ENGAGEMENT AND CONFLICT
L’eredità dei conflitti. Un’eredità in conflitto
di Michela Bassanelli

“I luoghi riescono misteriosamente a condensare ciò che il tempo rende invisibile, perché rapina e distrugge. La cronologia diventa una topografia della storia nella quale si può girovagare e che si può decifrare un pezzo per volta.”

“I luoghi della commemorazione sono profondamente diversi, perché si caratterizzano per un’eclatante differenza tra passato e presente. In un luogo della commemorazione la storia non continua a svolgersi ma è più o meno violentemente interrotta. Tale interruzione si materializza in relitti e rovine, che si stagliano nel paesaggio come residui stranianti.”

A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 343-346.

Nel testo Erinnerungsraume. Formen und Wandlungen des kulturellen Gedachtnisses (Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale) Aleida Asmmann indaga il luogo come uno dei mediatori esterni della memoria. Il luogo conserva e tramanda la memoria anche dopo una fase di oblio collettivo; possiede, infatti, un rapporto particolare con il tempo. Il luogo si modifica ma resta, proprio per questo ha una memoria che va oltre quella a breve termine dell’individuo, è una memoria latente che riaffiora quando ne ha necessità e quando non lo richiede, rimane nascosta. Già Maurice Halbwachs, nel suo testo La mémoire collective (La memoria collettiva), considera il luogo come elemento in grado di accogliere i differenti aspetti della società: “Il luogo occupato da un gruppo non è come una lavagna su cui si scrivono delle cifre e delle figure e poi si cancellano. Come potrebbe l’immagine della lavagna ricordare ciò che vi si è tracciato sopra, dal momento che è indifferente alle cifre, e sulla medesima lavagna si possono riprodurre tutte le figure che si vogliono? No. Il luogo invece accoglie l’impronta di un gruppo, e ciò è reciproco. Allora tutte le pratiche del gruppo possono tradursi in termini spaziali, e il luogo che occupa non è che la riunione di tutti i termini”1. Il tema della memoria in relazione allo spazio si amplifica alla fine del secondo conflitto mondiale quando le città e il paesaggio  si presentano come resti dei teatri di guerra.

Roberto Rossellini, Germania Anno Zero, 1947

Il Novecento è stato il secolo chiamato a interrogarsi sulle eredità scomode lasciate dai conflitti: i residui più diffusi sembrano essere le macerie delle città e le rovine degli edifici. Occorre però fare una distinzione tra i termini “rovina” e “maceria”: spesso usati indistintamente, si riferiscono in realtà a una condizione differente di ciò che rimane di una costruzione. La maceria corrisponde al “primo stadio del distrutto” mentre la rovina è un’elaborazione successiva accompagnata spesso da una scelta volontaria di mantenere i residui per il valore storico-culturale che possiedono. I conflitti del Novecento mutano la visione romantica delle rovine per aprire il tempo delle “macerie informi”. Iniziano a comparire nelle immagini e nei video del primo dopoguerra i brandelli delle città distrutte dai bombardamenti. Quando Edmund, il bambino protagonista di Germania Anno Zero (1947) di Roberto Rossellini percorre la Voßstrasse per vendere cimeli ai soldati americani, è circondato dai detriti degli edifici abbattuti. Tutte le inquadrature mostrano una città dilaniata, ferita, in cui l’immagine dominante è quella delle macerie generate dalla distruzione di un regime disumano. Come sostiene Marc Augé: “Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia (le vie di Kabul o di Beirut), e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto”2. I residui dei conflitti del Novecento, ancora presenti nelle nostre città e nel nostro territorio, sono in alcuni casi oggetto di riflessione e di dibattito, in altri sono cancellati dallo scorrere del tempo o dalla volontà dell’uomo.

