Discomfort
3x5: vivere nel proprio piccolo carcere
di Valentina Rizzo

Introduzione
Il corpo, come ricorda Mauss, è il primo e principale mezzo tecnico di cui dispone l’individuo. È al centro di un continuo interscambio tra l’individuo e l’ambiente che lo circonda (Mauss, 2000, 387). In questo contributo voglio dimostrare che l’abitare uno spazio piccolo e circuito contribuisce a modificare la percezione del proprio corpo, partendo da una esperienza di campo in un carcere adulto. Gli atteggiamenti che derivano dalle dinamiche corporali, quelle legate ai cinque sensi, problematizzano il rapporto dualistico di natura/cultura, rendendo l’opposizione tra i due termini superata. Come sostiene Bourdieu, l’habitus (l’abitudine) da vita a pratiche che tendono a riprodursi con regolarità, delle routine non intenzionali. La sedimentazione prolungata in un luogo produce quindi un legame tra il corpo e il territorio, e l’abitudine quindi sarebbe una conseguenza dell’abitare: secondo John Dewey, «mediante le abitudini [habits] formate dalle nostre interazioni con il mondo, noi “abitiamo” [in-habit] il mondo. Esso diventa un luogo d’abitazione [at home], e il luogo d’abitazione [the home] è parte di ogni nostra esperienza» (Pavanello, 2010, 75-76). La prigione perché struttura chiusa e autoreferenziale offre significativi esempi di uomini che producono tentativi di conservazione delle abitudini passate, se vogliamo giocare in termini assoluti, diciamo pure da liberi. La prospettiva emergentista di Tim Ingold fa meditare sul dato che i fenomeni biologici siano intrecciati dinamicamente con le interazioni dei molteplici elementi del sistema di riferimento culturale. L’osservazione attraverso la lente del pensiero ecologico indica tre aspetti d’indagine, d’approccio formale, di temporalità e di tipo relazionale. Tenere presente queste categorie indica come l’abitare abbia senso come agire e dunque come sviluppo delle abilità (Ingold, 2001, 128). Per anticipare una delle questioni di cui si tratterà in seguito, si nota frequentemente come la coscienza di subire un cambiamento, determinato dall’ambiente, anche materiale, si leghi alla patologizzazione. Un esempio significativo è legato alla miopia determinata dalle sbarre e dalle reti alle finestre. A prescindere dal dato inteso come vero o falso, è importante osservare come la bio-medicina, considerata vera in assoluto, diventi strumento di diritto. D’altra parte passare da detenuto a malato, sposta completamente l’ago della bilancia in un discorso su vittime e colpevoli. Questa è certamente un’interpretazione che tende ad adattarsi a un luogo che depriva di una vecchia identità per costruirne una a partire da una pratica proprio abitativa. Esaminando il volto nascosto della parola tedesca bauen, Heidegger risale all’originario buan, che vuol dire abitare: «Che significa allora: ich bin, io sono? L’antica parola “bauen”, a cui si ricollega il “bin”, risponde: “ich bin, du bist”; vuol dire: io abito, tu abiti. Il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi siamo sulla terra, è il buan, l’abitare. Essere uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè abitare» (Heidegger, 1976, 96).

