EXHIBITION
A cosa (e a chi) servono le mostre?
di Mario Gorni

A cosa (e a chi) servono le mostre?

Nel 2011 con alcuni amici, fra cui Roberto Pinto, abbiamo organizzato un convegno di duegiornate negli spazi di Careof a Milano, a cui parteciparono più di quaranta relatori fra artisti, critici, curatori e giornalisti.  A cosa servono le mostre? L’idea era di rilanciare una riflessione sulla capacità dell’arte di comprendere e rileggere la contemporaneità e sulla effettiva necessità di un’attività espositiva frenetica come quella milanese a cui da anni stavamo assistendo e a cui, anche se in piccolissima parte, stavamo dando un contributo. Gli interventi furono ricchi, molto qualificati, diversificati e necessariamente senza conclusioni, la cui documentazione in video resta disponibile per la consultazione nella sede di Careof.

A cosa servono le mostre? Convegno. Milano, Fabbrica del vapore, ottobre 2011

Testo di presentazione di Careof sul catalogo della prima mostra. Cusano Milanino, settembre 1987

Per quanto mi riguarda ho cominciato a fare mostre nel 1987 quando, disperso nella periferia milanese, con alcuni amici artisti abbiamo aperto uno spazio con il progetto di mostrarvi il lavoro di una nuova generazione cui offrire visibilità e un’occasione professionale. Le ultime parole delle Città invisibili di Calvino ci sembravano una sfida irrinunciabile per ritrovare alla fine degli anni ’80 una speranza esistenziale dissolta dagli anni di piombo.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Correnti Magnetiche, Videoanimazioni, Cusano Milanino, gennaio 1988

.Una ricostruzione collettiva dell’universo insomma, un lavoro da fare, l’inizio di una cernita infinita che dopo le macerie degli anni ’70 costituiva una prospettiva praticabile a partire dal sé con l’assunzione di responsabilità in prima persona per provare a migliorare le proprie condizioni esistenziali, e insieme a queste quelle degli altri. Con l’idea di fondare una associazione culturale privata non profit, ci stavamo mettendo contro tutte le regole che i nuovi modelli culturali stavano proponendoci, l’ingordigia del business, l’esaltazione della furbizia personale, l’individualismo sfrenato e volgare per conquistare un successo ad ogni costo. Si parlava di edonismo reaganiano, di Thatcher style, di denaro, di finanza e del modo di arricchire velocemente.
Chi erano i giovani artisti milanesi che stavano affacciandosi sulla scena, e cosa stavano facendo? Chi erano i giovani intellettuali che stavano osservando criticamente le nuove produzioni e che stavano cercando nuovi ambiti di discussione?

Dichiarazione di intenti. Casano Milanino, settembre 1987.

Dal mio punto di vista si trattava di farli parlare, nuovi artisti e nuovi critici. Una ricerca ad ampio spettro, come l’antibiotico che sei costretto ad ingerire quando sei invaso dalla virulenza dei batteri. Si comincia dalla visita alle mostre e dagli incontri che si fanno con gli esordienti, la conseguente visita negli studi e nelle case di quelli che ci stanno provando, disseminati nella città e nella periferia. Mostrare aveva il senso di concludere una ricerca che ponesse nuove domande, e a nuove domande nuove risposte. Si trattava di rendere pubblico tutto un campionario di ricerche che in privato gli artisti stavano elaborando, confrontando le tue scelte con chi cominciava ad interrogarsi e con chi di arte contemporanea non sapeva nulla, come i tuoi genitori, i tuoi colleghi di scuola o le persone con cui ti capitava di parlare. A cosa serve la cultura se non ad una crescita collettiva?

Enzo Umbaca, Misure drastiche, maggio 1993

Si trattava di individuare e percorrere nuovi sentieri nella certezza di dover rifondare un nuovo modo di fare cultura lontano dalla spazzatura del consenso, consolidando una prassi e un’etica rigorosamente non profit che in quegli anni si imponeva come rivoluzionaria dentro un contesto che sembrava aver esaurito ogni spinta di cambiamento. L’arte in fondo è solo un mezzo per esprimere dei contenuti. Quali erano quelli che meritavano attenzione? Ecco! Partire dalle domande di un disagio individuale e collettivo, cercando liberamente delle libere risposte fuori da qualsiasi condizionamento di tipo modaiolo e mercantile. Si trattava di resistere all’impoverimento, al restringimento delle prospettive dando spazio e durata a ciò e a chi stava aggiungendo del nuovo a quello che era già stato detto e conservandone la memoria.
Le grandi scuole di pensiero segnavano gli epigoni, si confondevano con l’insorgere di fenomeni passatisti riciclati e temporanei ma dal successo fulminante, stelle cadenti che correvano a decorare le copertine della stampa specializzata. Fiumi di parole cercavano gli elementi fondanti che ne potessero giustificare la comparsa e la ragione. Il decennio terminò con il crollo del muro di Berlino e con esso crollarono le ultime grandi utopie.

