IL PARTITO PRESO DELLE COSE
Endless repairs. Kader Attia. Piccola sceneggiatura in quattro atti
di Giulia Grechi

ATTO PRIMO – La cosa non è l’oggetto

“Matter is never a settled matter.
It is always already radically open”
(Karen Barad)1

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Una stanza affollata di cose. Entrando, pur sapendo che si tratta di una installazione artistica (The Repair from Occident to Extra-Occidental Cultures di Kader Attia, realizzata per dOCUMENTA (13) nel 2012), è netta la sensazione di entrare nei sotterranei di un museo etnografico. Scaffalature fino al soffitto, una sorta di deposito pieno di oggetti di vario genere: antichi volumi di chirurgia estetica, disegni anatomici, sculture in marmo e in legno raffiguranti corpi e visi sfigurati da traumi o rovinati dal tempo, o modificati da rituali corporei, cataloghi di mostre d’arte su Leonardo Da Vinci o sull’arte nel Congo Belga, libri fotografici sulle estetiche corporee di culture non europee, volumi sulle guerre coloniali o sul “pensiero selvaggio”, vecchie riviste di medicina, di arte e di scienze sociali. Tutti gli oggetti di carta sono inchiodati agli scaffali o agli espositori da viti troppo lunghe, inutilmente lunghe, che emergono arroganti dalla carne delle cose come dei coltelli conficcati in un corpo catturato e consegnato alla sua macabra immobilità di trofeo.
In definitiva è questo che fa un museo con il suo potere necrofilo2. Consuma la vitalità delle cose che possiede. Dice di volerle “salvare” (da cosa?), ma nel compiere questo atto di presuntuosa e non richiesta (sicuramente non richiesta dalle cose) generosità, corrode le storie che le cose raccontano, asciuga la vita di cui sono intrise, le inchioda a una fissità algida e lontana (lontana dalle mani). Le fa diventare degli oggetti, funzionali a un discorso, illustrazioni di una teoria, prove di qualcosa, artefatti o capolavori, prigionieri in ogni caso della costrizione ad essere contemplati.

Kader Attia, The Repair from Occident to Extra-Occidental Cultures, 2012. Commissioned and produced by documenta (13). Fotografie dell’autore

E poi teche di legno, vetrine piene di piccoli oggetti. Uno strano archivio, fatto di oggetti che non possono essere mostrati al piano di sopra, nelle sale del museo: oggetti osceni, che devono restare fuori dalla scena, dietro le quinte dello spettacolo museografico, incatenati agli scaffali, chiusi a chiave nelle vetrine – dovessero di nascosto fuggire via. La loro stranezza sta nel loro essere “aggiustati”, nel non essere integri, nell’essere degli ibridi (una sorta di “creature”, come Frankenstein, realizzate cucendo insieme residui di altre cose) e soprattutto nella conseguente perdita di “autenticità” (concetto tanto caro ai musei etnografici europei). Piccoli oggetti di uso quotidiano, realizzati accostando, cucendo, saldando pezzi di altre cose trovate: oggetti coloniali per lo più, come proiettili, lame, pezzi di armi. Durante tutto il XX secolo i depositi e gli archivi dei musei europei sono affollati di oggetti di questo tipo, provenienti soprattutto dall’Africa, ma anche dal Medio Oriente, dall’Asia e dalle Americhe del sud. Oggetti nascosti e mai mostrati, spesso dimenticati o non classificati, perché sfuggivano alle classificazioni museografiche europee, perché violavano quello che Kader Attia definisce “the myth of the perfect”: “the more the repair was visible, the more the item was seen as defective and categorized as a mistake”3.