Elena Pirazzoli parla di nudo luogo sottolineando il rapporto biunivoco tra memoria ed evento: “il nudo luogo è allora quel carattere che unisce tutti gli “spazi”, che siano essi luoghi o nonluoghi, è la presenza di stratificazioni d’uso, di passati, di residui, senza pretese di alta storicità, ma capaci di rendere vicende umane”3. Il concetto di nudo luogo rimanda a una realtà quasi astratta, a emozioni e sensazioni che nascono dall’attraversamento di un luogo colpito da una catastrofe anche dove non siano più presenti le tracce dell’evento per lo scorrere incalzante del tempo: “Sul nudo luogo allora si creano stratificazioni di memoria, usi e riusi sia metaforici che reali dei resti dell’evento stesso. E nell’attraversamento di questi luoghi emergono i diversi livelli, le stratigrafie del ricordo, come in una sorta di terrain vague della memoria. L’indagine allora diviene un percorso non solo in superficie, ma una sorta di scavo: un’archeologia del passato recente nel luogo ove questo si è dato”4. In questa direzione si muove il lavoro della coppia di fotografi Maria Rosa e Marìa Bleda in cui emerge il tema del rapporto tra luogo e memoria: le immagini, che hanno come oggetto i campi di battaglia più importanti nella storia della Spagna, cercano di cogliere il passaggio del tempo, lasciando all’immaginazione la libertà di ricostruire l’evento. Il nudo luogo per Pirazzoli ha un significato e un impatto più forte di un monumento, proprio per il suo legame diretto con il tempo e l’evento, è un palinsesto costituito da stratificazioni di memorie che emergono nell’attraversamento dello stesso.

María Rosa e María Bleda, Campos de batalla/Espagna, 1994-1996 (1999). Courtesy of José María Rosa e María Bleda

José María Rosa e María Bleda, Campos de batalla/Europa, 2010-2012. Courtesy of José María Rosa e María Bleda

Le sensazioni che si avvertono in luoghi come Hiroschima, Auschwitz, Marzabotto sono dense di significato, il luogo “semplicemente c’è, esiste”5: si stabilisce una empatia attraverso la forza della memoria collettiva che rapisce chi li visita come se avesse partecipato di persona agli eventi che vengono ricordati. E’ una fruizione sempre partecipata e mai distaccata. Le metafore spaziali del ricordo si trasformano con il passare del tempo in luoghi della memoria, diventando da un lato portatrici dell’identità collettiva e dall’altro “bacini di sedimentazione di memorie controverse”6. È Pierre Nora che, negli anni Ottanta, definisce il concetto di lieux de mémoire, titolo della sua monumentale opera in sette volumi (1984-1992) dedicata ai luoghi fondanti della nazione francese: “unità significativa, d’ordine materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavoro del tempo ha reso un elemento simbolico di una qualche comunità”7. Un luogo della memoria è quindi uno spazio, come un museo, un monumento, un particolare territorio o località, caratterizzato da eventi storici anche traumatici che lo hanno segnato fino a farlo divenire simbolo di memoria collettiva. Le tracce dei conflitti bellici ben rappresentano il concetto di lieux de mémoire, si tratta infatti di un patrimonio difficile da gestire e a cui relazionarsi perché legato a memorie scomode, spesso anche traumatiche, ma che richiamano allo stesso tempo temi identitari non solo alla scala locale o nazionale.

Residui Visibili

Tacita Dean, Palast, still da 16 mm film, 2004

7_Lars Ramberg, Palast des Zweifels 

© Lars Ramberg, Palast des Zweifels, installazione, 2006

Nel 2004, Tacita Dean dedica il film Palast al Palast der Republik, la ex-sede del Parlamento popolare della DDR, abbattuta nel 2006.  Un edificio costruito negli anni Settanta secondo lo stile della Germania dell’Est. Posto nel cuore della città, è uno dei simboli degli anni della divisione. Un grande parallelepipedo rivestito di specchi dorati che si innalzava vicino al Berliner Dom e alla limitrofa Museuminsel. Nel 2003 il parlamento federale vota per la demolizione completa dell’edificio, da quel momento si apre un dibattito sul valore di memoria scomoda di questo residuo nella storia della Germania. È proprio in questo periodo che numerosi artisti producono installazioni, performance e spettacoli teatrali nell’edificio. Tacita Dean nel suo film rileva il mutare della luce delle finestre del Palast che riflettono alcuni simboli della città: il Berliner Dom, le sculture dell’Altes Museum, i graffiti e tutti i segni che compongono la città. Uno sguardo malinconico registra il passare del tempo come ultimo atto della presenza di un edificio troppo scomodo per essere accettato. Per Tacita Dean l’edificio è una piaga troppo pubblica e recente per essere mantenuta, tanto che si è scelto di ricostruire sul luogo rimasto vuoto lo Stadtschloss, la residenza degli Hohenzollern, simbolo dell’imperialismo prussiano demolita alla fine della seconda guerra mondiale: il passato più antico sembra avere la meglio su quello più recente (Pirazzoli 2010). Significativo è anche il lavoro dell’artista norvegese Lars Ramberg che, nel gennaio 2005, installa sul tetto del Palast la scritta Zweifel (dubbio) con enormi lettere al neon. Ancora una volta la volontà è di porre l’attenzione sul tema del residuo e della maceria sottolineando il valore di questo edificio come manifestazione di una memoria collettiva rimossa.

