SPECIALE 56ma BIENNALE DI VENEZIA
L’interculturalità (im)possibilie all’Expo di Milano
di Viviana Gravano

Nella primavera di quest’anno l’Italia è stata scenario dell’apertura di due manifestazioni pressoché in contemporanea: la 56ma Biennale di Venezia (All the world’s futures) e l’Esposizione Universale di Milano (Nutrire il pianeta. Energia per la vita). In ambedue i casi, il primo nel contesto dell’arte, il secondo in quello industriale e commerciale, si era chiamati a lavorare su scala mondiale evidentemente già per vocazione di base delle due manifestazioni. Quello che cercherò di discutere in questo articolo non è la buona o la cattiva riuscita di questo intento, ma l’approccio teorico scelto dall’Expo di Milano.

Occorre partire da un minimo di storia per poter capire il ruolo e gli sviluppi di questa kermesse. La prima Esposizione Universale riconosciuta come tale è notoriamente quella proposta dal principe Albert, consorte della regina Victoria, a Londra nel 1851, con il titolo Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations. Per l’occasione ad Hyde Park fu eretto il Crystal Palace, opera dell’architetto Joseph Paxton e dell’ingegnere Charles Fox, tutto in ghisa e vetro, andato totalmente distrutto in un incendio nel 1936. Già nella dicitura “All nations” del titolo appare interessante che il riferimento non è ai paesi ma alle nazioni, concetto che si andava affermando nell’Europa colonialista di quel XIX secolo. Ancora da notare che, fuori dall’Europa, le sole “nazioni” invitate erano: Algeria, Tunisia, Egitto per l’Africa; Cina, Impero Ottomano e Persia per l’Asia. Per l’Africa: l’Algeria già colonia francese; la Tunisia e l’Egitto nel mirino delle ambizioni espansionistiche dell’Inghilterra vittoriana attraverso trattative, in quel momento ancora solo economiche, con l’Impero Ottomano, altro invitato alla Great Exhibition; per l’Asia: la Cina appena uscita sconfitta dalla cosiddetta Prima Guerra dell’Oppio, che di fatto sancì l’inizio del colonialismo britannico (e poi francese e italiano); l’Impero Ottomano, nemico e insieme partner delle diverse potenze europee per imporre il dominio su diversi paesi dell’area sia africana che asiatica; la Persia, ormai già sotto il protettorato russo e britannico. Dunque il concetto di “All nations” fa riferimento alle nazioni europee, e a quei paesi che, in un modo o nell’altro, stavano entrando o erano entrati già a far parte dei loro relativi imperi coloniali.

Questa breve storia serve solo a far comprendere che le cosiddette Esposizioni Universali, oggi gestite da un organismo internazionale detto BIE (Bureau Internationale des Expositiones) con sede a Parigi, sono nate in parallelo e in conseguenza della formazione del concetto dinazione prodotto dalla cultura europea, che si apprestava a costruire le proprie identità nazionali attraverso le occupazioni coloniali e la costruzione degli imperi. Le Esposizioni Universali si fondano da subito sull’idea di prodotto industriale e di progresso, cioè sui due fondamenti basilari della nascita della cultura capitalista occidentale. Da subito sono grandi vetrine dove esporre l’abilità tecnica, l’innovazione industriale, le scoperte scientifiche che dimostrano la netta superiorità della civiltà occidentale. Non a caso ospitano immediatamente i famosi Zoo Umani, cioè rappresentazioni a uso e consumo del pubblico che visita l’Expo, nelle quali persone di altri paesi, spesso portate via con la violenza o con l’inganno, provenienti da colonie o comunque da paesi extra-europei, vengono mostrati come animali da circo. L’attitudine stessa dell’Esposizione Universale è quella del display, cioè del mettere in mostra, e tutt’altro che casualmente coincide anche con la nascita dei musei pubblici in tutta Europa, e ancora nello specifico, dei musei antropologici ed etnografici che espongono gli altri.

La prima domanda che mi sono posta entrando all’Expo Milano 2015 è stata: cosa può essere rimasto di quella remota origine della Great Exhibition nell’attuale evento milanese?

