Italianità
La Romanità dell’Italia coloniale e fascista
La partecipazione Italiana alla Exposition Coloniale de Paris del 1931
di Viviana Gravano

Se la memoria appare a prima vista un fenomeno
che riguarda soprattutto la temporalità, a uno sguardo
più attento rivela un rapporto costitutivo e non casuale
con la spazialità: non solo gli spazi recano iscritta una
memoria del passato, ma la memoria stessa si dà in forme
essenzialmente topologiche e spaziali.
P.Violi1

 

In più occasioni Benito Mussolini ha dichiarato il suo amore per l’architettura ed ha espresso l’idea che questa possa potesse essere considerata la vera grande arte.2 Il duce ha sempre visto l’architettura come uno degli strumenti principe della rieducazione degli italiani, utile a formare quell’italiano “nuovo” che il fascismo sognava di far nascere. Dunque leggere le opere architettoniche del ventennio fascista in Italia vuol dire non solo identificare i capisaldi dell’estetica prodotta dal regime, ma trarne anche le linee direttive ideologiche più importanti. Se questo vale per l’architettura delle grandi opere realizzate un pò ovunque in Italia e nelle colonie, e in modo particolare a Roma, non bisogna dimenticare l’enorme importanza che ha avuto la stagione delle esposizioni pubbliche che il regime produsse in grande quantità in patria, o a cui aderì in altri paesi. Queste costruzioni effimere furono delle vere e proprie pagine tridimensionali di propaganda e di affermazioni di principio, che non si limitarono solo ad esaltare la potenza del fascismo, ma servirono anche a enunciare i principi essenziali della visione personale del duce riguardo al mondo e al futuro del suo paese.
Un dato che emerge in maniera molto evidente è il forte interesse di Benito Mussolini sia per l’architettura moderna che per il classicismo romano. Questi due elementi, apparentemente contraddittori, generarono invece una sorta di “stile fascista” italiano a cui lo stesso Mussolini mirava, che a una rilettura attuale, esprime perfettamente la sua volontà delirante di dominio personale e come capo di stato italiano, con una sorprendente linea di continuità a tratti con l’Italia liberale dei decenni precedenti.
Dato essenziale di questa visione è l’ispirazione estetica, filosofica e politica al mondo imperiale romano, in particolare identificato nella figura dell’Imperatore Augusto, e della Roma augustea. Ma tale ispirazione alla Roma antica, come vedremo tra poco, non produsse un “neoclassicismo” fascista italiano, bensì una nuova visione che riuscì a mettere in opera una nuova monumentalità moderna, ammirata persino da architetti provenienti da paesi ben lontani dalla visione del fascismo italiano, ma che servì al duce a esprimere la sua infallibile potenza, e l’intramontabile continuità futura del suo potere dittatoriale, in quanto non frutto di una scelta del presente, ma erede addirittura della millenaria tradizione occidentale, nata dalla cultura greca e poi espressa in pieno dalla romanità, dal cristianesimo e poi dal Rinascimento italiano.
Al momento dell’arrivo al potere di Mussolini con la marcia su Roma del 1922 l’Italia era un paese solo formalmente unito e ancora con una scarsa coscienza nazionale. Il duce cercò nella continuità storica tra governo fascista e impero romano, passando per la tradizione cristiana, l’arma migliore per inventare un cittadino italiano fin lì agognato dai liberali, ma non ancora davvero nato. Nel fondamentale saggio di Visser, Fascist Doctrine and the Cult of the “Romanità”3 si spiega come la scelta di esaltare l’ascendenza romana della dittatura mussoliniana fosse non solo mirata a consolidare la figura del dittatore stesso, ma a costruire un precedente storico millenario per rendere a sua volta eterno il fascismo:

We are compelled to believe that fascist propaganda only emphasized the ‘Roman’ roots of the ducismo and the ‘Roman’ character of Italian imperialism to build an image of classical heroism and to offer the ordinary man in the street a ‘universal’ and historical context in order to grasp the greatness of Mussolini’s achievements. The cult of the romanità was very useful to support the class that fascism was making history. Comparing Mussolini’s ‘March on Rome’ with Sulla’s and Caesar’s coup d’état, fascist propaganda implied the fascist Italy crossed its Rubicon on the way to world power.4
Senza dubbio l’inizio della stagione coloniale fascista segnò un ulteriore consolidamento del mito di un impero romano che rinasceva in epoca mussoliniana. Le aggressioni militari e le occupazioni coloniali trovavano la loro perfetta giustificazione nella visione generale europea della colonizzazione come un’opera di civilizzazione intrapresa dai paesi dell’Europa verso i paesi e i continenti incivili e selvaggi, ma trovò una ancor più convincente motivazione, specie per le masse italiane in quel tempo già abituate al consenso verso la dittatura, nella prosecuzione di una tradizione storica imperiale, iniziata appunto con la romanità e proseguita con le lotte dei cristiani contro gli infedeli.