Kader Attia, The Repair from Occident to Extra-Occidental Cultures, 2012. Commissioned and produced by documenta (13). Fotografie dell’autore

I ritratti scultorei negli scaffali sono riproduzioni, in marmo di Carrara o in legno del Senegal o del Congo, realizzati “as a life continuum for the so-to-speak ‘dead’ archive”4, realizzati cioè a partire dagli archivi visuali della Prima Guerra Mondiale o dagli archivi etnografici del XIX secolo. Un decalogo trans-culturale di mutilazioni, di corpi considerati “imperfetti” da uno sguardo Europeo concentrato su un concetto di bellezza indissolubile da quello di integrità. Ritratti di visi sfigurati dalla guerra affiancati da ritratti di “nativi” di diverse popolazioni, fotografati per catturare e classificare le varie tipologie di modificazioni corporee, significative di estetiche corporee legate a indicazioni di valore o di status, ma viste dagli Europei come segno di sauvagerie, o come mostruose mutilazioni. Durante la Prima Guerra Mondiale la medicina estetica sperimenta metodi sempre più efficaci nella ricostruzione dei visi e dei corpi dei soldati sfigurati o mutilati da ferite e traumi di guerra. Nella parete di fondo della sala uno slide show mostra immagini tratte dagli archivi medici con il “prima-e-dopo” gli interventi ricostruttivi sui visi dei soldati, affiancate da immagini di oggetti “riparati” da mani non-europee, simili per certi versi a quelli esposti nelle teche, perché chiunque abbia riparato quegli oggetti ha lasciato estremamente visibile l’aggiustatura stessa, trasformando e ridefinendo non solo l’estetica dell’oggetto, ma l’oggetto stesso.

Kader Attia, The Repair from Occident to Extra-Occidental Cultures, 2012. Commissioned and produced by documenta (13). Fotografie dell’autore

La cosa non è l’oggetto5. Ha una leggerezza diversa, parla più di relazioni che di massa o di forza di gravità, la sua materialità è strettamente connessa alle mani che la sfiorano, la prendono, se la scambiano, la lasciano, se la contendono, alle voci che ne discorrono in conversazioni estemporanee, ai gesti che la rendono significativa per qualcuno, densa di qualcosa di affettivo, tanto che a volte diventa una sorta di protesi, di prolungamento del sé – anche slegata da un valore d’uso e anzi preda di un investimento tutto emozionale e rituale. Anzi di più: la cosa non “racconta” semplicemente, ma “è” la rabbia con cui viene scagliata contro un muro o contro qualcuno, “è” l’intimità delle azioni quotidiane che solo per suo tramite possono essere svolte, “è” il sollievo che l’essere in sua compagnia ti fa sentire, “è” la rassicurazione del riconoscersi.

ATTO SECONDO – Dentro il mormorio delle cose

“Across both nature and culture,
any system of life is based on endless repairs”
(Kader Attia)6 .