3×4
Le carceri sono intese secondo ordinamento penitenziario come luoghi atti alla rieducazione, da questo segue che le celle siano adibite all’esclusivo scopo del pernottamento. Eppure nei fatti le persone detenute passano circa ventidue ore in cella1, così l’abitare si riduce alla negoziazione continua delle proprie vecchie abitudini con i compagni facendo così i conti quotidiani con la struttura. Diciamo, nei fatti, poiché da regolamento le ore d’aria sono due (una al mattino e una al pomeriggio) in realtà le regole cambiano di struttura in struttura e dalle possibilità dei detenuti con pena definitiva di frequentare attività educative e formative.
L’attuale configurazione degli spazi carcerari è una diretta dipendenza dell’emergenza di ordine pubblico che ha caratterizzato (soprattutto) la seconda metà degli anni Settanta: la nascita di un nuovo tipo di criminale politico, come gli aderenti al movimento brigatista. Questi, contrariamente agli altri detenuti, non devono essere allontanati solo fisicamente dalla società, ma in virtù dell’appartenenza ad un’organizzazione strutturata di stampo criminale, devono essere impediti e controllati in ogni forma di comunicazione con l’esterno. Si assiste a una sempre più marcata tendenza alla realizzazione di strutture detentive compatte, caratterizzate dal prevalere delle misure di sicurezza, di contenimento e di chiusura verso l’esterno, nelle parole dell’architetto del Ministero della Giustizia Leonardo Scarcella, “contenitori umani, contenitori di disperazione” (Scarcella, 2011, 53-69). Il tema dell’architettura delle carceri in Italia, dei loro spazi e del rapporto di questi luoghi con la città è stato a lungo dibattuto in occasione della XII Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, dove, all’interno del Padiglione Italia, lo studio di architettura e ricerca U-BOOT ha organizzato la giornata di studio “Carcere Spazio Urbano. Il confine tra Città e Periferia penitenziaria”. In quest’occasione, l’architetto del Ministero della Giustizia Leonardo Scarcella ha aperto il suo intervento partendo dal presupposto che parlare di architettura sia assolutamente necessario, poiché solo questa è in grado di trasformare gli spazi in luoghi. L’architetto Scarcella precisa:

Se non si decide qual è il luogo e qual è la funzione del carcere sarà difficile per gli architetti progettarlo. Il carcere deve essere inteso come un organismo spaziale e culturale che deve rispondere a funzioni specifiche. Senza la definizione di queste funzioni è difficile progettare un nuovo (un altro) carcere […]. Nella riforma del ’75 erano indicate le funzioni specifiche cui si sarebbe dovuto ispirare il nuovo carcere: il recupero sociale del detenuto, il massimo rispetto per la persona, l’assistenza, la formazione e la possibilità di riconsegnare questa persona alla società. A dispetto della bontà della legge del 1975 in Italia si è realizzata l’emergenza che ha bloccato ogni spirito innovatore e ogni ricerca sul tema.

Il luogo del carcere è quindi legato strettamente a quella che viene comunemente intesa come la sua principale funzione: l’opera ispiratrice dell’odierna regolamentazione dei diritti umani, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria cita così: «il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti è di perfezionare l’educazione» conferendo al carcere lo spirito di un luogo di riparazione alla colpa sociale da espiare e di rieducazione è tipicamente illuminista). Il tema della funzione del carcere è determinante per comprenderne le caratteristiche architettoniche, in special modo considerando che ad oggi, in Italia come anche altrove, lo spazio della detenzione non è tanto quello del carcere, ma quello della cella uno spazio spesso non più ampio di 3×4 m condiviso tra due o più detenuti che ci vivono per quasi ventidue ore al giorno. Gli altri spazi che il detenuto “abita” sono quelli comuni dell’“ora d’aria” e di contatto con l’esterno (dove vengono svolti i colloqui). Lo spazio all’interno del carcere è “indifferenziato”, uguale per tutti e non rappresenta alcun concetto o forma architettonica di identificazione di un luogo: esso, quindi, (al di fuori di alcuni casi particolarmente felici) non è solo alienante, è pure mortificante. Il peso dell’asetticità degli spazi è più che altro rivolto ai familiari. Rendere uno spazio un luogo accogliente è uno degli argomenti su cui conviene chiunque assista ai colloqui o alle feste delle famiglie. Il detenuto vive spesso l’“esterno” non come una meta da raggiungere, un luogo a cui tornare, ma come una realtà spaventosa: l’enorme differenza tra la vita all’interno e quella all’esterno della prigione crea uno scarto insanabile che rende traumatica l’esperienza del ritorno alla “normalità”. Una maggiore vivibilità dello spazio circostante lo invoglierebbe maggiormente ad uscire e cambiare. Sarebbe quindi auspicabile stabilire un clima di serenità in modo da far vivere ai detenuti la loro condizione con maggiore coscienza del mondo esterno e di coloro che lo vivono diminuendo il peso superfluo dell’angoscia; la famiglia godrebbe di luoghi di incontro meno austeri, freddi o indifferenti, allentando il tedioso scompenso che porta i familiari delle persone recluse.

