale che mette a disposizione espone immagini-cartoon, false illustrazioni, si potrebbe infatti associare a quello che Benjamin definiva valore espositivo, che si manifesta attraverso un’alleanza tra statistica e fotografia. La post-produzione, la valutazione critica (mi piace, non mi piace), il commento, il riutilizzo di immagini, l’archiviazione, in generale un’attività da bricolage. Tutto questo si manifesta nel concetto di performatività, l’utente è perennemente attivo come riproduttore, trasmettitore, trasformatore.
Il corpo, come emerge, ha le capacità di generare situazioni di crisi e di attivazione di nuovi processi sociali a partire da un’azione di meta-commento sociale che si realizza secondo forme rituali e ludiche propria della performance. Ancora un esempio è dato dal lavoro degli artisti americani Coco Fusco e Guillermo Gómez. Le loro performances si ispirano alla cultura post-colonialista, al razzismo e alla globalizzazione e prestano particolare attenzione ai meccanismi percettivi dello spettatore che inevitabilmente ne testimoniano il proprio riferimento culturale.

Coco Fusco e Guillermo Gómez, Two Amerindians Visit…, 1992

Nella performance itinerante Two Amerindians Visit…(1992), i due performer sono rinchiusi in una gabbia d’oro e presentati come nativi d’America, provenienti da una piccola isola del Golfo del Messico, che per molti anni era sfuggita all’esplorazione da parte degli europei. Si presentano come due mirabilia, non come uomini, ma quali oggetti da spettacolo e da intrattenimento che, per il loro statuto identitario, risultano essere culturalmente inferiori agli uomini occidentali. La scelta del luogo in cui portano la performance è mirata a sondare il rapporto tra tipologia di spettatori e tipologia di percezione. Per esempio, se portata in un museo o in una galleria d’arte la loro performance viene recepita come azione artistica; se condotta in un museo di scienza naturale viene recepita come forma di esposizione etnologica; se nella piazza di Madrid, Plaza Cristobal Colón, come una commemorazione per la scoperta dell’America. Inoltre, gli artisti sono riusciti a rovesciare il discorso attivato con il pubblico. I due performer, dall’interno della gabbia, controllano e registrano le reazioni del pubblico. In questo modo, gli spettatori, a loro insaputa, assumono la posizione dei “selvaggi”, osservati, ispezionati e controllati da altri. Notiamo come gli artisti hanno generato una trasformazione di significati, un mutamento di ruoli, limitato tuttavia nei confini spazio-temporali della performance. Pena e Gómez lavorano molto confrontandosi con i temi del post-colonialismo, della globalizzazione, del multiculturalismo e del “glocale”. Lucy R. Lippard, nell’analisi del processo tra globale e locale, si esprime in questo modo: «il nazionale, il glocale, le narrative collettive sono accessibili già a partire dalla storia di una famiglia: chiedendosi semplicemente perché i suoi componenti si sono mossi da una città all’altra o da una nazione all’altra, perché hanno guadagnato o perduto quel lavoro, si sono sposati o non si sono sposati […] Un punto di partenza per esempio è la semplice ricerca del posto dove si vive o dove si è cresciuti. Chi viveva prima lì? Quali cambiamenti sono stati fatti? Quali persone native abitavano lì? […] Questo tipo di ricerca nell’appartenenza sociale è incorporata nell’arte interattiva o partecipativa, nella visione collettiva di un luogo […] Bisogna guardare se stessi criticamente, a seconda dei vari contesti sociali, come abitanti, utenti, turisti, e collegare e contestualizzare il nostro ruolo di partecipazione nei processi naturali che li formano e nel futuro» (L. R. Lippard, p: 324, t.d.a).
Probabilmente nella complessità quotidiana, in generale, gli artisti che si occupano di performance pubblica devono, inevitabilmente, confrontarsi anche con il glocale. L’azione pubblica mira infatti ad entrare e a disturbare le regole della comunità sociale, la quale è sempre più contaminata, divisa tra il locale e il globale: il glocale, appunto.
Gli artisti, in questo senso, si trovano ad esporre le contraddizioni della globalizzazione, i suoi processi di alienazione e di promozione, il dislocamento e l’impoverimento che produce. Si sente, quindi, spesso l’esigenza di riattivare le condizioni e il contesto del locale, partendo dal personale dell’artista, senza dimenticare che la persona è parte di una comunità politica, così come l’atto performativo quasi sempre esegue la realtà sociale di una comunità. Dries Verhoeven, ad esempio, in Wanna Play? si fa interprete dei comportamenti sociali della comunità omosessuale di Berlino, di questioni di genere, indagando, attraverso la verifica di meccanismi della chat utilizzata, problematiche appartenenti alla comunità globale.

Dries Verhoeven, Wanna Play?, 2014

Il corpo è assunto come medium artistico, come luogo di presentazione; la natura soggettiva del proprio corpo si innalza a universalità fisiologica e tenta di creare un’alternativa culturale. Il corpo è condotto a testimonianza del ‘qui e ora’, come possibile risposta e veicolo di fronte allo smarrimento e al senso di catastrofe che si vive nel dopoguerra, e che continua sfrontatamente, con la connessa perdita dei rapporti con la realtà e con gli altri, nella nuova società consumistica.
La volontà è quella di dare spazio al naturale, all’istinto e al fisiologico contro il costruito e l’artificiale che determinano nuovi dispotismi storici. La banalità del singolo corpo si fa presto reazione.

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Sonia D’Alto, classe 1990, è studentessa del corso magistrale di Storia dell’Arte presso la Federico II di Napoli, laureanda con una tesi di estetica sulla performance live e quella mediata. Durante il mio percorso universitario ho integrato due soggiorni all’estero, il primo tre anni fa in Portogallo, e l’ultimo qualche mese fa a Vienna, dove ho aggiunto ai miei studi teorici anche la partecipazione al corso di Performance Art presso l’Accademia di Belle Arti di Vienna e la mia partecipazione a due mostre. Ho preso parte nel 2014 alla Scuola Conia, due settimane intense di studio e analisi sul problema della rappresentazione artistica organizzate da Claudia Castellucci, in Emilia Romagna, e volte a un ciclo di più anni da proseguire in periodo estivo. Sono stata tirocinante presso istituzioni e gallerie artistiche (Fondazione Morra; Galleria Alfonso Artiaco). Scrivo saltuariamente articoli di report su mostre per il giornale Artribune. [Sono interessata alle belle arti come luogo di ricerca personale e universale, nell’autentico e l’inautentico, come necessità insufficiente che pure avviene, una scelta tra i numerosi filtri afferenti alla realtà].