Nel 1931 la Francia, con un impero coloniale estesissimo, organizza una nuova Exposition Coloniale a Parigi, dopo diversi anni di attesa e una accesa contesa sul primato rispetto alle manifestazioni coloniali con la rivale Marsiglia5. All’esposizione non aderisce la Gran Bretagna, vera grande assenza, insieme a diversi altri paesi coloniali europei, ma l’Italia, con la quale già le relazioni politiche iniziavano ad essere molto complesse, aderisce e viene considerata vera e propria ospite d’onore. L’Expo Coloniale di quest’anno presenta le stesse caratteristiche di tutte le Esposizioni Universali e di quelle coloniali sin dalla loro nascita: dominate da uno spirito universalista e esotista nei contenuti. Sedi di vere e proprie ricostruzioni scenografiche dei paesi conquistati come colonie, così come dei cosiddetti villaggi indigeni o zoo umani.6 Proprio per questo motivo appare particolarmente interessante analizzare come si presentano i padiglioni italiani in questa mostra francese, che propongono una visione apparentemente molto diversa.
Occorre subito dire che esiste una Guide Officiel de la section italienne à l’Exposition coloniale Paris 19317 che riporta nel dettaglio le architetture italiane edificate per l’occasione, una descrizione sia testuale che fotografica, e un breve resoconto iniziale dei discorsi fatti per la sua inaugurazione. L’Italia di Mussolini decide di farsi rappresentare da tre distinti edifici: la ricostruzione dell’antica Basilica di Settimio Severo della Leptis Magna a Tripoli; le ricostruzioni dell’Albergo degli italiani e l’Albergo dei francesi a Rodi; un edificio Futurista che funge da ristorante. La Basilica viene realizzata dall’architetto Armando Brasini, come vedremo molto vicino al duce e alla sua visione “romanista” dell’architettura; gli edifici di Rodi sono realizzati da Pietro Lombardi e il ristorante futurista da Guido Fiorini con la collaborazione del pittore e scultore Enrico Prampolini.
La mostra coloniale di Parigi è presieduta da un Commissaire Générale, il Maréchal Lyautey, impegnato prima in Indocina e poi in Marocco, veterano delle invasioni coloniali francesi che morirà nel 1934 e sarà inumato a Rabat. La sua figura fa sì che l’intera mostra prenda un taglio molto chiaro e per certi versi innovativo, che corrisponde alla politica francese riguardo alle “terre d’oltremare” dopo la prima guerra mondiale: i cittadini e i territori dell’Impero non sono più terre di conquista violenta, ma sono avamposti della Francia nel mondo, e come tale devono essere “aiutati” nel loro processo di sviluppo verso una sempre maggiore “civilizzazione”, in maniera da poter essere anche produttive per la madre patria francese. Secondo quest’ottica la mostra tende a dare valore e a esaltare le bellezze e persino le caratteristiche culturali autoctone, in una sorta di universalismo francese che innalza le colonie a “territoires” elevandoli a province vere e proprie della Francia stessa. In questa visione come si può inserire la partecipazione di un’Italia coloniale che non ha un vero e proprio impero, che ha una visione fortemente razzista dei territori occupati e che non ha avuto la capacità di immaginare quelle “province” come avamposti italiani, ma piuttosto come luoghi simbolici di conferma del dominio del fascismo anche fuori dai suoi confini nazionali?