In effetti sembra di sentire un gran mormorio entrando. Perché mai quelle viti conficcate, quelle vetrine chiuse a chiave, se non fosse che quegli oggetti sono effettivamente vivi? Cioè non oggetti inanimati, ma cose piene di vitalità che resistono alla violenza con la quale sono state feticizzate, sacralizzate e immobilizzate in una teca espositiva dai diversi discorsi disciplinari (museografico, medico, estetico, antropologico…) che hanno costruito il sapere egemonico dell’Europa moderna.
La costruzione della nostra modernità ha avuto come immediato corollario “a cynical ability to remove, by appropriation, any trace of the identity of a non-Western culture, sometimes even by re-creating its own mythologies”7. Basta pensare all’appropriazione da parte degli artisti modernisti delle estetiche di diverse culture non-Europee, e al modo in cui questa appropriazione ha significato in realtà una ridefinizione egemonica, narcisistica e etnocentrica delle identità e delle espressioni culturali di questi “altri”. La messa in discussione del discorso coloniale (dunque la decostruzione degli immaginari e delle rappresentazioni prodotte dall’Europa coloniale su di sé e sui colonizzati) per molte culture non-Europee ha significato “taking back [their] own identity as a subject, rather than as the object of Western colonial hegemony”. In questo processo, sono cominciate ad emergere una serie di ri-appropriazioni8, come “signs of resistance against a modern world that has utterly failed to understand the underlying motivations of the non-Western subject”9. Ogni riappropriazione è dunque un esercizio di resistenza, di rinegoziazione del significato e delle posizioni di potere tra diverse culture, e di riconquista di spazi di libertà: per questo può esistere solo in conseguenza di un precedente spossessamento.
In questo contesto vanno interpretate le forme di “riparazione” messe in mostra da Kader Attia, come forme di riappropriazione culturale: “when I was in the Democratic Republic of the Congo in the 1990s, I noticed a piece of fabric made by the Kuba peoples, with applications of French-style embroideries that covered holes made by insects—a gesture of repair rather than decoration. Elsewhere, in the holdings of the Smithsonian Institution, I saw a Congolese sculpture whose original shell-shaped eye had been replaced by an ordinary button”.
Integrare un elemento Occidentale, in alcuni casi apertamente coloniale (pezzi di armi o residui di oggetti appartenuti ai colonizzatori) in un oggetto Africano di uso comune è una riparazione e contemporaneamente un atto intenzionale di resistenza al potere coloniale – anche il potere di rappresentare, di parlare attraverso le cose – un piccolo atto di resistenza quotidiana, un mormorio sommesso e tagliente.
Anche quella messa in scena da Kader Attia è in effetti una riappropriazione di quei “dead archives” al cuore dell’identità Europea moderna: le sculture negli scaffali rimettono in scena le fotografie d’archivio, restituendo ai corpi la loro tridimensionalità e la loro carnalità attraverso il legno e il marmo. Sono, insieme agli originali di libri e riviste, oggetti fisici, toccabili e soprattutto avvicinabili: accorciano la distanza del display museale classico, che mostra gli oggetti a una debita distanza, spesso dietro una teca o un vetro, costruendo una distanza che è prima di ogni altra cosa moralizzante e feticizzante.
Forse è vero che “sbrogliare i feticci non è ancora nel regno delle umane possibilità”10, ma proviamo. Immersi fra le cose contenute in questo sotterraneo, nel nostro più profondo cuore di tenebra, proviamo ad ascoltarne il mormorio, la vitalità, a penetrarne proprio lo status imposto di feticci, proviamo a rovesciarne la pelle, e sotto troveremo molto altro… proviamo a riconoscerle come “cose sensibilmente sovrasensibili”11… partiamo dalla loro potenza affettiva, dalla loro sensibilità, dalla loro voce, dal modo che hanno di sfiorarsi, di toccarsi, di bisbigliarsi, di entrare in contatto con…

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ATTO TERZO – What is the measure of closeness?.

“All touching entails an infinite alterity,
so that touching the Other is touching all Others,
including the ‘self’, and touching the ‘self’
entails touching the stranger within”
(Karen Barad) .

Le cose esposte da Kader Attia esprimono quella pratica quotidiana di riappropriazione culturale, in una processualità caratterizzata da fortissime disuguaglianze di potere, che permette anche una ridefinizione di sé, attraverso la cannibalizzazione di qualcosa di altro, spesso di radicalmente altro, in alcuni casi addirittura nemico. Che tuttavia fa in qualche modo parte (ormai) di sé.
Per un colonizzato, l’esperienza di dare conto (a se stesso innanzitutto) dell’esperienza coloniale e del suo assetto psicopatologico, è un processo che sfinisce, fino quasi a smembrare la propria identità, il proprio corpo (un incessante dis-re-membering12). Non può che essere un lavorio contemporaneo di lutto e di vitalità, di perdita e di riappropriazione, di amnesia e di immaginazione. Le cose aggiustate e sincretiche esposte da Kader Attia “sono” questo processo, questo ricucire brandelli di memoria e di identità – questo ri-membrare. E’ un farsi raccontare altrimenti dalle cose, intrise del lavorio della memoria. La sutura, nella sua visibilità, è rivolta verso il futuro, incorpora letteralmente il memorabile e l’indicibile, e in questo senso è una risorsa “terapeutica”, non in modo conciliatorio, ma come energia che spinge a tenere aperta la ferita della memoria.
Nelle immagini proiettate che mettono a confronto i corpi mutilati e “riparati” dalla chirurgia estetica, con le riparazioni di cose rotte da parte di mani non-Europee, si fronteggiano due diverse modalità culturali di intendere la riparazione. L’estetica Europea opera una sutura che fagocita e tende a rendere il più possibile invisibile il trauma e la ferita, nell’ottica di ripristinare uno stato di integrità, di autenticità e di incontaminazione13. Una sutura che vuole guarire, nel senso di rimuovere, mettere a tacere, fare come se la ferita non ci fosse mai stata, colmare il vuoto creato dal trauma per tornare a un’idea astratta e rassicurante di perfezione (corporea). Dall’altra parte, le riparazioni “extra-Occidental” sono ricuciture che vogliono curare, nel senso di una processualità in movimento, tesa non al ripristino di una forma che è stata distrutta e perciò non può più (ri)presentarsi, ma alla creazione di una nuova forma, cioè di una nuova estetica, cioè di una nuova realtà: “for the West, repair was an illusion of reappropriation of the self, but for non-Western cultures the repair creates a new reality”14.