Vorrei subito specificare che quello che mi interessa in questo contesto non sono le singole opere o le singole architetture, o la bellezza o meno di queste, ma i presupposti teorici e concettuali generali da cui ha preso le mosse la manifestazione, e la loro concretizzazione in undisplay, che si propone come sospeso tra l’idea di museo, quella di parco divertimenti e quella di arena dei consumi, come era nel XIX secolo.

Le esposizioni universali sono figlie di un pensiero positivista, quindi universalista, che considerava il “mondo” come un insieme di nazioni, divise già tra quelle sviluppate, civili e in costante crescita e progresso, e quelle da civilizzare. Chiaro che questo presupposto era legato a una visione ottocentesca, al capitalismo nascente e va quindi contestualizzata. Ora cosa resta oggi, nell’era neo-capitalista e neo-liberista, di quella visione nell’Expo Milano 2015? E cosa ancora più importante per me: in che modo il linguaggio dell’arte, delle esposizioni, degli allestimenti tra mostra e parco tematico, è funzionale alla riproposizione o al rifiuto di quella visione ottocentesca?

L’Expo di Milano presenta alcuni padiglioni nazionali (tutti i paesi europei e quelli diciamo “occidentali” ne hanno uno), poi propone i cosiddetti cluster che la guida ufficiale così descrive: “I Cluster sono una delle novità di Expo Milano 2015: per la prima volta i Paesi non vengono raggruppati in padiglioni collettivi secondo criteri geografici, ma secondo identità tematiche e filiere alimentari. In questo modo il Tema Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita viene trattato in modo diffuso rendendo concreto lo spirito di questi spazi che è proprio teso alla condivisione, al dialogo e all’interazione. I Cluster sono caratterizzati da aree comuni, che sviluppano attraverso spazi funzionali (mercato, mostra, eventi, degustazioni) la filiera alimentare. Ogni Paese presente nei Cluster ha uno spazio espositivo individuale, dove sviluppa una sua propria interpretazione del Tema di Expo Milano 2015.”1 In altre parole alcuni paesi non hanno un proprio padiglione a sé ma, pur avendo un proprio spazio allestito individualmente con il proprio nome, fanno parte di un’area tematica che viene identificata come la maggiore risorsa alimentare di qual paese. I Cluster sono: riso, cacao e cioccolato, caffè, frutta e legumi, spezie, cereali e tuberi, bio-mediterraneo, isole mare e cibo, zone aride. In questi cluster non è compreso un solo paese “occidentale”, nessun paese europeo, nessun paese del Nord America e solo alcuni di centro e Sud America. Andando a guardare i crediti dei diversi cluster non viene mai citato né nella parte organizzativa, né in quella architettonica, un solo nome che non sia italiano o europeo; le collaborazioni sono solo e esclusivamente con università italiane, le ditte che hanno realizzato anche i minimi dettagli dei padiglioni sono tutte italiane. Ogni cluster in realtà è sponsorizzato praticamente e visivamente in maniera ben chiara da uno o più brand italiani: tre esempi per tutti, la Scotti per il riso; Eurochocolate per cacao e cioccolata; Illy per il caffè.

Nei vari cluster si fa la storia degli alimenti trattati, risalendo anche molto indietro nel tempo, ma mai una sola volta nei testi appaiono accenni alle fortissime relazioni tra i paesi colonizzatori e quelli colonizzati, quasi tutti appunto compresi nei cluster stessi, mai si parla di guerre o aggressioni dovute alla necessità per l’Europa di approvvigionarsi delle produzioni di tali materie prime negli altri paesi. La storia del cibo è solo “esotizzata”, resa come un oggetto pacifico e pacificato, capace solo di produrre cooperazione e scambi. Nonostante questo molto spesso la spiegazione del singolo cibo passa attraverso stampe antiche, quasi sempre prodotte da viaggiatori occidentali, spesso in periodo coloniale o grazie a viaggi di “scoperta” organizzati dagli europei nei diversi paesi poi invasi.