Il Comitato organizzatore della partecipazione italiana alla mostra è composto da: un Presidente d’Onore che è il Ministro delle Colonie Emilio del Bono, un Vicepresidente che è il Sottosegretario al Ministero delle Colonie Alessandro Lessona e da un Presidente che è il Principe Lanza di Scalea, a sua volta ex ministro delle Colonie. Dunque la direzione dei padiglioni italiani è affidata alle massime cariche dello stato in ambito coloniale testimoniando l’importanza che viene data alla manifestazione francese. Apparire in una mostra così prestigiosa in ambito coloniale accanto alla Francia, e per altro in assenza della Gran Bretagna e quindi con la possibilità di essere considerata, come sarà, come una delle partecipazioni ufficiali più di prestigio, viene considerata da Mussolini in persona come la grande chance di mostrare a livello internazionale non tanto la potenza o l’ampiezza del dominio imperiale italiano, che di fatto era molto scarso rispetto alle altre potenze europee, ma piuttosto la concezione generale sottesa all’idea di Italia fascista: l’eredità romana nei millenni. Non a caso del discorso di apertura del Principe Scalea si legge:

Notre exposition, qui ne peut pas présenter des grandes richesses, puisque l’Italie ne possède pas un Empire, mai seulement des territoires coloniaux, témoigne malgré tout de l’effort que notre pays accomplit en vue de démontrer ses qualités de peuple colonisateur. Aujourd’hui, en effet, les questions coloniales se présentent, non plus sous l’aspect de conquête seule mais dans le cadre plus vaste de la civilisation humaine et de l’économie mondiale.8

Dunque viene subito chiarito che l’Italia sa di non possedere un “Impero”, ma solo alcuni territori coloniali, ma l’aspetto più interessante del discorso è la precisazione che ormai la potenza coloniale non si misura più con la forza di conquista, ma piuttosto come capacità di “civilizzare” e mettere a regime economico le conquiste fatte. In quest’ottica la visione di un’Italia erede della grande civilizzazione della Roma antica, e poi della cristianità, diviene un fattore di vanto che pone l’Italia oltre la sua difficoltà dell’essere una piccola potenza coloniale nello scacchiere mondiale.
Poco oltre nello stesso testo di presentazione della Guide Officiel della sezione italiana si dice che il Principe di Scalea ha poi dedicato spazio al racconto della storia delle esplorazioni e delle colonizzazioni italiane nel tempo, di nuovo provando a dare un approccio storiografico al discorso, per poi concludere che Italia e Francia devono camminare a braccetto in quest’opera di civilizzazione, tra ombre e luci nei loro rapporti, per vedere un avvenire «toujours illuminé par le soleil radieux déjà invoqué par Horace sur la Ville Eternelle».9 Di nuovo appare il riferimento a ciò che unisce alla fine tutti i paesi mediterranei colonizzatori: la comune discendenza romana dalla luminosa città eterna che è Roma.
Ma in realtà le relazioni tra Francia e Italia iniziano a incrinarsi decisamente e lo stesso generale Lyautey fa cenno alla necessità che tutte le nazioni “civilizzatrici” restino unite allo scopo di pacificare le terre colonizzate, per poi aggiungere che estendere e consolidare l’opera di civilizzazione è compito dell’Occidente, e la Francia sa bene che debito enorme questo ha verso Roma. «En Rome, nous saluons non seulement la noble terre italienne, mais la génie universel par qui, après Athènes, la Grèce, l’Humanité à progressé».10
Tutto ciò giustifica in maniera perfetta la scelta di Mussolini di portare alla mostra di Parigi non padiglioni “esotici” o ricostruzioni di ambienti coloniali, ma una visione quasi “archeologica” che filologicamente mostra ai visitatori la potenza e la maestosità dell’architettura romana e cristiana, che stabilisce una linea di continuità tra le conquiste imperiali antiche e lo spirito conquistatore fascista attuale.
Roma non è solo un simbolo di forza, ma viene addirittura citata dal generale Lyautey come esempio di tolleranza e come edificatrice di un modello sincretico ante litteram nel rapporto con le terre conquistate. Si fa quindi cenno alla lezione di Roma come modello di rispetto per le tradizioni, i costumi e le culture dei popoli sottomessi definiti ormai come province.
