DESIRE
Genova 2001: la grande macchina desiderante
di Vincenzo Bernabei

Fotografie di Vincenzo Bernabei

Il decennale di Genova è stato importante non solo per coloro che parteciparono alle proteste contro il G8, vivendo in prima persona un’esperienza che il nostro Paese continua a relegare nell’interdetto, non riuscendo ancora ad elaborarla in maniera compiuta (in Italia peraltro ciò accade per molti dei  grandi eventi che scuotono la società), ma perché dal punto di vista culturale e simbolico rappresentò un punto di svolta, il segno di un mutamento.

Gli ambiti in cui si manifestò il cambiamento furono essenzialmente tre: nell’idea di soggettività, in quella di scambio e in quella di rappresentazione.

[Il sole caldo, invadente e straniante come il primo dell’anno, al mattino, dopo la baldoria; come un agosto di omertà nel Sud profondo. I telefoni cellulari, a cui ci eravamo appena abituati, senza segnale erano piccole carcasse grigie e blu nelle nostre tasche. C’erano visi truccati, idranti, tanti colori, divise, divise, divise nere che vestivano corpi immobili dal volto inespressivo. Saranno stati manichini, T1000 di Terminator2, o semplici proletari in ferma breve che di tanto in tanto battevano in sincrono i manganelli sugli scudi di plastica dura e trasparente, costringendoti a scappare con la videocamera stretta in una mano. Il Giorno del Giudizio e del Potere Nudo era nell’aria, lo preannunciava il fumo di copertoni e di macchine bruciate in lontananza. Contadini brasiliani, studenti imberbi con i capelli lunghi e lo sguardo torvo appena usciti da “Le belle bandiere” di Pasolini; operai, boy scout, bande allegre e trotzkisti di Londra. «One solution: revolution!», e io Genova fuori dal Gioco non l’ho mai vista, né prima, né dopo].

Le manifestazioni del 19, 20 e 21 luglio 2001 si caratterizzarono per una evidente molteplicità di vedute e di contributi rispetto all’oggetto delle rivendicazioni. Il fronte della contestazione era decisamente molto ampio, e confluivano nella moltitudine dei protagonisti una serie eterogenea di rappresentanze e di esperienze, alcune delle quali inedite e figlie dello spirito del tempo post-novecentesco, decentrate e estranee rispetto alle tradizionali formazioni sindacali, associative e politiche che in forme e modalità differenti si erano rese attive nel ’68, nel ’77 o nell’anno della Pantera.

[Container, tanti container di lamiera (“Evergreen” c’era scritto). Finestre sbarrate, lingue di asfalto bollenti ampie e deserte, come se fossimo sbarcati nella città fantasma di un B-movie, nell’Area51 o chissà dove; forse in quel videogioco in cui puoi esplorare per ore la texture senza incontrare altri giocatori (si chiamava Urban Terror, e si capiva perché)].

La stessa etichetta di “no global”, trovata giornalistica coniata dai media mainstream,  era chiaramente inadeguata, perché l’intento generale non era affatto quello di propugnare le ragioni del localismo, come invece già facevano schieramenti di stampo conservativo come quello leghista. Ma allora chi erano i “no global”? Operai? Precari? Giovani? Donne? Contadini? Boy Scout progressisti? Zapatisti? Sindacalisti? Probabilmente tutto questo insieme, e anche molto altro. Erano, per dirla con Guattari, un concatenamento collettivo di enunciazioni, più che un soggetto individuato e posizionato; una compresenza di corpi che decise di camminare domandando, di abbandonare istintivamente le demarcazioni del sé e del dove (il quando era dato dalla controparte, che dettava l’agenda e le scadenze del mondo all’interno di una ritualità desueta), e infine di inscenare non un evento o una serie di eventi, bensì un insieme di eventualità, di ipotesi devianti rispetto alla cornice del presente, e di farlo tramite linee performative inedite.

[Io dico: non è un soggetto, è un agente, e più precisamente è un concatenamento collettivo di enunciazioni. Io oppongo concatenamento a soggetto e collettivo a soggetto individuato. Là dove c’erano collezioni di soggetti individuati che erano dei portaparola delegati rappresentativi che separavano la rappresentazione dalla produzione, io dico che c’è un concatenamento a-soggettivo e a-significante che è insieme produttivo, rappresentativo, utile, desiderante, mercantile, senza che si possa in alcun momento fare una separazione, introdurre una frattura tra una persona, uno scopo, una finalità, un sistema di scambio e altro ancora. Potrà forse sembrare una questione di parole, ma quando tu parli di un soggetto della storia io devo dire che non penso che si possa mantenere questa idea senza finire in ogni modo con un programma, con un partito, con un leader, con un centralismo decisionale, con qualcosa che, a partire da una data semiotica, decida ancora in modo centralizzato].1

Nei cortei di Genova quello che si configurava in tempo reale non era altro che il desiderio collettivo nella sua forma più depurata, il sogno di una cosa, il tratto utopico di una grande macchina desiderante, appunto, che voleva muoversi in un territorio di alterità rispetto al quotidiano («Un altro mondo è possibile»).