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Identità per privazione
L’identità è di natura cangiante, un processo costituito da continue perdite e nuove acquisizioni. Remotti considera a questo proposito che l’universo di simboli e significati a cui apparteniamo obbedisca alla regola della mutazione e dipenda quindi dalle nostre decisioni. In questo modo si ribadisce l’idea che l’universo di simboli e significati a cui apparteniamo obbedisce alla regola della mutazione, l’identità, allora, non inerisce all’essenza di un oggetto, ma dipende dalle nostre decisioni. L’identità è un fatto di decisioni. E se è un fatto di decisioni, occorrerà abbandonare la visione essenzialista e fissista dell’identità, per adottarne una di tipo convenzionalistico (Remotti, 1993, 34). La costruzione dell’identità e quindi un processo sostanzialmente attivo e partecipativo, che interessa universalmente tutte le società ma in modi molto differenti: la costruzione e la trasformazione delle peculiarità identitarie si definiscono, secondo Remotti, sulla base di un quadro teorico chiamato antropo-poiesi.
Attraverso questa prospettiva si può osservare il fenomeno costruttivo seguendo tre livelli:

Livello I: antropo-poiesi: definizione di forme umane date;

Livello II: antropo-poiesi: scelta consapevole di forme umane date;

Livello III: antropo-poiesi: invenzione di nuove forme di umanità.

L’uomo, nel suo movimento nell’ambiente, scopre e definisce alcune tipologie e tratti umani ricorrenti, nella definizione di Remotti, delle «forme umane date». Il momento successivo è quello della scelta, per l’individuo su quale forma assumere, con quale forma umana identificarsi. È questo un momento decisivo perché, nella definizione di Remotti, si tratta di una scelta consapevole e cosciente. Il terzo momento è quello creativo, in cui vengono inventate nuove forme di umanità.
Nel microcosmo carcerario i livelli individuati dall’antropologo Remotti, si possono ridiscutere criticamente. La costrizione circolare entro cui si sviluppa la poièn dei reclusi rimane spesso a un livello primario (a1): la facoltà decisionale, la scelta “consapevole” del secondo momento o l’“invenzione” del “terzo, è di fatto fortemente costretta dalla regolamentazione interna.
Il livello primario in cui sono definite forme umane date, è nel carcere altamente predefinito:

Impatto con l’ufficio matricola. Vengono prese le impronte digitali, annotati i dati anagrafici, scattate le foto ed effettuata una perquisizione molto accurata in base all’art. 29 O.P.I. detenuti e gli internati possono contattare i congiunti e le altre persone da essi eventualmente indicate al loro ingresso. Viene dichiarato se si hanno problemi di convivenza con altri detenuti e forniti i contatti di persone da contattare all’esterno, in caso di bisogno.

Visita medica e colloquio psicologico. Con questi due passi terminano le operazioni collegate all’ingresso nell’istituto e il nuovo arrivato viene quindi accompagnato nella sua cella.

L’arrivo nella cella. Il detenuto firma un foglio nel quale sono descritte le condizioni della cella. Al suo interno possono accedere solo alcuni oggetti, alcuni sono stati requisiti all’ingresso (denaro, catenine, etc.). In stanza si possono tenere: apparecchi radio, walkman, radioline, lettori CD portatili, non sono consentiti registratori. È possibile essere autorizzati ad ottenere un PC ai fini di studio o lavoro ma non l’utilizzo del masterizzatore. (Fleres, Buscemi, Garofalo, 2000, 41- 43).
Il recluso è costretto a modificare le proprie inclinazioni identitarie, secondo il titolo dell’art.1 dell’Ordinamento Penitenziario a cui è sottoposto, che individua il carcere come luogo di “Trattamento e rieducazione”. Le azioni abituali, quelle compiute ogni giorno, rispondono a un modo d’essere proprio di chi le compie, alla sua identità, ma la carcerazione, atto di letterale negazione della libertà personale, circoscrive radicalmente il movimento delle personali inclinazioni, così come il modo di stare al mondo e di percepirlo. La costruzione identitaria all’interno della struttura totalizzante è quindi qualcosa di più di una semplice sospensione di un’abitudine in favore dell’acquisizione di un’altra quotidianità temporanea, come avviene normalmente quando un uomo migra in un nuovo contesto sociale nel quale si trova ad operare senza punti di riferimento, come avviene ad esempio in un cambio di residenza, o in un cambio lavorativo. Nella struttura totalizzante la vecchia identità costruita nel mondo esterno non viene sospesa e sostituita, ma progressivamente erosa tramite un processo sottrattivo: la nuova identità di detenuto si costruisce dalle ceneri della precedente, dalla graduale privazione di tutte le componenti che caratterizzavano la vita al di fuori della struttura carceraria.
L’eliminazione delle dinamiche lavorative, della socialità, delle relazioni personali, delle percezioni quotidiane e della sessualità, operazioni alla base dell’identità dei carcerati, ricordano da vicino alcune dinamiche diffuse ai tempi dell’Impero Romano: tra cittadini e detenuti (in particolare gli ergastolani) si instaurano rapporti simili a quelli che intercorrevano tra i Romani e gli schiavi.