Non a caso lo stesso generale francese traccia poi la linea storica che unisce Roma e la Gallia proprio nella figura di Settimio Severo, che ha fatto edificare quella Basilica di Leptis Magna che l’Italia ricostruisce in mostra. Settimio Severo, nato proprio a Leptis Magna poco distane dall’attuale Tripoli, fu sia governatore in Gallia che proconsole nelle province africane. Divenuto Imperatore con il sostegno militare delle milizie instaurò una vera e propria dittatura, che lo portò anche a autodefinirsi dominus ac deus, cioè ad adottare una formula dedotta dall’impero orientale ellenistico che vedeva nel suo sovrano una figura divina. Appare chiaro come questa scelta di Mussolini delle Basilica di Leptis Magna si connette alla sua necessità di raccontare di una romanità e italianità conquistatrice del nord Africa in epoca antica, eterna e universale, ma serve anche a porre lo stesso duce accanto a uno dei primi dux romani con caratteristiche molto vicine alla visione del dittatore fascista.
Tutto pone in connessione Francia e Italia: Settimio Severo africano romano ma governatore della Gallia, che si connette anche alla figura del comandante Lago che ha combattuto al fianco dei francesi a Tanger, e che ora è governatore di Rodi che è, non a caso, rappresentata nell’altro padiglione istallato dall’Italia nell’Expo.
Occorre però qui aprire una breve parentesi per spiegare che il riferimento alla romanità e alla cristianità come valori eterni e assoluti di italianità ante litteram sono certo assunti come simboli essenziali del fascismo, ma hanno una storia che accompagna in realtà la stessa nascita dell’Italia come stato unitario, e poi il periodo liberale pre-fascista. Gli studi archeologici e la filologia romana sono materia essenziale per la formazione di una cultura accademica “italiana” che deve contribuire a creare un’identità di nazione moderna che l’Italia non ha, né sul campo nella vita comune dei suoi cittadini, né intellettualmente sul piano teorico. Gli unici elementi davvero unificanti e catalizzatori sono la romanità e la cristianità: ambedue intesi non solo come precedenti sortici a cui rifarsi per ripescare una sorta di unità storica del territorio italiano, ma anche come vere e proprie basi filosofiche, e ancor più morali, di una nazione molto giovane e tutt’altro che unita.

«Taking into account the widespread patriotism that was part of he historical training in primary and secondary school, it seems likely that the romanità formed an integral part of the educated Italian’s Weltanschauung, as classical Roman history was generally considered to be national Italian history. This marks the thesis that fascism used the existing cultic and patriotic approach of the romanità to attract intellectuals to its doctrinal causes a very attractive one».11

In tutto il periodo pre-coloniale italiano e all’inizio delle prime campagne italiane in Africa prima dell’arrivo di Mussolini, i governi liberali tesero a giustificare la necessità di queste occupazioni identificando l’Italia come il paese che doveva essere l’avamposto di difesa della cultura europea contro la decadenza dell’Oriente, identificato con l’Impero Ottomano e del materialismo anti-cristiano, inteso come protestantesimo e socialismo o comunismo. In altre parole l’Italia, erede della tradizione romana e cristiana, doveva combattere in primis sul Mediterraneo per riaffermare il suo dominio culturale come baluardo dell’Occidente contro la barbarie dilagante.
La descrizione della ricostruzione della Basilica della Leptis Magna nella Guide Officiel inizia sottolineando che questa scelta serve a riconnettere l’Italia attuale, fascista, ai propri antenati. L’architetto Brasini in realtà non propone una ricostruzione pedissequa del monumento originale, ma crea un oggetto in stile vagamente sincretico che unisce diversi elementi decorativi, non tutti tratti testualmente dalla basilica ma anche da altri edifici del tempo, uniti a altre forme tratte persino dall’iconografia rinascimentale. Questa scelta appare molto interessante se si ragiona sulla grande importanza data da Mussolini all’archeologia, e sui numerosi scavi aperti nelle colonie, proprio per “recuperare” l’antica tradizione romana. Dunque Brasini non crea un vero e proprio capriccio architettonico, ma costruisce una sorta di edificio “neo classico” unendo diversi elementi che vanno verso quel desiderio più e più volte espresso dal duce in persona di creare uno “stile fascista”. Occorre dire che Brasini in varie occasioni non ha ricevuto il plauso del duce che lo considera a tratti poco moderno e troppo tradizionale, ma affida proprio a lui la ricostruzione della Basilica a Parigi perché in questa fase occorre essere certo moderni, ma anche saper esaltare quella tradizione antica che ha fatto dell’Italia un faro per tutta la cultura archeologica europea. Dunque Brasini deve saper trovare una complessa mediazione tra aderenza al modello e rilettura contemporanea.