Vorrei citare un solo esempio che spiega bene come questa “dimenticanza” e questa scelta di un preciso display anche visivo, di cui parlerò meglio tra poco, sia tutt’atro che casuale. Nel cluster del riso è compresa la Sierra Leone, paese noto non tanto per il riso ma per i famosi “diamanti insanguinati”, perché in passato oggetto di depredazioni coloniali per le proprie miniere diamantifere, e negli anni 1991/1999 durante la sanguinosa guerra civile nel paese, luogo di esportazione clandestina dei diamanti acquistati da molti orafi e gioiellieri in tutta Europa. All’interno del Padiglione della Sierra Leone c’è un sacco di riso portato lì dal progetto del piccolo comune di Isola della Scala, vicino Verona, che intende finanziare la nascita di una coltivazione locale di riso, in Sierra Leone. Il progetto si chiama Smart Farm Village, ed è proposto da Massimo Gazzani, presidente dell’Ente Fiera. Sopra il sacco di riso un cartello recita: “Vinci un Diamante col Riso – Il Riso che brilla“. Il testo dice che in 10 delle confezioni di Vialone Nano venduto nel padiglione della Sierra Leone all’Expo contengono un diamante donato da Salvini, brand della più grande azienda Damiani di Verona. I soldi ricavati dalla vendita del riso andranno tutti per costruire il villaggio ecosostenibile sopra citato. Nessun cenno alla storia atroce del traffico di diamanti sostenuto proprio dalle aziende di oreficeria europee, italiane comprese, che non solo serviva a finanziare l’importazione di armi nella Sierra Leone, ma che ha prodotto uno dei più spaventosi fenomeni di arruolamento di bambini soldato. In sostanza la Sierra Leone si presenta al pubblico con una iniziativa, tutta made in Verona, che propone di comprare riso, non prodotto localmente ma a Isola della Scala. La Sierra Leone era invece caratterizzata da grandi foreste di mangrovie distrutte in periodo coloniale e postcoloniale, una massiccia produzione di legno, di caffè e pepe nero. Non solo, ma per attrarre l’attenzione sul riso veronese da comprare si mettono in palio i diamanti, che sono stati la causa della colonizzazione del paese, la causa di una sanguinosa guerra civile e della morte violenta di migliaia di bambini in armi. Il tutto sponsorizzato da un gioielliere veronese.

Questo piccolo esempio per iniziare a parlare di come sono impostati i cluster che sono in parte vetrine per prodotti italiani, con una cornice volutamente “esotizzata” e molto povera, standardizzata visualmente, che equipara pressoché tutti i paesi compresi nei cluster.