Prenderemo ora in analisi gli aspetti salienti della trasformazione di un individuo in “detenuto”:

Spersonalizzazione. La privazione della maggior parte delle esperienze sensibili che caratterizzano la quotidianità dell’essere umano costringe gli individui detenuti a un mondo dove le sole sensazioni esperite sono quelle che riescono a ricordare: il proprio sistema di significato sensoriale viene interamente rimodulato. Il fenomeno del “disorientamento della bussola sensoriale” mette in evidenza lo stretto legame che vi è tra le abitudini delle persone e le loro esperienze, e lo scarto che tra queste si produce in carcere. La senso-poiesi è un processo reciproco e dialogico tra uomo e ambiente, tuttavia nelle strutture detentive questo rapporto perde totalmente il suo equilibrio: l’uomo in carcere è l’elemento passivo che “subisce” la senso-poiesi da parte dell’ambiente totalizzante circostante. Data la natura assolutamente soggettiva della percezione, lo studio e l’analisi dei sensi e delle sensazioni potrebbero essere considerati come operazioni impossibili o, nella migliore delle ipotesi, arbitrarie. Nel 1983, tuttavia, viene pubblicato da Paul Stoller “The taste of ethnografic things”, che propone e formalizza la percezione sensoriale come un nuovo campo d’indagine della disciplina antropologica. Stoller, il padre dell’antropologia dei sensi, spiega che un etnografo che si muove in questo campo dovrà sviluppare «una migliore consapevolezza degli odori, dei sapori dei suoni e della tessitura della vita presso gli altri. Essa richiede […] che gli etnografi si aprano agli altri e assorbano il loro mondo. Questo è il significato di incorporazione», (Stoller, 1997, 23). Con il termine “incorporazione” dobbiamo a Stoller lo sviluppo di una teoria di approccio agli altri che agisce prevalentemente attraverso l’analisi dell’analogia anziché della differenza; un approccio che avviene per mezzo degli strumenti di cui tutti gli esseri umani sono dotati, i sensi, e “formalizza” l’assorbimento degli elementi ambientali a cui viene sottoposto. La spersonalizzazione raggiunge poi il suo apice nella quotidianità della vita da reclusi: nel migliore dei casi (quando vi è un rapporto di affettuosa conoscenza) i carcerati vengono chiamati per cognome, in alternativa con appellativi riferiti alla nazionalità o alla mansione che svolgono (ad esempio “lo scopino” è colui che si occupa della pulizia nella sezione), nella peggiore delle ipotesi con il numero di matricola. A volte hanno sdrammatizzato chiedendo se alla domanda «come ti chiami?», si desideri sapere il nome anagrafico o il numero di matricola.