Enzo Umbaca, Disinfestazione, performance 1993.

L’arte non aveva più avversari potenti da combattere e quindi non esibiva più forme radicali di espressione. Restavano solo le piccole utopie o la riscoperta delle utopie del passato, piccoli pensieri per la sopravvivenza del privato, contro l’asfissia del corpo, la finta felicità del domestico, la restaurazione di una normalità opposta alla coscienza collettiva, alla condivisione. Gli artisti cominciarono ad usare pesantemente l’ironia come arma a doppio taglio con la conseguenza di doversi allontanare dalla comprensione dei più, e la necessità di stringere il confronto fra di loro, il cui precipitato si consolidò all’inizio degli anni ’90. La relazione fra le persone divenne il luogo analitico dell’arte ridando vigore a riflessioni nate alla fine degli anni ’70 e soffocate dal lifting. Aprire gli spazi di confronto sulla responsabilità dell’artista è stata la priorità da seguire. La ripresa di queste discussioni (sotto sotto mai interrotte) favorita dall’uso delle reti informatiche, dall’internazionalizzazione dei processi, dai fenomeni migratori, dall’esodo in corso e dalle guerre fratricide in Yugoslavia rimettevano sul tavolo la questione del potere e dei ruoli nel privato e nel pubblico.

Linee di confine. Giovani curatori presentano giovani artisti, Milano 2003.

La comparsa di una fortissima creatività del femminile, spesso di livello superiore, fu un grande regalo di quegli anni. La processualità nella produzione dell’arte, l’apertura degli approcci metodologici non era più una mediazione critica o curatoriale, ma divenne parte programmatica del lavoro di molti artisti tesa a stimolare e guadagnare il rapporto diretto con il fruitore.
L’impresa del mostrare si è trovata a fare i conti con una gigantesca polverizzazione delle poetiche, una per ogni testa, con il progressivo allontanamento della cultura dalla politica per di più senza nessuna politica della cultura, rendendo sempre più difficile la comprensione dell’arte.
Più che lo sforzo critico e speculativo ci è sembrato importante quello divulgativo, fuori dallo spazio tecnico degli addetti ai lavori, senza tuttavia rinunciare alle funzioni della critica.

A Constructed World. Hospitality 3: Welcome Fire!, Milano gennaio 2003

L’unico spazio praticabile era, ed è ancora oggi, quello di rendere evidente il fenomeno nella sua complessità, decidere cosa andava salvato nel caos del presente, lavorare sull’informazione e sulla formazione di un pubblico distante impreparato e distratto dalla televisione. Un’impresa impossibile che dura tutt’ora. Mia madre forse non conosce bene il senso che produce l’arte contemporanea, ma di certo è sicura che un senso importante ce l’abbia e che sia tutto da scoprire.

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Mario Gorni (1948, Pegognaga, Mantova) Laureato in Architettura al Politecnico di Milano. Nel 1987 fonda Careof, spazio non profit per le arti visive. Dal 1993 tiene conferenze divulgative e di aggiornamento sull’arte contemporanea, sulla storia e sulle poetiche della videoarte. Si occupa della catalogazione e della conservazione dell’Archivio Video di Careof riconosciuto come patrimonio storico e lavora in ambiti di formazione e di informazione offrendo consulenze a ricercatori e a Enti Pubblici.
Nel 1987 fonda Careof, spazio non profit per le arti visive. Dal 1993 tiene conferenze divulgative e di aggiornamento sull’arte contemporanea, sulla storia e sulle poetiche della videoarte. Si occupa della catalogazione e della conservazione dell’Archivio Video di Careof riconosciuto come patrimonio storico  e lavora in ambiti di formazione e di informazione offrendo consulenze a ricercatori e a Enti Pubblici.