Rovine, macerie, ma anche interi edifici e grandi infrastrutture “scomode” punteggiano il territorio europeo e le sue città, richiamando continuamente alla memoria un passato che si vorrebbe dimenticare e che per questo viene metaforicamente rimosso: “I residui di queste architetture pongono incertezze, rivelano ambiguità, e suscitano imbarazzo: solo molto difficilmente (e recentemente) si sono create al loro interno delle istituzioni museali volte a raccogliere e raccontare la storia e il significato di questi edifici”8. Da un lato si vorrebbero eliminare dallo sguardo e dalla mente tutte queste presenze e memorie dolorose, ma dall’altro si manifesta contemporaneamente la paura che ciò equivalga a perdere parte della propria storia e identità, costituita anche da queste cicatrici. Il secondo conflitto mondiale, in particolare, ha cambiato completamente il modo di fare guerra: i bombardamenti aerei hanno distrutto intere città e con esse la popolazione civile. Il conflitto ha lasciato, inoltre, una consistente eredità di reperti e memorie in tutto il territorio europeo: nella strategia politica di Adolf Hitler vi era la volontà di costruire architetture enormi e monumentali, che avrebbero dovuto essere eterne e andare ben oltre il Reich stesso. Molti progetti sono rimasti solo sulla carta, altri sono stati realizzati e dominano ancora oggi i contesti che li accolgono come ospiti non accettati. Un esempio di queste architetture a scala disumana sono le Flaktürme, le torri della contraerea, realizzate a partire dal 1940 su disegno dell’architetto Friedrich Tamms in tutta la Germania. Queste torri in calcestruzzo armato sono posizionate in luoghi strategici di Berlino, Amburgo e Vienna con lo scopo di proteggerle dagli attacchi delle Forze Alleate. A Berlino, al termine della guerra, le torri furono fatte esplodere e in alcuni casi divennero delle Trümmerbergen, ovvero montagne di macerie, andando così a definire un nuovo paesaggio all’interno della città9. A Vienna e ad Amburgo le torri sono tutt’ora presenti, anche se oggetto di un’ambigua e sofferente rimozione collettiva: esistono, ma sono di fatto neglette e invisibili. Analogamente lunghe linee di difesa sono state costruite come confine tra stati limitrofi (si pensi ad esempio all’Atlantikwall10, alla Maginot Line, al West Wall o alla Salpa Line) durante i grandi conflitti mondiali e durante la successiva Guerra Fredda, ma anche in relazione a scontri più locali (come le guerre etniche nella ex-Yougoslavia). Questi sistemi fortificati sono presenze ingombranti che attraversano talvolta un solo paese, talvolta più nazioni. Le linee fortificate segnano un confine, un limite, un solco sul territorio che ha perso il suo significato come “spazio di conflitto” per diventare oggi uno spazio di incontro di tutte le identità: “Una delle possibili strade da percorrere è allora quella che prova a riattivare, forse a ricomporre, quegli spazi che fino ad oggi sono stati usati prevalentemente come ostacoli tra le culture”11.

Sono molte le operazioni artistiche che hanno messo in evidenza il valore simbolico e di memoria scomoda di questi patrimoni. Magdalena Jetelova, artista Ceca legata ai temi della migrazione forzata e del confine, realizza tra il 1994 e il 1995 la sua installazione Atlantic Wall, lungo un tratto della costa olandese, proiettando sulla superficie ruvida dei bunker alcune frasi tratte dal libro di Paul Virilio12. Il bunker è trattato come un oggetto colto nella sua dimensione mitica, tecnica e storica13.La sua installazione è una prima apertura verso la consapevolezza di poter superare la memoria difficile legata alla Guerra totale che ha generato questi oggetti; oggi testimoni muti del loro passato. Ejdrup Hansen nell’istallazione The Line – The Light (1995) proietta dei fasci luminosi che collegano un bunker all’altro lungo tutta la costa occidentale danese. Il progetto si svolge dalle 22:00 alle 24:00 del 4 maggio 1995 come azione artistica per celebrare cinquant’anni dalla fine della guerra. La luce ripercorre il tratto di costa dell’invasione, dalla luce sincopata e abbagliante delle bombe nella notte, alla luce fissa della calma, del silenzio e della riflessione.


