EXHIBITION
Lo 'spazio' della storia: storia dell'arte e storia delle esposizioni a confronto
di Michela Gulia

Fabrique des images, catalogo della mostra.

Fabrique des images, catalogo della mostra

A partire dagli anni ’70, il sempre più metodico ricorso agli oggetti della museologia, della storia del collezionismo e delle esposizioni, ha evidenziato un progressivo interesse verso quegli aspetti della pratica artistica connessi alla produzione di display espositivi, aspetti fino ad allora marginalizzati dal formalismo. L’attenzione si sposta velocemente dall’opera, precedentemente garantita nella sua autonomia dalla specificità linguistica del medium, alla mostra stessa come medium.

Questo slittamento incrocia emergenze differenti ma comunque tutte radicate nella crisi del modernismo e dell’approccio formalista all’opera: la revisione dei modi di storicizzazione delle avanguardie – dal testo di Peter Bürger, Theory of the Avant-Garde (1974) a The Avant-Garde in Exhibition (1994) di Bruce Altshuler – ; l’ingresso dell’area del concettuale, che determinò un azzeramento radicale delle convenzioni della rappresentazione artistica del dopoguerra e l’emergere della pratica dell’installazione; ed infine l’affermarsi nella museologia di una tendenza auto-riflessiva, debitrice del ruolo svolto negli anni ’60 e ’70 dall’Institutional Critique1, che contribuirà di seguito alla nascita della “new museology”.2

Il dibattito sui display espositivi che ne seguì, risultò orientato da un atteggiamento di verifica che impose l’adozione di un attento processo di decostruzione, necessario per mettere a nudo strutture, rituali e procedure che determinano scelte culturali ed espositive. Un esempio sono gli articoli pubblicati da Brian O’Doherty sulla rivista americana Artforum (1976), successivamente raccolti all’interno del volume Inside the White Cube. The Ideology of the Gallery Space (1986), dove il discorso cade sugli effetti che il contesto severamente controllato della galleria d’avanguardia ha avuto sull’oggetto d’arte e sull’osservatore, al punto da considerarlo come un elemento a sé stante e da attribuirgli una funzione pedagogica.

Questo spazio senza ombre, bianco, pulito, artificiale, è dedicato alla tecnologia dell’estetica. Le opere d’arte sono montate, appese, distanziate per essere studiate. La loro superficie non è intaccata dal tempo e dalle sue vicissitudini. L’arte esiste in una specie di eternità dell’esposizione e benché vi si distinguano alcune caratteristiche di periodo (il tardomodernismo), non conosce tempo. Questa eternità fa della galleria uno status comparabile al limbo (…) In effetti la presenza di quello strano mobile, il nostro corpo, sembra superflua, è un’intrusione. Lo spazio fa pensare che mentre gli occhi e le menti sono ben accetti, i corpi non lo sono. (…) Questo paradosso cartesiano è rafforzato da uno degli emblemi della nostra cultura visiva: la foto dell’installazione senza figure, dove l’osservatore è stato finalmente eliminato. (…) La foto dell’installazione è una metafora dello spazio espositivo.3

Magiciens de la Terre, 1989

Magiciens de la Terre, 1989

Mnemosyne 42, Le Fresnoy Studio 2012

Mnemosyne 42, Le Fresnoy Studio 2012

 O’Doherty porta avanti una strategia d’analisi all’interno della quale il white cube assume una centralità inedita, finendo per configurarsi come il regime scopico attraverso cui il modernismo ha prodotto una radicale trasformazione delle modalità percettive nella sfera dell’arte. Le dinamiche che si raccolgono attorno a questo discorso – il ruolo dell’artista e del curatore, lo statuto dell’audience, la riflessione sulla natura disciplinare degli spazi espositivi – definiscono  l’investimento operativo e la posta in gioco dell’area del concettuale, che negli stessi anni teatralizzava il medium della mostra come strumento di potere. È il caso ad esempio di Marcel Broodthaers e del suo Musée d’Art Moderne, Départment des Aigles (1968), che analizza la struttura della logica espositiva come opera d’arte; o ancora – questa volta in ambito newyorkese – l’approccio radicale ai formati espositivi promosso dagli artisti all’interno di spazi alternativi a quelli consolidati nel sistema dell’arte: da Studio Museum in Harlem (1968) a 112 Workshop/ 112 Green Street (1970), sino alle operazioni di Group Material nella prima metà degli anni ’80, etc4.

