IL PARTITO PRESO DELLE COSE
L’anello di Kierkegaard e altri oggetti d’amore: il museo come autobiografia di una città
di Anna Chiara Cimoli

“Il passato è ampiamente sopravvalutato”: così diceva Jette Sandahl, all’epoca direttrice del Museo di Copenhagen, in occasione della Inclusive Museum Conference del 2013.1 Lo diceva ultimando l’allestimento di Søren Kierkegaard: objects of love, works of love: apparentemente una mostra dal gusto quasi classico. Apparentemente classici, infatti, erano il contenuto (la biografia di un intellettuale), la forma (quella dell’esposizione di oggetti autentici affiancati a monitor su cui scorrevano i testi del filosofo e a tablet a disposizione dei visitatori), il contenitore (una sala di rappresentanza in un edificio storico vincolato e poco flessibile). L’allestimento era sofisticato ma relativamente tradizionale, rispetto ad altri statements ben più estremi della stessa istituzione (per esempio quello di Trash, o il celebre WALL, che ha portato il museo negli spazi pubblici sotto forma di una sorta di iper-tecnologico “termometro” capace di cogliere gli umori, le tensioni, i desideri dei cittadini in tempo reale).

Ma Søren Kierkegaard: objects of love, works of love, aperta da maggio a ottobre 2013, va guardata più da vicino per coglierne i molteplici discorsi, per verificarne la rispondenza all’idea di museo che Jette Sandahl è andata configurando nei testi che ha scritto e nelle mostre che ha progettato. Questo episodio ha rappresentato l’addio della Sandahl, curatrice radicale e per certi versi mitica, al mondo dei musei, perlomeno nel ruolo di direttrice:2 l’addio di una figura che, attraverso il suo lavoro e provenendo da una formazione di carattere psicologico, ha toccato temi fortemente e dichiaratamente politici (il femminismo e la disuguaglianza di genere, l’accesso all’informazione, l’identità, il concetto di ethnicity, il ruolo del museo nell’epoca post-coloniale).

Per questo la mostra va osservata da vicino: perché ricapitola in chiave dubitativa e aperta alcuni concetti fondamentali che hanno guidato il lavoro di Jette Sandahl, declinando, più in generale, un’interpretazione del compito dei musei cittadini sullo sfondo di tessuti urbani  sfuggenti, con pochi minimi comuni denominatori fra le persone, impossibili da raccontare se non per frammenti e con una costante ansia di contemporaneità (di cui il WALL dà conto).

La mostra espone oggetti personali appartenenti alle collezioni del museo, come l’anello restituito a Kierkegaard da Regine Olsen dopo tredici mesi di fidanzamento, da lui trasformato e indossato fino alla morte, le chiavi di casa, la scrivania, il divano, una ciocca di capelli. Gli oggetti sono stati organizzati in nove temi, evidenziandone il valore biografico ma anche fenomenologico: l’amore verso di sé, la casa, l’amore ultraterreno, l’innamoramento, le figure parentali, maternità e matrimonio, l’amore verso l’altro, l’amicizia e, infine, la rottura di una relazione.   

Parallelamente alla mostra, il museo ha promosso una campagna di acquisizione di oggetti con lo scopo di arricchire la propria collezione permanente: oggetti d’amore che raccontassero storie di diverso segno, legate all’attrazione, alla vita di coppia, all’amore genitoriale, alle relazioni amicali, alla spiritualità, alla solidarietà, e così via.3 Attraverso alcuni  tablet presenti in mostra, i visitatori potevano descrivere il proprio oggetto sia nelle sue qualità materiali che nel suo significato intimo e personale, oltre a visionare gli oggetti donati da altri visitatori. Lo scopo era quello di costituire una collezione contemporanea che raccontasse la vita dell’amore nella Copenhagen contemporanea; che esplicitasse quale valore, significato, forma, nome gli viene attribuito, in una città in cui il numero dei matrimoni è fra i più bassi in Europa, in cui la diversità culturale è molto marcata fino a diventare quasi un brand, all’interno di un paese profondamente tradizionale in cui persiste una narrazione nazionale che influisce sulle scelte politiche.

Si può parlare di una mostra partecipativa? Non in senso stretto, certo: i visitatori non sono entrati nel processo di progettazione, sono arrivati a cose fatte. Inoltre, non tutti i visitatori, in qualsiasi momento, hanno potuto donare i loro oggetti: la raccolta è stata effettuata solo in momenti di raccolta precisi, e gli oggetti contemporanei non sono entrati in mostra se non virtualmente. Tuttavia, qui il senso sta nell’arco voltaico gettato fra gli “amuleti” del XXI secolo, raccontati in prima persona, e quelli del filosofo: la loro tensione viva, il dialogo aperto.4

Così si legge, infatti, in una descrizione del contenuto della mostra:

All’inizio del XXI secolo, le norme ufficiali e gli ideali rimangono quelli della famiglia nucleare e del matrimonio che dura per tutta la vita, basato sull’amore romantico ed erotico. Sembra, tuttavia, esistere un gap sempre più profondo e una discrepanza fra questi ideali e le statistiche demografiche.