Cerchiamo di entrare dentro questa processualità. Le riparazioni extra-Occidentali accostano frammenti di cose spesso apparentemente inconciliabili, estranee, nemiche. Le mettono in contatto, nella condizione di toccarsi. Toccarsi non è mai un’azione innocente. E’ inseparabile dalle posizioni e dalle relazioni (affettive, conflittuali) che la rendono possibile: “an exchange of warmth, a feeling of pressure, of presence, a proximity of otherness that brings the other nearly as close as oneself (…). So much happens in a touch: an infinity of others – other beings, other spaces, other times – are aroused”15.
Da un punto di vista prettamente fisico (il riferimento è alla fisica quantistica), il contatto tra due cose si sviluppa essenzialmente attraverso la repulsione elettromagnetica tra gli elettroni all’interno degli atomi che ne compongono la materia. Le cose, nell’entrare in contatto, in realtà si respingono, si contrappongono, si rifiutano. Sembra un paradosso – “repulsion at the core of attraction”. Eppure è una questione di incontro con una alterità radicale, che è anche quella contenuta nel sé. Nella contemporanea repulsione/attrazione del contatto si chiude qualunque discorso legato all’idea di unicità, di integrità, di autenticità, e si apre uno spazio intermedio di azioni possibili. Uno spazio interstiziale nel quale sperimentare pratiche trasformative: “intra-actions”, “entangled relations of becoming”16. E’ una questione di intimità e di radicale messa in questione del sé nelle sue traiettorie identitarie consuete.
La particolare qualità delle riparazioni nelle cose esposte da Kader Attia è precisamente questa: riconoscono il venire in contatto, il toccarsi, l’approssimarsi di due diverse e apparentemente inconciliabili porzioni di realtà-identità-memoria, come un atto conflittuale e allo stesso tempo “ospitale”, trasformativo. Venendo in contatto con quell’alterità che si detesta – e che pure ci appartiene – è possibile iniziare a ri-appropriarsi delle proprie memorie conflittuali con un atto inventivo. Le cose esposte da Kader Attia sono cose vive che sussurrano negli interstizi di una identità smembrata dalla psicopatologia delle relazioni coloniali: “many voices speak here in the interstices, a cacophony of always already reiteratively intra-acting stories. These are entangled tales. Each is diffractively threaded through and enfolded in the other. Is that not in the nature of touching?”17.

La questione, quando si parla di archivio, è sempre l’esclusione. La rimozione e l’invisibilità di altri discorsi, che l’archivio produce nel mettere in luce il proprio. In questo contro-archivio la questione è totalmente rovesciata. Qui non si può prescindere dall’inclusione, o forse sarebbe meglio dire dall’irruzione dell’alterità, che il contatto porta con sé. L’alterità è costitutivamente sempre parte del sé, in forme pacificate e/o conflittuali.
Questo contro-archivio appare così come un dispositivo alterato – per l’espressione del sincretismo e della riparazione come possibilità di (ri)costruzione del sé – performativo – per il lavorio della memoria e dell’immaginazione, che consentono il processo di riappropriazione culturale – affettivo – per l’economia carnale di affetti che le cose incarnano nei loro bisbigli.