Se queste pratiche, artistiche e teoriche, resero evidente la centralità del discorso sull’esposizione e le fenomenologie dei format espositivi, offrendo coordinate in grado di generare ulteriori analisi circa l’opera e il suo contesto, allo stesso tempo esse ricaddero entro un campo discorsivo più ampio, determinato dalla crisi dei saperi umanistici e dall’emergere di una tendenza auto-riflessiva direttamente connessa al pensiero postmoderno. Si tratta di una cambiamento che ha investito anche la storia dell’arte, aprendo al dibattito circa le sue forme e indicando un tentativo di spostamento verso ulteriori modelli di rappresentazione storiografica. Un processo evidenziato da Hans Belting in La fine della storia dell’arte o La libertà dell’arte (1983), che porterà non solo ad una revisione del modernismo come narrazione storico-artistica dominante – e al riconoscimento di modernità (non occidentali) alternative5– ma anche al recupero di quelle “teorie dell’immagine” già promosse dalla Bildwissenschaft tedesca ad inizio ‘900, ed oggi note essenzialmente come oggetto dei visual studies6. E ancora: alla formazione di nuovi campi discorsivi, come quello dei world art studies, termine coniato da John Onians all’inizio degli anni ’90, e dei global art studies, funzionali ad una narrazione sintetica delle “storie dell’arte”, resa a sua volta necessaria dal divenire obsoleto dei vecchi modelli eurocentrici in seguito ai processi di globalizzazione.  Si tratterebbe di una direzione di analisi confermata da Jean – Hubert Martin nel catalogo che ha accompagnato la mostra documentaria Magiciens de la Terre. Retour sur une exposition légendaire (Centre Pompidou, 2014). Nella sua postfazione infatti Martin indica Magiciens de la Terre (Centre Pompidou, 1989) come precedente di questi indirizzi di ricerca, situando la mostra dell’89 all’inizio di una serie ulteriore di eventi espositivi, e proponendo così una prospettiva d’analisi differente da quelle ancora attualmente in uso: è il caso, scrive il curatore francese, di La fabrique des images (2010-2011), curata da Philippe Descola al quai Branly, all’interno della quale quattro ontologie (totemismo, animismo, analogismo e naturalismo) permettono di raggruppare opere di culture e periodi diversi. O dell’ << approccio iconografico transculturale>> sperimentato da Georges Didi-Huberman con l’installazione Mnemosyne 42 (Le Fresnoy Studio, 2012 – Palais de Tokyo 2014), direttamente connesso al  ritorno d’interesse per il lavoro di Aby Warburg.8

Che parte giocano allora le esposizioni all’interno di questi nuovi scenari discorsivi? E quale potrebbe essere attualmente il ruolo di una storia delle esposizioni all’interno della storia dell’arte?  Che relazioni si stabiliscono tra i nuovi orientamenti nella ricerca storico-artistica (world art studies e global art history), integrata dagli approcci metodologici dei visual studies, e la crescita esponenziale dei fenomeni espositivi? Che tipo di selezione è all’opera in queste procedure (inclusione-esclusione)? Che tipo di storia (ri)scriverebbe allora lo spazio delle esposizioni?

Forse si tratta ancora di quanto annotava Carl Einstein negli Aphorisme méthodiques (Documents, 1929): << L’histoire de l’art est la lutte de toutes les expériences optique, des espaces inventés et des figurations >>.

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1  Tra i numerosi volumi ed articoli dedicati a questo argomento si segnala ALBERRO, A., STIMSON, B., (Eds.), Institutional critique. An anthology of artist’s writings, Cambridge-London, The MIT Press 2009.
2 VERGO, P., (Ed.), The New Museology, London, Reaktion Book 1989. Il nuovo modo di guardare al museo ha origine, secondo Vergo, da un radicale riesame del ruolo dei musei all’interno della società. La “new museology” riflette così un orientamento che si vuole ispirato dal campo degli studi culturali e che rivela particolare attenzione verso pratiche politiche ispirate al materialismo marxista cui si aggiunge la mediazione della filosofia francese, in particolare di Michel Foucault.
O’DOHERTY, B.,  Inside the White Cube. The Ideology of the Gallery Space, San Francisco, The Lapis Press 1986.
Per un resoconto esaustivo di queste esperienze si rimanda a AULT, J., (Ed.), Alternative Art New York, 1965-1985, Minneapolis, University of Minnesota Press 2002.
Si veda ad esempio: ENWEZOR, O., (Ed.), The Short Century. Independence and Liberation of Movements in Africa, 1945-1994, catalogo della mostra, Munich-London-New York, Prestel 2001. O ancora: MITTER, P., Decentering Modernism: Art History and Avant-Garde Art From the Periphery, in The Art Bulletin, vol.90, no.4, (december 2008).
Per un approfondimento su questo tema si rimanda a: PINOTTI, A., SOMAINI, A, (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Milano, Raffaello Cortina 2009.
Mi riferisco ad esempio ai saggi contenuti in STEEDS., L., et al., (Eds.), Making Art Global (Part 2) ‘Magiciens de la Terre 1989‘, London, Afterall Books 2013.
MARTIN, J.H., Postface, in COEHN-SOLAL, A., MARTIN, J.H., (Eds.), Magiciens de la Terre. Retour sur une exposition légendaire, catalogo della mostra, Paris, Éditions Xavier Barral, 2014.

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Michela Gulia è storica dell’arte e curatrice indipendente. Ha lavorato presso la Fondazione Baruchello (Roma) e per UnDo.net, dove ha curato un focus sulle realtà no profit attive nel campo dell’arte contemporanea. Recentemente si è occupata del coordinamento scientifico del convegno “Mappe e linguaggi del contemporaneo” svoltosi a Matera in occasione del Festival dell’Arte, dell’Antropologia e delle Scienze, e di “Rupextre”, residenza per artisti ed antropologi. Scrive per Arte e Critica.