© Magdalena Jetelová. Atlantic Wall, 1995. Technical Assistance: Werner J. Hannappel, Essen (Photographs), Jakob T. Valvoda (Laser)

© Elle-Mie Ejdrup Hansen’s, Light line on the bunkers, 1995

Tracce cancellate

Esistono anche luoghi in cui non è presente alcuna traccia perché eliminata dal sentimento di rimozione e dalla volontà di cancellare le tragedie compiute: Aleida Assmann li definisce “luoghi della commemorazione”14, ovvero spazi dove la storia si è violentemente interrotta. Quasi in tutti i paesi europei gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento hanno rappresentato una fase di oblio collettivo, che ha portato in certi casi alla distruzione di alcuni edifici simbolo del potere nazista o legati al ricordo di atroci memorie. In Francia nel 1959 viene demolito il Vélodrome d’hiver, luogo del più grande rastrellamento di ebrei avvenuto il 16 e 17 luglio 1942 dalla polizia di Vichy. Terminata la guerra questo spazio venne utilizzato per alcuni anni come sede di manifestazioni sportive e nel 1958 come luogo di detenzione di cittadini algerini, fino alla demolizione avvenuta l’anno successivo. Oggi il vecchio sito è occupato da una serie di edifici del Ministero degli Interni. Per ricordare l’evento nel 1959 si decide di collocare una placca in memoria della Rafle du Vel’ d’Hiv, ma bisognerà attendere il 1993 per la costruzione di un monumento commemorativo voluto dal presidente François Mitterand. L’esempio mostra il lento processo di memorializzazione di quei siti dove oggi rimane un vuoto o un’assenza materiale che Elena Pirazzoli definisce come nudo luogo. La conoscenza dell’evento che vi si è dato fa si che questi luoghi assumano un carattere particolare: “Il nudo luogo, tuttavia, raramente resta congelato all’istante dell’evento: come il resto del territorio, viene trasformato, in alcuni casi lasciando all’oblio il fatto stesso di cui è stato teatro, in altri ponendo segni proprio per sottolinearlo (con monumenti/memoriali più o meno invasivi), in altri progressivamente dimenticando e trasformando anche i segni del ricordo in qualcosa di differente, più inerente alle necessità dell’attuale”15.

© Christian Boltanski, Maison Manquante, 1990

Gunter Demnig, Memorie d’Inciampo, Roma, immagine di Michela Bassanelli

L’arte riveste un ruolo importante anche nella trasmissione e rievocazione di questi luoghi apparentemente abbandonati, ma che possiedono stratificazioni di memorie. Christian Boltanski, francese ed ebreo di seconda generazione, lavora sul tema della perdita di corpi, di ricordi e di sapere. Nella Maison Manquante l’artista riflette sul concetto di assenza e sul valore del luogo. Nel 1990 il senato di Berlino invita Boltanski a realizzare un’opera sulla riunificazione: nella parte est della città, l’artista sceglie un vuoto tra due edifici, causato da un bombardamento della seconda guerra mondiale, e colloca sul muro di confine i nomi delle persone che vi abitavano. L’artista pone delle targhe all’altezza dei piani originari riportando i nomi delle famiglie che vi avevano abitato prima e durante la guerra: “Con la sua opera Boltanski ha trasformato in un luogo storico un anonimo pezzo di terra adibito a passaggio. Utilizzando il minimo numero di segni possibile, egli ha reso di nuovo leggibili i segni della storia, ormai, invisibili”16. Un’operazione simile riguarda il progetto delle Pietre d’Inciampo di Demning, un memoriale oggi diffuso in quasi tutta Europa. Dal 1995 l’artista ha collocato circa 11.000 placche in oltre duecento città della Germania per poi estendere l’iniziativa in altre nazioni. Ogni placca, posizionata fuori dall’abitazione del deportato, ha la dimensione di un sampietrino (10×10 cm) e riporta il nome della persona deportata, l’anno di nascita, la data e il luogo di deportazione e la data di morte. Questi segni creano una topografia della memoria che rende visibile a tutti un passato cancellato e rimosso.