Desocializzazione. In carcere viene a mancare il senso d’appartenenza a una società di riferimento, poiché viene a mancare in primo luogo il meccanismo di reciprocità: la collettività rinuncia ad un suo membro che definisce “deviato” e lo relega in una zona periferica. Per la Persona-detenuta il sistema di riferimento diviene la società carceraria; diventa parte di una micro-società. Il termine de-socializzazione è chiaramente parziale e si riferisce all’esclusione che si opera sulla collettività a scapito del soggetto criminale. Come detto, quello relazionale è un aspetto fortemente critico poiché fa a meno di tutte le regole della complessità esterna e della varietà perché agisce su una base ristretta in cui il valore di bisogno determina i modi della reciprocità e dello scambio. Trattandosi di una micro-società dissociata dall’ampio contesto, si condividono problematiche che creano alleanze, si propagano divisioni che stigmatizzano nuovi nemici. Ad esempio la gerarchia criminale del carcere è un ordinamento interno che classifica i peggiori atti criminali. La categoria dei protetti2, indica proprio queste differenze. Di questa sezione fanno parte pedofili, sex-offenders, ex appartenenti alle forze dell’ordine e collaboratori di giustizia. Questi ultimi, i «pentiti», sono considerati all’interno della categoria dei protetti gli «infami». Desocializzazione viene dunque usato in termini di rottura con quelle convenzioni generali della società che si riconoscono anche se, con un atto criminale si interrompono. Il reo crea frattura nel gruppo sociale, ma non è al di fuori altrimenti non ne subirebbe la condanna. Una volta considerato come soggetto recluso3 si interrompe il rapporto con l’esterno, sebbene quest’ultimo sia il termine della rieducazione carceraria ovvero la riparazione e la ri-socializzazione.

Negazione della parentela. All’interno delle mura, la famiglia non è che un ricordo. Accade spesso che alcuni membri vengano associati all’ultimo contesto nel quale sono stati sentiti o visti e ricordati per mezzo di una voce registrata durante il processo o una breve telefonata. Poche e brevi telefonate (i Protetti hanno diritto a dieci minuti al massimo), pochi colloqui, spesso nessun contatto fisico. Il senso di parentela è un’arma a doppio taglio: è causa del dolore di chi sconta la pena e di chi, senza nessun crimine, è legato e ama colui che ha sbagliato. A chi rimane nella società civile, alla famiglia del carcerato, tocca portare tutto il peso del crimine inteso come infrazione di un tabù etico: se all’interno del carcere il crimine è la norma, chi è legato con rapporti di parentela al criminale si ritrova associato non solo ad un’infrazione della legge, ma al superamento di una qualche forma di condotta etica ai danni della società intera. Se, come sostenne Meillassoux, la negazione della parentela è l’essenza stessa della schiavitù (Meillassoux, 1992, 41) la struttura carceraria potrebbe facilmente collocarsi in questa definizione.

Desessualizzazione. Le normali prerogative culturali di mascolinità e femminilità di uomini e donne non contano nel caso liminale del carcere: non si può ovviare alla questione della “fisicità” negata, un detenuto non può avere rapporti sessuali per tutto il tempo della detenzione, neanche con il proprio coniuge. Tale divieto tradisce l’idea di “fisicità” su cui la legislazione carceraria si è basata: negandone il carattere di necessità fisiologica primaria per l’essere umano, è considerata in questo contesto come un mero piacere del corpo, di cui un detenuto deve essere privato. A discapito delle possibilità biologiche dell’individuo, nella struttura carceraria il divieto riproduce una sorta di sterilità forzata, dettata dalle regole della detenzione. La sessualità afferisce al tema degli affetti, di cui è difficile parlare. Una delle preminenti problematiche che tendono a evidenziare è quella del «rapporto autentico». Questo non si riferisce solo a una dinamica di coppia, ma anche nell’amicizia, in quelle esterne e in quelle che si creano obbligatoriamente. Prescindendo dalle istanze personali, alcune caratteristiche sono ripetute. I rapporti difficilmente sono valutati in modo circostanziato (o sono autentici quelli fuori o lo sono quelli dentro) e sempre sono messi in discussioni i piani su cui si è posti, sulla parità o la disparità dei rapporti. In questo senso si evince un’interessante opinione sul fattore bisogno. La precarietà delle condizioni materiali di alcuni, specialmente gli immigrati, di alcune sezioni di non definitivi, crea relazioni alla base della soddisfazione del bisogno, cosiddetto primario, e al contempo un sistema di protezione i cui versanti sono complessi, dall’amicizia al controllo.4

Il neurobiologo Antonio Damasio, a proposito delle espressioni elaborate all’interno del rapporto corpo/ambiente ha detto:

Percepire l’ambiente non può ridursi al cervello che riceve segnali da un certo stimolo. […] L’organismo agisce di continuo sull’ambiente […] così da poter favorire le interazioni necessarie alla sopravvivenza; ma per riuscire con successo a evitare il pericolo, e procurarsi con efficienza cibo, sesso e riparo, esso doveva sentire l’ambiente (odorarlo, gustarlo, toccarlo, udirlo, vederlo) in modo da poter intraprendere le azioni appropriate in reazione a ciò che aveva sentito (Damasio, 2001, 307-308).