Con il crescente benessere, una maggioranza della popolazione sembra preferire vivere da sola, e il numero delle famiglie monopersonali cresce vistosamente.
E mentre la legislazione, un secolo fa, attribuiva alle donne nuovi diritti per la custodia dei loro figli, oggi la legislazione deve fare i conti con la realtà della fertilità in diminuzione, della genitorialità dei single, la genitorialità fuori dal matrimonio o omosessuale, dopo il divorzio o seriale, e delle multiple, varie e imprevedibili forme che l’amore assume, quando le relazioni diventano sempre più una scelta individuale.

Guidati dalle idee di amore di Søren Kierkegaard – ricche, diversificate, complesse, spesso sofferte ma mai banali – la mostra entrerà nel vivo dei dilemmi emotivi dei nostri tempi e creerà una piattaforma per il dibattito pubblico sui temi – stranamente taciuti o trascurati – quali i conflitti, le contraddizioni, le sfide e i dilemmi dell’amore nel XXI secolo.5  

Dal matrimonio e dalla vita di coppia come destino quasi ineludibile, cui Kierkegaard si sottrae rompendo il proprio fidanzamento, alla frammentazione di una topografia sentimentale in repentina ridefinizione: questo slittamento, questa fotografia della contemporaneità la mostra si proponeva di captare. In questo senso, il museo diventa davvero l’ “autobiografia di una città”, secondo una definizione cara alla Sandahl.6 I due poli di questa autobiografia sono da un lato la memoria, che permette di saldare il personale con il collettivo; dall’altra il concetto di diversità, poiché “la diversità è il punto da cui possiamo misurare l’uguaglianza”.7 Frantumate le memorie nazionali condivise, nel naufragio della storia ufficiale “ci può essere spazio per più persone e per l’esperienza della diversità e dell’alterità. In queste crepe e transizioni nelle memorie nazionali ci può essere posto per un insieme di memorie, simboli e identità più eterogenee, plurali e differenziate, che ci collocano in modo chiaro in un contesto più globale”.8 Facendo riferimento a Sennett, la curatrice allude alle due qualità della vita urbana cui un museo cittadino deve appellarsi: da un lato la socialità, intesa come capacità di relazionarsi con lo “straniero”; dall’altro la complessità,  intesa come capacità di contenere mondi al proprio interno.9 L’amore cent’anni dopo la nascita di Kierkegaard è diventato questo: espressione di diversità e di unicità; non desiderio di omologazione, come era nella logica borghese ottocentesca, ma manifestazione della propria singolarità, sullo sfondo di una comunità di diversi.

I musei come spazio di riflessione sulla propria traiettoria di vita, di avvicinamento dei lembi di passato e presente, di rivitalizzazione della storia, proprio lì, nelle sale: questa è, forse, la differenza principale rispetto alla narrazione proposta dal Museum of Broken Relationships di Zagabria, divenuto una sorta di “franchising” con mostre itineranti in tutto il mondo. Il tema della rottura di una relazione, letto ora nella sua tragicità, ora con leggerezza, a volte perfino con sollievo, fa del museo, in quel caso, un luogo di catarsi, di riconoscimento collettivo: quasi un rituale. A Copenhagen, invece, la sfida era quella di portare a contatto, quasi in senso fotografico, una vicenda umana – certo di un pensatore sopraffino ma anche di un uomo fatto di corporeità (il suo divano, le tazzine da caffè…) – con il vettore di vita fondamentale, comune e tutti, che è l’amore. Dunque l’accento non era sui paraphernalia di Kierkegaard: oggetti in fondo comuni, significativi solo perché interpretati sotto una luce specifica; ma sul sistema dell’amore in tutte le sue ramificazioni. Cosicché, di fronte a ogni stazione di questa dolorosa e vivissima via crucis dell’esposizione al sentimento, veniva da chiedersi: “e io”?   