I luoghi con o senza tracce assumono un ruolo fondamentale nella trasmissione del ricordo. Come afferma Antonella Tarpino gli spazi potrebbero essere i nuovi testimoni dove storia e memoria si fondono e consentono di andare oltre il tempo: “Anche se i luoghi non sono pervasi da una memoria immanente, essi sono tuttavia molto importanti per la costruzione degli spazi culturali del ricordo. Non si limitano a fissare i ricordi e a certificarli (…) ma incarnano anche una continuità nel tempo”17. Il luogo, benché alterato, continua a presentare i tratti della sua storia e ne conserva la memoria che riaffiora continuamente nel percorrerlo.

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1 M. Halbwachs, La Mémoire collective, Presses Universitaires de France, Paris 1950 (trad.it. La memoria collettiva, a cura di Paolo Jedlowski, Milano, Unicopli, 1987, p. 137).
2 M. Augè, Le temps en ruines, Parigi, Editions Galilée, 2003 (trad. it. Rovine e macerie, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 135).
3 E. Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Reggio Emilia, Diabasis, 2010, p. 46.
4 E. Pirazzoli, op. cit., p. 45.
5 E. Pirazzoli, op. cit., p. 44.
6 R. Calzoni, Luoghi della memoria, in Memoria e saperi. Percorsi Transdisciplinari, a cura di E. Agazzi, V. Fortunati, Roma, Meltemi Editore, 2007, p. 530.
7 P. Nora, a cura di, Les lieux de mémoire, 3 vol., Parigi, Gallimard, 1984.
8 E. Pirazzoli, op. cit., pp.138-139.
9 Un’operazione simile, seppur di minore dimensione, è stata fatta anche in Italia per il Monte Stella di Piero Bottoni all’interno del QT8 (1947).
10 M. Bassanelli, G. Postiglione, a cura di, The Atlantikwall as Military Archaeological Landscape, Siracusa, LetteraVentidue Edizioni, 2011.
11 P. Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Milano: Bruno Mondadori, p. XVI.
12 P. Virilio, Bunker Archaeology, New York: Princeton University Press, 1996.
Le frasi proiettate sono le seguenti: An empty ark; Little temple minus the cult; An object tended to bocome a subject; The battle against telluric and cosmic forces; The disappearence of the battleground; Area of violence; This waiting before the infinitive oceanic expanse; The essential is no longer visible; A rapture between violence and human territory; The speed confirms everything; Absolute war becomes teatrality.
13 Si veda M. Parati, Magdalena Jetelová: Atlantic Wall. 1994-95. Luci e Ombre sul Confine, in M. Bassanelli, G. Postiglione, a cura di, Re-enacting the Past. Museography for Conflict Heritage, Siracusa, LetteraVentidue Edizioni, 2013.
14 A. Assmann, Erinnerungsraume. Formen und  Wandlungen des kulturellen Gedachtnisses, Monaco, C. H. Beck, 1999 (trad. it., Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 331-377).
15 E. Pirazzoli, op. cit., p. 45.
16 A. Assmann, op. cit., p. 343.
17 A. Assmann, op. cit., 332.

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Michela Bassanelli è architetto e dottorando in Architettura degli interni e Allestimento presso il Politecnico di Milano (www.michelabassanelli.com). Attualmente sta sviluppando la tesi di dottorato “Beyond the Memorial: Exhibition Design for Conflict Heritage” che affronta il tema delle memorie difficili relative ai conflitti del Novecento in Europa. Collabora con il Prof. Gennaro Postiglione nell’ambito di alcuni progetti di ricerca nazionali e internazionali: “La musealizzazione delle aree archeologiche dei conflitti” (finanziata dal MIUR con i fondi del programma PRIN 2008): http://archeoshow.jimdo.com/; “REcall-European Conflict Archaeological Landscape Re-appropriation” (finanziata dalla EU con i fondi del programma Cultura 2000): http://www.recall-project.polimi.it/; “MeLa-European Museums in an Age of Migrations (finanziata dalla EU con i fondi del programma FP7): http://www.mela-project.eu/