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ATTO QUARTO – Promesse di piuma

“Matter is condensations of response-ability.
Touching is a matter of response.
Each of ‘us’ is constituted in response-ability.
Each of ‘us’ is constituted as responsible for the other, as the other”.
(Karen Barad)18

Uno stringersi di mani, uno sdraiarsi a fianco, un aderire o uno scontrarsi di corpi, di corpi di cose, che stringono un legame anche nel combattersi con violenza l’un l’altro. C’è una sorta di respons-abilità in questo reciproco indebitamento, una questione etica e politica che riguarda l’abilità di rispondere o di corrispondere, connessa alla costruzione di un legame attraverso il toccarsi, una sorta di contratto, leggero come una promessa leggera come una piuma.
Nelle cose esposte da Kader Attia la riparazione come riappropriazione culturale, tesa non al ripristino di una integrità primordiale, ma all’immaginazione di nuove possibilità, agisce non in un’ottica di conservazione ma di dissipazione19 – ennesima sfida alla rigorosa grammatica archiviale. C’è una dimensione di perdita in tutto questo, alla quale è associato un valore positivo, produttivo, difficilmente pensabile nell’ottica archivistica della modernità Europea, tutta tesa a conservare, accumulare, classificare la realtà.
Queste cose che si toccano e si ridefiniscono nel suturarsi con residui altri, producono attrito ma anche legame, in una sorta di reciproco indebitamento a perdere, come nell’economia del dono: “il dono è di piuma e leggero eppure è più duro e ostico del più rigido contratto. Mauss pensava che il dono acquisisse una personalità propria, indipendente dalle persone che si scambiano doni. A suo dire era come se il dono avesse uno spirito che pretendeva che esso venisse restituito o che qualche altra cosa fosse restituita al suo posto”20. Questa dispendiosa economia di reciprocità regola anche la processualità delle riparazioni di Attia, in una dimensione giocosa, di reinvenzione e accostamento a volte anche surreale, di trasformazione che tende all’immaginazione, alla trasformazione e alla dissacrazione – come ogni gioco che si rispetti.

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1 Karen Barad, “On Touching — The Inhuman That Therefore I Am,” in differences: A Journal of Feminist Cultural Studies, v.23(3): 206-223, 2012, p. 214.
2 Achille Mbembe, “The power of the archive and its limits”, in Refiguring the Archive (edited by Carolyn Hamilton et al.), 2002.
3 http://kaderattia.de/repair-architecture-reappropriation-and-the-body-repaired/
4 http://universes-in-universe.rg/eng/nafas/arcles/2013/kader_aa_kw (published July 2013).
5 La cosa è “un nodo di relazioni in cui mi sento e mi so implicato e di cui non voglio avere l’esclusivo controllo” (Remo Bodei, La vita delle cose, Laterza 2009, p. 20).
6 http://universes-in-universe.rg/eng/nafas/arcles/2013/kader_aa_kw (published July 2013).
7 http://kaderattia.de/repair-architecture-reappropriation-and-the-body-repaired/.
8 Attia, nel riferirsi al concetto di riappropriazione, esplora una costellazione teorica ampia, tra le teorie anarchiche di Pierre Joseph Proudhon, che per primo usò questo termine a metà ‘800, le teorie antropofagiche del poeta brasiliano Oswaldo de Andrade degli anni ’20 del ‘900, e gli scritti di Frantz Fanon (I dannati della terra innanzitutto, del 1961), che ha connesso il concetto di riappropriazione alle lotte anti-coloniali.
9 ibidem.
10 Michael Taussig, Cocaina. Per un’antropologia della polvere bianca, Mondadori, 2005, p. 11.
11 Così Karl Marx, ne Il Capitale, definisce il carattere feticista della merce.
12 Toni Morrison, Beloved, 1987.
13 “Plastic surgery on human faces involved artists, painters, and sculptors as well as doctors. They were supposed to recreate the missing parts of faces, when the injuries were so major that significant portions of the face were missing” Kader Attia in: http://kaderattia.de/repair-architecture-reappropriation-and-the-body-repaired/.
14 ibidem.
15 Karen Barad (op. cit), p. 206.
16 ibidem., p. 215
17 ibidem., p. 206.
18 ibidem., p. 215.
19 Georges Bataille, Il dispendio, Armando Editore, Roma, 1997.
20 Michael Taussig, Leggerezza e promesse di piuma, testo critico per l’esposizione Camere VII, a cura di RAM radio arte mobile, Roma, 2008.