Nello spazio tra un padiglione e l’altro si sviluppa una sorta di mostra fotografica en plein air con immagini fotografiche di grandi dimensioni, montate su una sorta di billboard dipinti tutti di bianco, con sotto una didascalia con il nome del fotografo e a volte qualche frase. Ciascuna serie di fotografie ha una sua attinenza con il tema generale del cluster in cui sono inserite. In tutta l’Expo le foto sono solo ed esclusivamente di fotografi occidentali, per lo più europei o statunitensi, o come il caso ad esempio di Salgado, completamente inseriti nel mercato dell’arte occidentale. Non una sola immagine è prodotta da un artista o da un fotografo africano o asiatico, continenti di appartenenza dei paesi compresi nei vari cluster. Solo per citare un esempio il Mali ospita l’ormai decennale esperienza dei Rencontres de Bamako/ biennale africaine de la photographie, durante i quali si sono avvicendati centinaia di fotografi da tutti i paesi dell’Africa o africani residenti altrove. In tutta l’Expo nessuno di questi era, secondo la visione dell’organizzazione, in grado di rappresentare nessun tema espresso nei cluster in cui sono presenti per la maggior parte dei casi paesi africani. Non solo, ma la scelta non si distacca mai, salvo rarissime eccezioni, dallo stereotipo costruito da WordPress Photo e Magnum, cioè agenzie occidentali con un taglio giornalistico molo ben definito, con una visione unilaterale, prodotta sempre e solo dallo sguardo da nord e da ovest verso il resto del mondo. Le immagini riproducono stereotipi esotizzanti, colori sgargianti, persone sempre e solo vestite in maniera “tradizionale”, con una visione volutamente “folklorica” o legata a una fotografia etnocentrica combattuta strenuamente ormai da centinaia di artisti extra-europei, e da migliaia di pagine di libri e cataloghi informati da un pensiero post-coloniale. L’Expo dice in maniera chiara e netta che: l’immagine del riso è quella delle vecchie mondine di Gianni Berengo Gardin, e nessun artista tra le centinaia, ad esempio, di indiani ormai noti in tutto il mondo poteva rappresentarla; l’immagine di cacao e cioccolata del Ghana, la deve raccontare l’americano Martin Parr; l’immagine del caffè, uno dei prodotti che ha creato maggiori violenze nel mondo e ancora oggi oggetto di sfruttamento feroce dei suoi lavoratori, viene raffigurato attraverso un libro che si intitola Profumo di sogno, curato da Angela Vettese con foto di Sebastião Salgado, che come detto è perfettamente inserito nel sistema dell’arte; l’immagine della frutta e dei legumi è affidata alla svizzera Irene Kung, che nella sua presentazione propone una sorta di Eden contemporaneo, pacificato, in cui gli alberi da frutta ci fanno sognare, e certo Irene Kung dalla Svizzera non si è mai spostata a traversare i frutteti in Italia in cui i giovani immigrati raccolgono la frutta per due euro al giorno; le spezie sono raffigurate da Alex Webb, americano, della Magnum Photo che, come la Contrasto in Italia che ha prodotto Salgado, detiene una sorta di monopolio sul fotoreportage a livello mondiale; per cereali e tuberi si è scelto di incaricare appositamente Joel Meyerowitz, statunitense, divenuto famoso per aver potuto accedere per primo come fotografo dopo l’attacco alle torri dell’11 settembre; sul Mediterraneo non poteva che essere Ferdinando Scianna, padre del nostro neo-realismo, fedele alla linea della fotografia/realtà, e nessuno delle centinaia di giovani fotografi italiani che hanno lavorato sul Mediterraneo uscendo dallo stereotipo folkloristico di questo specchio d’acqua testimone di incredibili incroci interculturali, ma anche muto osservatore di migliaia di morti assurde; per isole, mare e cibo le immagini sono della statunitense Alessandra Sanguinetti, di nuovo Magnum Photo, che nel suo testo che accompagna le immagini ripropone l’eterno mito dei popoli delle isole del Pacifico come esseri fuori dal tempo, sempre felici di quello che hanno; infine le zone aride sono fotografate dal noto fotografo di deserti in tutto il mondo George Steinmetz che così presenta il suo lavoro nel suo sito: “Best known for his exploration photography, George Steinmetz has a restless curiosity for the unknown: remote deserts, obscure cultures, the mysteries of science and technology. A regular contributor to National Geographic and GE­O Magazines, he has explored subjects ranging from the remotest stretches of Arabia’s Empty Quarter to the­ unknown tree people of Irian Jaya”.2

Uno degli assunti a mio modo di vedere più forti dell’Expo si manifesta in maniera evidente in questa scelta di affidare la rappresentazione più immediata dei temi dei cluster, visibile anche a chi non entra in un certo padiglione, a una mostra fotografica che ricalca in tutto e per tutto un immaginario buonista, che apparentemente valorizza l’immagine dei diversi paesi, ma che in realtà fa parte di un modello neo-esotista molto diffuso nella cultura reportagistica ancora legata alla visione coloniale del fotografo come esploratore dell’altro.