Difficile immaginare una mostra meno consolatoria sul tema dell’amore.  Lo dicono le curatorial questions (non visibili al pubblico ma usate solo come traccia in fase di studio e di curatela) abbinate ai singoli oggetti. Quelle connesse alla fede nuziale della madre del filosofo, per esempio, erano:

“Nel nostro inconscio, lasciamo sempre che le madri rappresentino la tranquillità, la sicurezza e l’armonia, mentre al tempo stesso le rendiamo invisibili o mute nelle nostre vite, come ha fatto Kierkegaard, che non ha mai, neppure una volta, nominato la madre nei suoi scritti e nelle sue dediche? La nostra relazione con le nostre madri è veramente un riflesso della relazione di coppia, la relazione che abbiamo osservato fra i nostri genitori?”. 

Oppure, per la ciocca di capelli di Kierkegaard:
“La ciocca di capelli di un uomo melanconico e senza figli il cui dna e la cui linea familiare si è interrotta, ma che non è stato mai dimenticato. Quando il nostro non avere figli è una scelta libera? Quando sperimentiamo l’assenza di una vita familiare come una solitudine implacabile? O ci critichiamo per l’incapacità di amare? È possibile scegliersi?”. 10

L’oggetto storico è qui visto come epifenomeno di un modo di relazionarsi con gli altri: poca enfasi, al di là della nota storica, viene data alla sua materialità, al suo passare di mano in mano, al suo valore artistico o formale. Viene invece valorizzato il riferimento al pensiero di Kirkeegaard attraverso brani lunghi, in danese e in inglese, in loop sui monitor. In contrasto con una museografia che prescrive di usare testi brevi e sintetici, qui la bellezza del fraseggio, l’intrinseca verità delle parole viene valorizzata, sciolta, quasi liberata.11 Dal cerchio interno in cui gli oggetti sono collocati, rimandano in modo centrifugo al cerchio esterno della contemporaneità, dell’ “e io?”, della vita piena di desideri e tensioni che preme fuori dalle mura del museo.  

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1 È una riflessione che la Sandahl ha esposto anche in alcuni scritti, come per esempio in “Disagreement makes us strong?”, in Curator, vol. 55, n. 4, ottobre 2012, pp. 467-78.
2 Importante e innovatore è stato, in particolare, il suo lavoro al Women’s Museum di Århus, al Museum of World Cultures di Gothenburg, al Te Papa Tongarewa National Museum in Nuova Zelanda.
3 La mostra virtuale, che raccoglie una selezione di oggetti donati alla collezione permanente del museo, è ancora visitabile: http://www.copenhagen.dk/en/whats_on/current_special_exhibitions/sren_kierkegaard1/the_virtual_exhibition.
4 E’ interessante che il museo non abbia effettuato, a oggi, un’analisi sulla partecipazione dei visitatori, la donazione di oggetti, la loro tipologia, ecc.: come se il processo in questo caso contasse più del risultato.
5 Traduzione dall’inglese mia (come tutte le altre nel testo).
6 Sandahl, Jette, “Disagreement makes us strong?”, cit.
7 Sandahl, Jette, “Negotiating Identities”, pubblicato in Friis Møler, Søren e Muukkonen, Marita (a cura di), Under [De]construction – Perspectives on Cultural Diversity in Visual and Performing Arts, NIFCA, Helsinki 2002, anche online: http://www.hz-journal.org/n5/sandhal.html.
8 Ibid.
9 Sennett, Richard, Capitalism and the city: Globalization, flexibility, and indifference, in Yuri Kazepov (a cura di), Cities of Europe: Changing Contexts, Local Arrangements, and the Challenge to Urban Cohesion, Blackwell, Oxford 2005, citato in Sandahl, Jette, “Disagreement makes us strong?”, cit.
10 Le domande sono tratte da un file pdf pubblicato online dal museo, ora non più disponibile.
11 La lettura di una selezione di testi da parte della stessa Sandahl, in lingua originale, è disponibile all’indirizzo https://soundcloud.com/camoc-city-museums/k-benhavn-excerpts-from-s-ren.

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Anna Chiara Cimoli è una storica dell’arte e museologa formatasi all’Università Statale di Milano e all’Ecole du Louvre di Parigi. Ha conseguito un dottorato al Politecnico di Torino. Si occupa di storia dei musei e degli allestimenti di mostre temporaneee; su questi temi ha pubblicato, fra l’altro, Musei effimeri. Allestimenti di mostre in Italia 1949-1963 (il Saggiatore 2007) e, con Fulvio Irace, La divina proporzione. Triennale 1951 (Electa 2007). Collabora al progetto MeLa*-European Museums in an age of migrations, nell’ambito del gruppo di ricerca del Politecnico di Milano, studiando in particolare i musei delle migrazioni, con un focus specifico sulle loro pratiche inclusive e sulle loro forme di interazione con il pubblico.Fede nuziale della madre di Kierkegaard. Fonte fotografica sito Museum of Copenhagen

Fede nuziale della madre di Kierkegaard. Fonte fotografica sito Museum of Copenhagen