Sembra di poter cogliere che l’analisi comportamentale da cui derivano alcuni attributi per definire sistemi di identità, non possano prescindere dalla conoscenza dell’ambiente circostante, quello che offre e quello che toglie.

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Senso-poiesi
La lettura critica di quanto viene esposto non entra nella valutazione dei soggetti in senso etico. Il punto da tenere in considerazione, non essendo una tesi di psicologia è la generale riflessione sui soggetti come soggetti-sociali. Il processo di “svuotamento culturale” a cui vengono sottoposte le Persone detenute, si ripercuote violentemente su ogni aspetto della loro esistenza costringendole a modificare la loro capacità di orientamento sensoriale. Sulla base di quanto sperimentato durante il campo, il processo trasformativo più interessante si è manifestato attraverso una ri-educazione sensoriale.
Su queste basi, partendo dal concetto di antropo-poiesi di Remotti, ho definito il concetto di senso-poiesi come il processo attraverso cui l’apparato percettivo di un “ristretto” si sviluppa e si modifica in modo semi-permanente. L’identità è di natura cangiante, i suoi tratti si ripetono e si dimenticano tuttavia, questo processo di acquisizione e perdita non esclude il fatto che l’identità sia un processo di ricerca irrinunciabile seppur delimitato con difficoltà. Remotti considera a questo proposito che l’universo di simboli e significati a cui apparteniamo obbedisca alla regola della mutazione, l’identità non inerisce all’essenza di un oggetto: dipende dalle nostre decisioni. Secondo quanto afferma Constance Classen «i modelli sensoriali sono modelli concettuali, e i valori sensoriali sono valori culturali. Il modo con cui una società sente è il modo con cui comprende» (Classen, 1993, 135).