Il potere tradizionale, dal canto suo, sembrò dapprima mostrare il suo lato più tollerante, ottusamente convinto che le suggestioni di quel nuovo processo di significazione fossero sostanzialmente ininfluenti; quindi, verificata l’enorme potenzialità dei nuovi linguaggi in gioco, linguaggi capaci di decifrare l’immaginario collettivo in anticipo rispetto al Sistema, optò per lo spiegamento istintivo del suo apparato repressivo tradizionale.

Per questo la tragicità delle violenze di Genova nacque innanzitutto da una sorta di aberrazione comunicativa, da un tradimento unilaterale di un paradigma espressivo: i social forum trasposero in un orizzonte simbolico le vecchie armature dei combattenti, dipingendosi le mani e i volti e indossando imbottiture di gommapiuma, tute bianche e maschere antigas; le forze di polizia, che in quel momento difendevano la virtualità speculativa della new economy, dopo un interlocutorio spiegamento di idranti (tutto sommato poco offensivo e persino festoso rispetto a ciò che sarebbe avvenuto) imbracciarono – per molti inaspettatamente – armi “convenzionali”, suscitando incredulità e spiazzamento (nel senso meno metaforico del termine).

[Quando ci dissero che forse erano morti due ragazzi ci fu confusione. Tra il corteo spontaneo senza meta e l’inerzia scegliemmo di sederci e di parlare per ore sotto il rumore degli elicotteri scuri bersagliati dai vaffanculo. All’imbrunire scegliemmo dove saremmo andati a dormire, e la Scuola Diaz fu a lungo tra le opzioni, mentre gli aggiornamenti ci arrivavano disordinati per dare lentamente un nome alla morte: quello di Carlo Giuliani. Lo avremmo ricordato il giorno dopo con dei brandelli di sacchi da spazzatura condominiali legati al braccio, in un silenzio grave e trasognato come il compito che ci spettava: marciare alla rinfusa verso un altro mondo (im)possibile, incitati finalmente dai balconi, con l’acqua rinfrescante gettata dalle finestre e le lenzuola colorate appese che ti facevano sentire un po’ meno solo e meno ventenne].

Quella di Genova fu la prima esperienza completamente mediata dallo spirito dei nuovi mezzi di comunicazione digitali (a partire dal web e da Indymedia), che in quel momento fondavano un nuovo principio di realtà fatto di de-territorializzazione, di virtualità, di liberazione dalla referenza oggettuale, di una rinnovata pratica di scambio e di rappresentazione, appunto, basata per la prima volta sull’orizzontalità della Rete telematica e sulla fluidità informale del crowdsourcing. Dicendo “Un altro mondo è possibile” si puntava a un’alterità non direttamente volta alla fondazione di un un potere altro, bensì di un altro paradigma dialogico, di un altro ordine di discorso.

“Desiderio” è anelare le stelle del cielo, sospendere l’incredulità per immettersi in un flusso che porta verso il godimento ma anche – inevitabilmente – verso la sconfitta, con la consapevolezza che   la meta non esiste in sé, ma solo come idea senza referenze oggettuali che regola il cammino, come in-esperienza, esperienza incapace di manifestarsi. “Desiderio” e utopia sono consanguinei, perché il luogo è il loro punto comune di ir-realizzazione, e quella che allora continuavamo convenzionalmente a chiamare “Genova” non era che una città invisibile: un luogo utopico, distopico, immateriale, non civilizzato né addomesticato, che sarebbe sparito il 22 luglio 2001. [Io Genova non l’ho mai vista].

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1 Guattari: 1977, 45-46.

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Bibliografia ragionata

Bernabei V., Cinema: evasione. Strategie di fuga nel più invasivo dei media, Tilapia, Napoli 2007.
Brancato S., Sociologie dell’immaginario, Carocci, Roma 2000.
Calvino I., Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972.
Castells M. (1996), La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2008.
Foucault M. (1966), Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1998.
Guattari F., Desiderio e rivoluzione, Squilibri, Milano 1977.
Jenkins H. (2006a), Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.
Lévy P. Il virtuale, Raffaello Cortina, Milano 1997.
Merleau-Ponty (1964), Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993.
Tapscott D., Williams A. D. (2006), Wikinomics 2.0, Rizzoli, Milano 2008.

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Vincenzo Bernabei è dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione. Coordina il master in Brand management presso l’Istituto Europeo di Design di Roma, presso il quale insegna media strategy e media scouting. Ha pubblicato saggi e articoli sui consumi seriali, sul digitale, sulla marca e sui media, tra cui la monografia Cinema: evasione. Strategie di fuga nel più invasivo dei media (Tilapia, Napoli 2007). È consulente d’impresa e formatore nel campo del branding e della comunicazione.