Leggiamo la precisa descrizione che fa della Basilica Maddalena Carli nel suo saggio sui Padiglioni italiani a Parigi per avere un’idea d’insieme delle “aggiunte” dell’architetto Brasini e delle sue ricostruzioni pedisseque.

«Arrivandovi dagli ultimi fabbricati dell’oltremare francese, il visitatore poteva così ammirare la facciata meno soggetta agli interventi creativi di Brasini: una parete ricoperta di pittura rossastra stesa in modo da riprodurre l’acciottolato delle costruzioni libiche, e intervallata da ventidue colonne – con l’anima di legno ricoperta di gesso e dipinta con vernice a olio a imitazione delle venature del marmo cipollino – e tre portoni, ai quali conducevano altrettante scalinate separate da balaustre in ferro su cui poggiavano delle copie di statue romane. L’entrata monumentale si apriva invece sul fianco opposto, verso l’uscita della Porte d’Italie. Interamente ideata dall’architetto fascista sulla falsariga degli archi trionfali, essa fronteggiava delle aiuole “ispirate al Rinascimento italiano” nel cui centro si ergeva una imponente fontana; varcandone la soglia, si aveva accesso a un vestibolo ornato di tre grandi portali in bronzo eseguiti, per la complessità della lavorazione, a Roma e, successivamente, al salone principale. Quest’ultimo, il cui arredo e la cui illuminazione furono curati nei minimi dettagli, simulava la pianta della basilica: trenavate disegnate da file di colonne allineate su due piani sovrapposti, e un grande abside fregiato di pilastri al termine di quella centrale; al nucleo originario erano inoltre annesse due grandi stanze decorate “in stile rinascimentale”, alcune gallerie laterali e una piscina a cielo aperto circondata da un “giardino alla romana”».12

Occorre mettere in relazione l’allestimento di Parigi con il colossale progetto di ristrutturazione di Roma che Mussolini e i suoi architetti stanno mettendo in atto nella capitale già dalla metà degli anni venti. L’idea sottesa a quella grande campagna urbanistica romana vede il duce impegnato in prima persona in maniera costante, proprio materialmente sul campo, e serve a chiarire la tipologia di relazione che il fascismo intende proporre tra modernità e eredità romana. Nella visione del dittatore c’è di costruire una serie di vie che possano creare dei percorsi visivi privilegiati per la vista dei grandi monumenti romani e cristiani nella città eterna: dunque la famosa cosiddetta “politica del piccone” serve a liberare le antiche vestigia dal “ciarpame” che le ha sommerse nei secoli, e a lasciare un’immagine di Roma che fonda in maniera perfetta l’oratoria antica romano-cristiana con la nuova visione fascista. «[…] la Roma mussoliniana appare capace di fagocitare due idee contrapposte: l’ansia futurista desiderosa di spazzare via con il piccone iconoclasta ogni vecchiume “decadente” e “parassita”, accanto a una visione antichizzante della nuova città».13 Non a caso il definitivo piano regolatore della nuova Roma viene presentato dal fedele architetto del duce Marcello Piacentini e approvato proprio nel 1931. Pochi anni dopo, nel 1934 all’assemblea quinquennale del Partito fascista Mussolini stesso dichiara: «[…] dopo la Roma dei Cesari, dopo quella dei Papi, c’è oggi una Roma, quella fascista, la quale con la simultaneità dell’antico e del moderno, si impone all’ammirazione del mondo».14
Tornando dunque alla ricostruzione della Basilica all’Expo di Parigi qui non si tenta di riportare, decontestualizzata, un’opera antica, con un fare filologico e archeologico, ma si modernizza, si rende attuale un insieme di simboli, di strutture architettoniche per costruire un ambiente adatto a rappresentare non una decadente nostalgia del passato, ma l’ardente desiderio di affermare un presente altrettanto perentorio, retorico e altisonante. L’immagine antica non deve sovrastare il disegno del presente, ma deve semmai essere riconvertita per divenire strumento della grandezza dell’oggi. Non a caso, come vedremo tra poco, la Basilica è allo stesso tempo raffigurazione di se stessa ma anche spazio espositivo, cioè luogo museale, dove mostrare le immagini e i reperti ancora dell’antica Roma e anche della nuova Africa italiana.