Entrando nei vari padiglioni nazionali dei diversi paesi di ciascun cluster la scelta diviene evidente. Il displayng espositivo oscilla tra due poli altrettanto significativi: da un lato un’impostazione delle sale come fossero sempre piccoli mercati di strada, suk o bancarelle da spiaggia in una città occidentale; o, là dove si espongono alcuni oggetti che rappresentano il patrimonio culturale del paese, l’uso del classico sistema espositivo dei musei antropologici o etnografici. In pressoché tutti i paesi ospitatati nei vari cluster, e in modo particolare in quelli del riso, del caffè e del cacao e cioccolata, gli ambienti espositivi dedicati ai singoli stati non sono altro che piccoli mercati che propongono pochi prodotti industriali e poi prodotti artigianali classici che corrispondono a pieno allo stereotipo occidentale, e italiana in particolare, del venditore ambulante immigrato che si può trovare nelle nostre città. La stessa distribuzione delle merci è identica per tutti i padiglioni, non esiste nessuna personalizzazione specifica nei vari paesi, ma una sorta di format estremamente povero, con una scarsissima elaborazione visuale che prevede al massimo pochi tratti grafici sui muri, o tessuti appesi, e alcuni manifesti turistici. La rappresentazione del paese corrisponde assolutamente a quella proposta dall’Expo, e non interroga mai l’autorappresentazione dei paesi stessi. In diversi stand di paesi africani le donne realizzano i famosi disegni all’henné sulle mani delle visitatrici. L’utilizzo anche dell’abbigliamento ripercorre i peggiori stereotipi dell’iconografia turistica di massa: uno per tutti, nel padiglione dell’Egitto uno degli addetti vestito da Faraone propone una visione da parco tematico disneylandiano all’interno di uno dei paesi culturalmente più ricchi e interessanti del Mediterraneo oggi. In pressoché tutti gli stand dei cluster il sottofondo musicale corrisponde all’immaginario esotista occidentale, con suoni “naturali” della foresta inframezzati a rumori di acqua e animali feroci, accanto a sonorità assolutamente legate al modello stereotipico costruito dalla cultura coloniale della musica dei nuovi “paradisi terrestri”. Non il minimo accenno a tutte le diverse declinazioni musicali ad esempio di tutta la cultura del Maghreb contemporaneo, o del Sud Africa. In altre parole i padiglioni dei paesi africani, e di molti paesi asiatici più piccoli, di alcuni di centro e latino America (ma su quest’area va fatto un discorso a parte), altro non sono che lo specchio di una cultura neo-coloniale, molto presente in Italia in particolare, che cerca di nuovo in questi luoghi, nella realtà, una sorta di paradisi perduti, volutamente rappresentati come “culture tradizionali”. Mai nessun riferimento, anche in paesi ancora in piena guerra civile o reduci da scontri terribili, alle condizioni reali dei luoghi: la storia dei diversi luoghi è cancellata. Si potrebbe obiettare che ciascun padiglione ha un proprio commissario nazionale, ma se si va poi a vedere chi ha curato i cluster, chi ha costruito le strutture, chi ha ideato gli spazi, ci si rende conto che l’allestimento è sempre e solo italiano. A questo si aggiunga che tutto questo propone una differenza drammaticamente chiara tra i paesi poveri e i paesi “ricchi”, non solo intesi come occidentali, ma anche come quei paesi che attraverso un’economia neo-coloniale hanno stretto rapporti molto forti con l’Europa meritandosi all’Expo un’altra immagine. Un esempio per tutti il padiglione dell’Angola, posto all’inizio del decumano principale dell’Expo, è vasto 2000 mq e si sviluppa su 4 piani, uno dei più grandi dell’Expo. La struttura interna presenta un display multimediale e interattivo con una tecnologia molto raffinata che ha richiesto un investimento economico di alto livello. Dopo la sua liberazione dal governo coloniale portoghese nel 1975 l’Angola ha vissuto una lunga guerra civile che si è conclusa a inizio anni 2000. Al momento attuale il 38% delle aziende sul territorio angolano sono portoghesi (con solo nel 2012 23.000 lavoratori immigrati portoghesi in Angola), il 18% sono aziende cinesi. L’Angola produce ed esporta diamanti e petrolio: dal 2005 ha ricevuto ingenti aiuti finanziari da Cina, Brasile, Portogallo, Germania, Spagna ed Unione Europea. Tra il 2003 e il 2011 solo gli USA hanno investito in Angola 58 miliardi di dollari. L’Italia è il terzo paese, dopo Portogallo e Francia, per volume di affari con l’Angola. Nel paese si trovano ENI e SAIPEM per l’estrazione petrolifera che si è consolidata dopo la crisi libica. Nel 2015 Luanda, la capitale, è stata eletta la città più costosa al mondo, con una fioritura esponenziale di negozi del lusso di brand italiani. Questa rapida panoramica spiega perché il Padiglione dell’Angola non si trova in nessun cluster nonostante abbia una forte produzione agricola in diversi dei settori indagati dall’Expo. Ildisplay interno parla continuamente di “educazione”, une tema centrale per l’Angola come ribadito più volte dalla sua Commissaria del Padiglione, una tra le poche donne commissario. L’ambiente è un perfetto mix tra visione “tradizionale” e nuove tecnologie. Tutto parla di un paese in pieno sviluppo e con un PIL in crescita verticale. Un paese che l’Europa e la Cina stanno letteralmente comprando pezzo a pezzo. Data la mole davvero notevole di investimenti fatti dall’Italia e dagli altri paesi, appunto Cina compresa, certo all’Expo non poteva apparire come un paese povero che vende “cianfrusaglie” come in un suk. La nota positiva è che il padiglione è stato realizzato da un’architetta, Paula Nascimento insieme a Stefano Rabolli Pansera, con il quale ha anche creato Beyond Entropy Africa, uno studio di architettura, curatela e ricerca. I due avevano già vinto il Leone d’Oro come miglior padiglione nazionale alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2013 e hanno partecipato alla Biennale di Architettura curando sempre il padiglione angolano. Quello che mi interessa non è la qualità del padiglione, che in questo caso appare molto elevata, ma la condizione secondo la quale l’Angola può esprimere una propria immagine, una propria autorappresentazione perché corrisponde all’immagine che i grandi paesi investitori devono dare di quel paese “in pieno sviluppo”. Al contrario, altri paesi africani, che stanno creando una propria economia o una propria linea di sviluppo che non sono ancora legate a doppia mandata con le speculazioni europee, sono condannati a una sola stereotipica e omologata rappresentazione.

Nella pagina dei paesi partecipanti, sia nel sito che nella mappa che viene distribuita ovunque all’Expo, si trovano una sorta di icone stilizzate che rappresentano i padiglioni di tutti i paesi in ordine alfabetico. In questo modo si vede la struttura architettonica del padiglione, e si ha un colpo d’occhio sulla vasta gamma di partecipanti. Peccato che per i paesi partecipanti ai cluster non c’è un’immagine per ciascuno, ma solo una rappresentazione dell’area del cluster con sotto il corrispettivo titolo, senza la citazione dei nomi dei paesi partecipanti. Così in prima fila appare l’Angola, ma non l’Algeria o la Tunisia o il Ghana e così via.

Vorrei tornare sulla questione del display, in alcuni dei padiglioni africani in particolare, che richiama palesemente quello dei musei etnografici. Le diverse opere d’arte o reperti sono inseriti in delle teche di vetro, a volte con sullo sfondo le immagini di persone che usano l’oggetto esposto. Gli oggetti, o le opere d’arte sono accompagnati da didascaliche “scientifiche” o vere e proprie schede di catalogazione museale, con un linguaggio mutuato dalle tassonomie museali moderniste, ancora vive in molti musei etnografici contemporanei in Europa. L’idea di distinguere la parte del padiglione con gli oggetti di oggi, venduti come in un mercatino e poi di porre invece gli “oggetti culturali” in una teca museale trascrive perfettamente la visione che questa Expo, assolutamente etnocentrica, propone. La parte del “patrimonio” culturale viene esposta e conservata così come la cultura coloniale ha “insegnato” ai paesi colonizzati, conducendoli alla conoscenza del loro stesso patrimonio culturale e “educandoli” alla sua conservazione. Ma tutto questo accade ancora in un contesto povero, sia materialmente che culturalmente. La cultura si manifesta solo sotto forma naturale e la natura resta il solo contesto riconoscibile e comune tra questi paesi. Quindi contornati da suoni “esotici”, da disegni che riproducono sempre paesaggi da safari con un’iconografia nata in occidente dalla metà del 1800, con immagini fotografiche, o a volte video, che mostrano animali feroci che ne sbranano altri, o tramonti da cartolina sulla savana, le teche appaiono come la possibilità di questi popoli di riconoscere all’Europa, ai propri colonizzatori, la scoperta della propria cultura. Che poi l’esposizione, la “mostrazione” di questa cultura abbia esattamente la stessa iconografia che ci sia in Ghana, a Haiti, in Tunisia, in Algeria o in Congo, non conta, o per meglio dire è fortemente significativo. Tutto ciò corrisponde a un atteggiamento filosofico che ha dominato le culture coloniali, un disegno studiato a tavolino che è servito allora, e serve ancora oggi seppur ben camuffato, a sminuire il ruolo delle differenze interne nei paesi allora colonizzati, oggi eterne ex-colonie, tutti raggruppati sotto un comune stereotipo di arretratezza e naturalezza. All’Expo si ripropone l’idea dell’Africa intesa come un continente omogeneo, dove le diversità tra paese e paese sono insignificanti: l’arte africana, la musica africana, le tradizioni africane sono espressioni che fanno parte del nostro linguaggio quotidiano, omologante, che non tiene in considerazione in nessun modo che l’Africa va da Capetown a Algeri passando per Bamako. Nella stessa maniera nei cluster dopo un po’ che si passa da un padiglione all’altro si ha la singolare sensazione di essere sempre nello stesso paese, di vivere in un immaginario che è tutto “Africa”. Basta poi tornare sul decumano e solo da fuori vedere Svizzera, Regno Unito, Belgio e Francia per rendersi conto che sono così diversi da non sembrare espressione di un solo continente. La differenza di approccio è essenziale. Il pensiero coloniale che doveva conquistare spersonalizzando i singoli cittadini, togliendo loro lingua, cultura e autostima, doveva anche costruire il mito dell’Africa Nera, misteriosa, tutta uguale, esotica e incivile, da scoprire e educare. L’esotismo dilagante nell’Expo costruisce un’immagine che rigetta nel XIX secolo, senza distinzioni culturali (salvo rare eccezioni per paesi africani partner importanti per gli investimenti dei paesi dominanti economicamente ora a livello globale). Nessuna scelta è mai innocente. Rappresentare l’Algeria, l’Egitto, la Tunisia come paesi senza una propria immagine, senza la capacità di proporre una propria autorappresentazione se non quella ricalcata su quella stereotipica dell’occidente, denota solo che sono paesi a rischio, che con tutte le loro contraddizioni interne stanno tentando una strada propria di indipendenza economica che l’Europa non vede di buon occhio, dunque che non disegna come paesi sulla via della “modernizzazione”.