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La vista
L’architettura circolare che caratterizza lo spazio carcerario risponde innanzitutto a una necessità legata al senso della vista: da un lato di impedire ai detenuti di guardare il mondo esterno, di esserne partecipi anche come semplici spettatori della vita “reale”. Dall’altro lato l’architettura carceraria risponde anche all’esigenza di tenere il suo interno lontano dalla vista degli esterni. In termini concreti questo non si traduce solamente nell’innalzamento di alte mura, ma anche nella scelta di edificare la struttura detentiva lontano dai centri abitati, nelle periferie urbane. Parlando di vedere, relativamente al carcere, mi viene in mente il non-vedere. Senza riduzionismo etico la frase comune di «lasciarli dentro e buttare via la chiave» è significativa rispetto al dato che si per la collettività ciò che non si vede equivalga al fatto che non esista. Manca di certo una presa di coscienza reale di come le cose stiano nella realtà dei fatti, probabilmente dovuto alla polarizzazione assoluta del bene e del male, teorizzando piuttosto che agendo. Le carceri lontane dalla città sono la conferma logistica di un atteggiamento intollerante e talvolta mistificatorio.
Quando un detenuto si trova a dover descrive ad un esterno la propria esperienza in carcere, le note più drammatiche di questa narrazione sono sempre legate alla struttura architettonica. Con la viva partecipazione dei presenti, C. racconta di aver perso quattro gradi nella vista e di essere diventato un miope a causa del reticolato sovrapposto alle sbarre delle celle. Sostiene con sicurezza che tale reticolato costringa l’occhio ad affaticarsi per superare la “barriera di profondità”. Affacciandosi alla finestra l’impatto visivo è qualitativamente molto scarno: le mura grigie si richiudono sul carcere impedendo allo sguardo di andare oltre.
Se è importante ciò che, all’interno della struttura carceraria, il detenuto non riesce a vedere, altrettanto peso ha la qualità di ciò che il suo sguardo riesce a raggiungere: l’impatto che i colori hanno sull’umore, ad esempio, è qualcosa di indiscutibile. Ogni bravo comunicatore pubblicitario riconosce l’importanza delle frequenze emanate dai colori e il loro effetto; anche nel mondo della detenzione è ben nota tale influenza, tanto da essere esaminata con cura. Ogni gruppo umano ordina il modo in modo simbolico, e lo fa cominciando dalle caratteristiche cromatiche degli oggetti che lo circondano. La percezione di tali oggetti è perciò una questione di educazione, legata alla storia di ogni individuo (Le Breton, 2007, 82-85). Durante un incontro si è cercato di mettere i collaboratori in una condizione di progettualità rispetto alle problematiche della struttura: la proposta più condivisa era di commissionare dei dipinti per le mura di passeggio. Il grigio che avvolge la vita carceraria non trova simpatizzanti e, liberi di lasciarsi andare, i Ristretti hanno immaginato splendidi paesaggi, uno di loro proponeva con un certo umorismo un paesaggio marino immenso, per non sentirsi più “pesci in una boccia di vetro”.
Un aspetto importante legato al mondo della vista è quello della fotografia. Il mondo contemporaneo dei selfie e del corpo comunicato attraverso i social si scontra con un universo in cui la foto è ricordo. Le fotografie sono i ritratti intimi e vengono conservate con cura a differenza delle immagini di calciatori e di bellezze da calendario che raccontano corpi pubblici. Sebbene non intenda creare gerarchie sensoriali fisse, è indiscusso che sia ritenuto comune che l’immagine di un familiare abbia un grande valore al fine di mantenere impresso un volto che non si vede per molto tempo. L’oculocentrismo però va messo a sistema anche con altre dimensioni rendono identificabile una persona: la voce, il profumo, la sua pelle e così via rientrano anch’esse nella progressiva modificazione che si costruisce di un ricordo secondo le esperienze recenti che si hanno con questi. I corpi ristretti manifestano attraverso la narrazione dei cambiamenti del proprio corpo un disagio sociale e allo stesso tempo manifestano un progressivo adattamento a uno spazio ristretto che mette in luce le possibili difficoltà di corpi umani riammessi nello spazio sociale e libero. Un corpo disadattato alle immagini, ai suoni, ai gusti, al tatto e agli odori passati è reificato, può essere concepito come un corpo rieducato?

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Immagine in homepage: disegno di una cella realizzato da un detenuto

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1Alvise Sbraccia, sociologo e membro dell’Associazione Antigone, Convegno “Carcere Spazio Urbano. Il confine tra Città e Periferia penitenziaria”, Padiglione Italia – 13. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia (4 Novembre 2012).
2Talvolta fanno parte di questa categoria anche alcuni detenuti con problematiche relazionali specifiche o con acute difficoltà relazionali dovuti ad esempio alla droga.
3Recluso non condannato. Non tutte le persone detenute hanno ricevuto condanna, quindi non hanno posizione giuridica definiva. Paradossalmente non definitivi, la maggior parte della popolazione carceraria, seppur in carcere non ha diritto al programma cosiddetto rieducativo per la ragione stessa di non aver ricevuto una condanna.
4Con bisogno primario intendo ovviata l’approfondimento sul valore della parola stessa, concordando con l’accezione marxista che il bisogno sia culturalmente definito. Su questa base ritengo che la mancanza di alcune dotazioni per l’igiene personale (dalla carta igienica al sapone) siano la violazione precisa dei bisogni primari così come comunemente intesi dalla società contemporanea in cui viviamo.

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Altre fonti
Redazione di Ne Vale la Pena http://www.bandieragialla.it/carcere.

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Valentina Rizzo è un’antropologa culturale. Si occupa dello studio degli spazi e degli insediamenti e sui posizionamento dei corpi in chiave religiosa e politica. Attualmente sta lavorando sui temi di restituzione dei corpi morti e sul rapporto dei resti umani per le comunità religiose e le minoranze. È tra i membri fondatori di ANPIA (Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia).