Italianità
La lingua degli affetti e del desiderio
Intervista di Davide Ricco a Cesare Pietroiusti

Attraverso una serie di laboratori Cesare Pietroiusti sta conducendo una ricerca sull’importanza dell’uso della propria lingua madre in contesti internazionali legati alla comunicazione e alla discussione artistica. La preponderanza del Basic English in tali contesti rischia di determinare un appiattimento e una semplificazione del pensiero: da qui deriva il tentativo di un utilizzo raffinato, consapevole e complesso delle diverse lingue madri e l’attenzione alle infinite sfumature di concetto e di significato che emergono durante i laboratori. La sfera erotico-sensuale segna il punto d’incontro tra il concetto di lingua come sistema astratto di comunicazione degli affetti e del desiderio e l’organo anatomico tra i più sensibili del corpo umano, carico di una forte rappresentatività simbolica che sfocia spesso nel tabù.

 

DR: In questi laboratori stai cercando di far incontrare il concetto di lingua che ha a che fare con la verbalità, la fonetica e il lessico con quello di organo di senso legato al gusto e al tatto

CP: Si, la lingua come articolazione dei segni e come organo anatomico che consente la produzione sonora, e svariate forme di sensibilità.

DR: Come è nata l’idea?

CP: Tutto è partito da una riflessione, fatta lo scorso settembre al Forum dell’Arte Contemporanea Italiana a Prato, relativa al problema della lingua italiana. Sono convinto che gli artisti non anglofoni – in particolare quelli che hanno alle spalle una lingua particolarmente ricca da un punto di vista letterario o da un punto di vista di complessità etimologica, tipo l’italiano il francese o il tedesco – incontrano grosse difficoltà in contesti internazionali nei quali siamo costretti ad usare quella lingua franca che non è neanche l’inglese, ma il basic english, una varietà molto semplificata il cui uso rischia di determinare anche una semplificazione e – più sottilmente e insidiosamente – un orientamento del pensiero. Il basic english è una lingua molto pragmatica, molto efficiente in ambiti come quelli della pubblicità, degli affari, dell’economia e il suo uso tende verso certi valori ideologici. Io mi pongo il problema da artista che di tanto in tanto frequenta contesti internazionali e sto cercando di capire come mantenere la possibilità di comunicare con gli altri che non conoscono l’italiano – quindi continuando ad usare l’inglese – senza perdere le sfumature, le ricchezze, le complessità della lingua di origine, e come creare gli antidoti rispetto a questa ideologia in cui il basic english insidiosamente ti conduce. La proposta, se vogliamo anche banale e pratica, è quella di usare il più possibile in tali contesti le parole della propria lingua-madre, soprattutto quando esprimono concetti che nella lingua franca non si possono o non si sanno esprimere. Un esempio che faccio spesso è quello delle parole “volto” e “viso”, due termini della lingua italiana che hanno delle sfumature di significato non indifferenti: la prima richiama l’atto del volgersi, mentre “viso” denota un guardare e un essere visti. Questi significati non sono traducibili nel basic english che ha soltanto il termine face che, quindi, ne amputerebbe il concetto. L’intenzione è cercare di capire come poter continuare a comunicare in un contesto internazionale senza perdere queste sfumature.

Questa era in qualche modo la mia riflessione di partenza. La proposta che avevo lanciato a Prato, di chiamare questi laboratori “Il bacio con la lingua” era legata al fatto che, come dice Benjamin, la lingua-madre è la lingua degli affetti e del desiderio, e quindi che si potesse in un certo senso rilanciare la lingua italiana attraverso un raffinamento del suo uso in contesti legati all’erotismo, alla sessualità, al desiderio appunto. Occorre provare a capire come all’interno di uno scambio erotico le parole, il discorso, possano avere un’importanza e quale sia questa importanza. In tali contesti l’uso della lingua-madre, seppur non necessario, è sicuramente rilevante.

Rivolgere l’attenzione verso l’erotismo e la sensualità legati al discorso mi ha portato a pensare alla lingua come a un organo che ha un’enorme rappresentazione sensitiva a livello cerebrale: la lingua è l’organo più ricco di terminazioni sensoriali, non ha solo quelle del gusto, che sono specifiche della lingua e che nessun altro organo ha, ma da un punto di vista tattile la lingua è potenzialmente più precisa, più ricca di informazioni, degli stessi polpastrelli. Questa fortissima componente sensoriale fa riflettere sulla lingua come rappresentazione di un punto di passaggio fra l’aspetto sensoriale, sensibile, tattile da una parte e l’aspetto concettuale, linguistico, astratto dall’altra: nel mezzo, in questo punto di passaggio e di contatto, c’è il campo dell’eros.

DR: Che risultati si stanno raggiungendo? Ho visto che avete svolto un laboratorio a Bologna con un gruppo di 20 studenti.

CP: Il laboratorio di Bologna è andato molto bene, i venti partecipanti – tutti studenti dell’Accademia di Belle Arti e giovani artisti – hanno interpretato in modo sorprendente e con una grande ricchezza di spunti la doppia (o tripla) valenza della lingua, facendo emergere una sovrapposizione di possibilità del discorso. Ognuno di loro ha sviluppato progetti declinando l’argomento secondo diversi aspetti: da quello sonoro a quello tattile, da quello psicologico-erotico a quello visivo, a quello gestuale e performativo.

Hanno anche redatto un manifesto collettivo che racconta, anche se in modo un po’ ellittico, le varie performance o i vari lavori che sono stati poi presentati alla fine del laboratorio. Secondo me sono stati molto bravi.

DR: Il laboratorio come si è svolto?

CP: Abbiamo avuto sei incontri – ciascuno della durata di un’intera giornata – nel corso di tre settimane, a febbraio. Il laboratorio è stato ospitato da Xing, un’organizzazione culturale che gestisce i bellissimi spazi di Raum. In pratica sono gli ex del Link degli anni Novanta, Daniele Gasparinetti e Silvia Fanti.

Durante il primo incontro ci siamo auto-presentati, i ragazzi hanno fatto vedere qualcosa del loro lavoro e io ho introdotto il tema, cercando insieme a loro di ampliarlo il più possibile, andando a vedere quali potevano essere tutti i campi e le tematiche che si potevano toccare in riferimento a questo argomento. Allo stesso tempo li ho invitati a pensare a che cosa avrebbero potuto fare, che tipo di intervento, lavoro, pensiero, azione, oggetto, per la presentazione finale. La seconda settimana l’abbiamo dedicata soprattutto a discutere, sviluppare, perfezionare le diverse proposte e la terza settimana – quinto e sesto incontro – sostanzialmente ad allestire. Alla fine, per la serata conclusiva, aperta al pubblico, c’erano video, degli audio, performance solitarie o con la partecipazione dei visitatori, disegni ecc.

DR: Ti è già capitato di sperimentare questo linguaggio integrato col basic english in contesti internazionali?

CP: Dei piccoli tentativi in realtà li facevo anche prima di riflettere più specificamente su questo argomento. Certo, c’è un problema di tempo, perché ovviamente inserire in un discorso, all’interno di un contesto internazionale, una parola in italiano, ti costringe poi a spiegare, quindi ad articolare almeno un paio di frasi in più su quello che vuoi dire. Però mi è piaciuto molto quello che è successo in un laboratorio che abbiamo fatto quest’estate a Biella (Girotondo – Università delle Idee, Cittadellarte,  Biella 23-27 maggio 2016). Eravamo un piccolo gruppo di lavoro con un’artista indiana, una olandese, un giapponese, due americani, io italiano. Il tema in quel caso era il cerchio, la circolarità, non c’entrava direttamente col discorso sulla lingua, però abbiamo spesso ragionato – anche divertendoci –  sui diversi modi, nelle diverse lingue, di esprimere uno stesso concetto. Per esempio uno degli esercizi che abbiamo fatto è stato quello di leggere un capitolo del libro di Derrida Donare il tempo[1]. Il testo parla dell’impossibilità del concetto stesso di dono perché in realtà il dono crea sempre un obbligo di contraccambio e una sensazione di debito. L’esercizio che ho fatto con i ragazzi consisteva nella lettura (in inglese) di un capitolo di quel libro, e io avevo sia l’originale in francese che la traduzione italiana. L’esercizio che avevo proposto era quello di lavorare soprattutto sulle associazioni libere anziché di cercare di capire i concetti espressi dai testi. È stato molto  interessante comunque sottoporre la traduzione ad una forma di analisi e approfondimento. Per esempio in francese il concetto di “far pensare qualcosa” si può dire donner à penser e questo immette nella locuzione una connotazione di dono, di regalo; in italiano tendenzialmente si dice far pensare (“dare a pensare” si usa ma significa una cosa leggermente diversa), e in inglese si dice to lead to think, “guidare a pensare”. È chiaro che il concetto è lo stesso, ma sono tre sfumature di significato diverse: in un caso c’è il dono, in un altro c’è l’azione neutra, e nel terzo caso c’è addirittura una specie di guida, una connotazione educativa o di imposizione – un “leader” che ti porta a pensare certe cose. Per capire la differenza tra queste sfumature si deve fare un trasferimento da una lingua all’altra, da una modalità di pensiero all’altra. Secondo me è interessante riflettere sul passaggio in sé, non necessariamente sulle tre sfumature di significato, ma sull’idea che si possa cambiare un pensiero rispetto alla formulazione di un concetto nella lingua-madre o in una lingua che si conosce o in un’altra che non si conosce. Una ragazza che partecipava al laboratorio ha detto “È come attraversare un portale”, passando cioè da uno status concettuale a un altro. È stato un esercizio molto stimolante che, credo, potrebbe essere una via che apre al plurilinguismo invece che al monolinguismo del basic english. Certo la lingua franca è un ottimo strumento per capirsi, ma di fatto elimina moltissimi significati, e tende a diminuire la complessità del pensiero.

Un altro esempio che è venuto fuori è il modo di esprimere il concetto di “orgasmo” nelle diverse lingue. In inglese si dice “to come”, che è simile all’italiano “venire”, in giapponese invece si dice “andare” e in olandese si dice “essere pronto”. In effetti può avere una sua logica: collegare l’orgasmo all’idea di essere pronti è come insistere sul processo, mentre il “venire” indica una sorta di incontro con l’altro; “andare” è una sottolineatura della attività dell’evento, laddove “venire” è più passivo. Insomma ci sono molte sfumature e anche qui la cosa bella è soffermarsi sul fatto che abbiamo la possibilità di questo passaggio, di attraversamento di questi portali-di-significato, spostandoci da una lingua all’altra, da un concetto all’altro. Mentre si è nel passaggio, in questo stadio intermedio non si è né italofoni né anglofoni né francofoni, si diventa una specie di pensiero puro, come direbbe Deleuze, un pensiero in divenire o un divenire del pensiero, a prescindere dal contenuto. Il contenuto è strumentale; la cosa più importante è rendersi conto che si può cambiare modalità di pensare.

DR: I partecipanti a una conversazione in un contesto internazionale, avendo lingue-madri diverse e non conoscendo quelle degli altri, trovano delle difficoltà in questi passaggi o in questi incontri di significato?

CP: In questi casi ognuno è in difficoltà, anzi paradossalmente quelli che sono maggiormente in difficoltà sono gli anglofoni, perché sono troppo abituati a comunicare solo nella loro lingua, quindi sono un po’ più rigidi. Però, potremmo dire, si tratta di un gioco, ed è chiaro che, per superare la difficoltà del passaggio da una lingua all’altra, si usa strumentalmente l’inglese. Quindi si fa un uso misto delle lingue-madri e dell’inglese per comunicare. Tornando all’esempio precedente, conoscere i diversi modi di esprimere il concetto di orgasmo nelle diverse lingue è molto interessante, si scopre la possibilità di considerare in modi ulteriori un concetto che solitamente si fissa a un determinato lessico, e lo si associa anche da un punto di vista fisiologico, nell’ambito del sensibile. Se cominciassimo ad associare il concetto di orgasmo non al nostro “venire”, ma ad “andare” o ad “essere pronto” – e chissà quante altre sfumature esistono in altre lingue del mondo – potremmo addirittura cambiare il nostro modo di vivere la sessualità.

DR: Quali argomenti sono emersi durante il tavolo sulla lingua italiana al Forum dell’arte contemporanea a Prato?

CP: Avevo invitato prevalentemente artisti, quindi, a parte Ilaria Bussoni che è stata la prima a parlare e ha fatto un intervento teorico come sempre molto lucido, gli altri hanno fatto interventi prevalentemente performativi. C’è stata anche una messa in discussione del concetto stesso di lingua-madre come unica lingua degli affetti: se pensi alle migrazioni in giro per il mondo, ti accorgi che ci sono diversi connotati legati alla lingua del paese in cui si sta cercando di entrare e integrarsi, che sono fortemente legati a condizioni di tipo affettivo. Il concetto di lingua-madre tende un pò a traballare di fronte a questi grandi flussi migratori e mescolamenti di lingue. Anche Deleuze e Guattari hanno trattato l’argomento nel 1975 in Kafka. Per una letteratura minore[2] parlando degli scrittori che, per scrivere, sceglievano una lingua diversa dalla propria lingua-madre. Parte della discussione, a Prato, si è concentrata sull’interesse che può derivare dall’uso anche improprio, contaminato, incerto, “balbettante” della lingua.

DR: È venuto fuori un discorso sui dialetti?

CP: una cosa che è stata detta, e che diceva già Pasolini, è che l’italiano come lo conosciamo noi è una lingua di cultura, letteraria, ma è anche la lingua dell’unificazione territoriale, politica-militare, imposta dall’unificazione dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, e che ha intaccato le fondamenta del parlare dialettale, delle letterature locali. Il colpo finale poi l’ha dato la televisione. Lo stesso concetto di lingua madre andrebbe messo in discussione rispetto a questi fatti. Ma queste sono tematiche enormi, io quando faccio questi laboratori infatti posso accennare al discorso, ma non per esaurirlo o per dire qualcosa di nuovo da un punto di vista teorico o filologico, piuttosto per cercare di capirne le possibilità di utilizzo a scopi artistici. È chiaro che le riflessioni teoriche si fanno, ma io non ho né la testa né la voglia di affrontare gli argomenti in maniera sistematica, io sono un asistematico di natura, e nei laboratori lo dico sempre: il nostro problema non è trovare la verità, ma cercare di estrarre da tutti gli aspetti che mettiamo sul tavolo – indipendentemente dal fatto che siano giusti o sbagliati, politicamente corretti o scorretti, di destra o di sinistra – le possibilità di far venire fuori delle idee, degli spunti per dei progetti artistici.

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Fotografia in home page di ©Fabio Tibollo

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1 Jacques Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina, Milano 1996.
Gilles Deleuze, Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Feltrinelli, Milano 1975.

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Davide Ricco (Maglie 1979). Curatore indipendente. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università del Salento, ha conseguito un master di II livello per Curatore d’arte contemporanea presso l’Università di Roma La Sapienza. Ha collaborato al progetto di Cesare Pietroiusti Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio, al MAAM di Roma con Giorgio de Finis e alla Festa dei vivi (che riflettono sulla morte) con il gruppo Lu Cafausu. Attualmente vive e lavora a Palermo come bartender & resident curator presso il Caffè Internazionale.