Torniamo ancora nella “fortunata” e “moderna” Angola e troviamo due tipologie di display estremamente interessanti. Al secondo piano alcuni oggetti d’uso, i classici “oggetti etnografici” da museo, che potremmo trovare al Pigorini di Roma coma la Quai Branly a Parigi, sono esposti con una didascalia che ne detta il nome, le dimensioni precise, il materiale, l’uso, e persino la provenienza. Sono poggiati su delle mensole dal design essenziale e hanno come sfondo una foto in cui una ragazza, rigorosamente vestita in maniera “tradizionale” munge una mucca, e l’immagine ha un viraggio che va dal rosso al blu che la rende molto contemporanea. Non ho citato a caso il Quai Branly, questa parte del Padiglione Angola potrebbe essere tranquillamente in una vetrina di questo museo parigino. Ecco che mi torna in mente che in questo padiglione la parola dominante, ma anche nei discorsi della sua commissaria, ovviamente Angolana, è “educazione”. Una parola al primo posto nel vocabolario coloniale quando si imponevano le proprie politiche ai paesi colonizzati. Dunque salgo all’ultimo piano del Padiglione Angola e un nuovo display, persino divertente mi si presenta davanti. Ci sono diversi oggetti “tradizionali” del mondo rurale angolano: giare di terracotta per il trasporto dei liquidi, ceste per il trasporto di cibo e così via. Ma nella stessa esposizione, a confronto con questi oggetti evidentemente fatti a mano, in corrispondenza della giara appaiono le “nostre” bottigliette di acqua di plastica, accanto alla cesta un “nostro” carrello della spesa e così via. Le didascalie, senza rinunciare alla loro scientificità che impone di nuovo titolo, dimensione, materiale eccetera, commentano allegramente le differenze tra l’uso ancora attuale di quegli oggetti in Angola e l’uso dei “nostri” oggetti moderni. Non posso esimermi qui dal raccontare un episodio che ho vissuto davanti a questo display per far capire la portata culturale di queste scelte, e anche la loro immediatezza di comprensione. Accanto a me che scattavo foto c’era una signora, direi non più che quarantenne, con suo figlio di più o meno 8 anni. Alla domanda del bambino su cosa volesse dire quella strana istallazione la spiegazione, ben inteso ovvia e giusta dato l’allestimento, della donna è stata: “Vedi loro usano ancora quelle cose che fanno loro perché sono arretrati, noi invece usiamo le nostre cose più pratiche e moderne.” L’ovvia domanda del bambino: “Perché?” e l’ovvia risposta della mamma: “Perché sono molto poveri, poverini”. Non racconto questo episodio per cronaca spicciola ma perché la lettura immediata di questi due visitatori è esattamente il messaggio che l’Expo dà ai suoi visitatori, in particolare a quelli italiani con una scarsissima preparazione interculturale, attraverso l’uso dei linguaggi visivi più basici ma molto efficaci.

Per avere conferma di tutto questo occorre andare a leggere le descrizioni dei diversi padiglioni dei paesi che si trovano nel sito dell’Expo e nella guida breve, parlando dei paesi extra-europei dominano parole come: tradizione, prodotti tipici, sapori magici, tribù, esotico. Leggendo solo la descrizione del concept del Padiglione Italia si trova scritto: ” Il Padiglione è innovativo, inedito, sorprendente, unico, in costante interazione con l’ambiente circostante. È il punto di riferimento per imprenditori e ricercatori, capaci di ravvivare i concetti di eccellenza italiana, del saper fare, del made in Italy”.3

Per chiudere vorrei solo fare cenno al cosiddetto Padiglione Zero, che ha sulla sua facciata la frase di Plinio il Vecchio che recita Divinus Halitus Terrae, curato da Davide Rampello e progettato da Michele De Lucchi. Così Lo stesso Rampello spiega il senso del padiglione: “Vogliamo proporre un racconto che parte dalla memoria dell’umanità, passa attraverso i suoi simboli e le sue mitologie, percorre le varie fasi dell’evoluzione del suo rapporto con la Natura”.4 L’enunciazione di un pensiero evoluzionista e universalista degno del XIX secolo, che unifica tutta l’umanità sotto un solo immaginario mitico e simbolico. Ma come rappresentare questa storia universale, che attraversa il mondo dalla preistoria, dalla notte dei tempi? Attraverso la memoria, cioè la conservazione del sapere mirata alla costruzione dell’evoluzione, del progresso. La mia risposta potrebbe apparire forzosa se non fosse che il padiglione ci accoglie con una stanza che è una enorme biblioteca/archivio rinascimentale, piena di cassetti, tutta in legno, con la struttura tipica delle grandi raccolte tassonomiche. Come dire che la memoria dell’intero globo può essere conservata in un solo luogo: la biblioteca/archivio occidentale che, in nome di tutti i popoli del mondo, si impossessa, conserva e custodisce tutti i patrimoni di qualsiasi cultura, anche di quelle, non ancora ben “educate” che altrimenti li disperderebbero. Esattamente il presupposto con il quale, dall’Illuminismo in poi, l’Europa ha iniziato la sua missione “civilizzatrice” verso i paesi che andava colonizzando, depredandoli di tutto il loro patrimonio materiale e immateriale, catalogando oggetti, pensieri e persino corpi umani nei grandi archivi/biblioteche.

Dalla sala seguente un’umanità mitica raffigurata in grandi diorami stile Panorama o Diorama, degni della prima Esposizione Universale di Londra, dimostra la propria capacità di evolversi, progredire, fino a costruire le proprie città e metropoli per poi, alla fine, pentirsi dei disastri creati, ad esempio con la Borsa e con l’accumulo di immondizia. Leggiamo ancora le parole del curatore: “Secondo la visione agostiniana del tempo, passato, presente e futuro coesistono nell’animo: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa. Ecco, ciò che l’esperienza di questo percorso intende lasciare nei visitatori è proprio la necessità di una tensione verso qualcosa di nuovo, diverso, altro”5. Peccato che questo “diverso” e questo “altro” resta iscritto in una visione eurocentrica ed etnocentrica che ha fatto perdere la scommessa di questa Expo di poter essere un reale momento di riflessione interculturale in Italia.

[Questo articolo è un estratto di un piccolo volume che sarà realizzato da Viviana Gravano sul tema del display all’Expo Milano 2015].