Andrea Giardina e André Vauchez nel loro ormai storico saggio Il mito di Roma da Carlo Magno a Mussolini,15 mettono in evidenza la totale identificazione attuata da Mussolini dopo la guerra di Etiopia con l’imperatore romano Augusto. In lui il duce ritrova la stessa volontà di imporre un ordine universale romano che permetta la creazione di un grande impero, e insieme la costruzione di una nuova Roma augustea da eternare. Anni dopo, nel 1937 Mussolini farà realizzare l’imponente “Mostra Augustea della Romanità” al Palazzo delle Esposizioni di Roma, curata da G. Q. Giglioli per celebrare il bimillenario della nascita di Augusto, nella quale vengono allestite 26 sale dedicate alla storia di Roma dalla sua fondazione. Una macchina di propaganda culturale mastodontica, che sarà visitata da oltre un milione di persone.16 Scrive lo storico fascista Massimo Pallottino alla sua inaugurazione: «Di questa attualissima rivalutazione della romanità, la Mostra Augustea è la manifestazione più grandiosa e convincente; possiamo ben affermare che né il puro ardore scientifico, né lo sforzo della propaganda avrebbero mai potuto conseguire quei risultati che dobbiamo al sentimento della continuità e della grandezza della nostra stirpe. Dalle scritte della facciata che, immensi richiami, ammoniscono i visitatori e i passanti sulla potenza indistruttibile di Roma, sulle doti della gente italica sulla universalità della politica romana, con le parole di grandi scrittori classici e cristiani;[…]».17
Pochi anni prima dell’esposizione di Parigi, Marcello Picentini nel 1925 aveva progettato l’Arco della Vittoria di Bolzano, monumentale arco di trionfo nel quale aveva trasformato il fascio littorio in un vero e proprio elemento simbolico, che creava un nuovo stile della colonna o pilastro. L’antico simbolo romano che assurgerà a simbolo del fascismo e poi dell’intera nazione italiana, non viene usato solo come decorazione, ma nelle intenzioni di Piacentini, per rispondere a una precisa indicazione del duce, diviene un vero e proprio nuovo elemento di stile, che implica anche la modifica della scanalatura della colonna e l’eliminazione del capitello.18 Dunque lo sforzo dell’architetto fascista per eccellenza tende a rileggere la tradizione classica donando a questa una sua moderna e singolare nuova declinazione.
In quest’ottica va letto tutto l’allestimento della sezione italiana dell’Esposizione Coloniale di Parigi del 1931, non solo nella struttura della basilica come già detto, ma anche nell’importante scelta di portare quel monumento romano, uno cristiano medievale e poi uno super moderno, addirittura Futurista. Questa triplice declinazione dell’italianità nel momento della massima esaltazione imperiale dell’Italia fascista, e in casa di una delle potenze coloniali per eccellenza, è tutt’altro che casuale: indica la precisa volontà di raccontare una identità nazionale italiana che il fascismo sta plasmando, che guarda ai due capisaldi “universali” dell’italianità, il passato romano e cristiano, rivisitati però in chiave moderna.
Le linee costruttive del Padiglione Futurista, progettato da Guido Fiorini, arricchito all’interno con plastiche murali di Enrico Prampolini, rappresenta senza dubbio la parte moderna e audace della partecipazione italiana. Seppure sia l’edificio che la decorazione murale siano decisamente lontani dall’estetica sia della Basilica che della sezione dedicata a Rodi, il padiglione ristorante è funzionale al discorso generale che l’Italia porta a Parigi: saper mostrare come il paese di Mussolini possa mettere accanto elementi assolutamente classici ed elementi della più assoluta avanguardia, tracciando un fil rouge e una certa coerenza costruttiva. Il corpo dell’edificio del ristorante futurista è realizzato con forme sintetiche, sulla facciata l’ingresso è incorniciato da due pilastri monumentali ed è sormontato da una sorta di torre/campanile. Nelle pitture murali dell’interno e nelle decorazioni esterne Prampolini riprende, alla maniera dinamica e sintetica tipica del movimento futurista, delle figure che si richiamano agli elementi basici architettonici, mescolate a forme astratte e irregolari. In mezzo a queste forme sintetiche sono inframezzati diversi cenni all’esotismo del tempo rappresentato da giraffe, una tigre ed elefanti, e figure umane africane rappresentate con la tipica immagine stereotipica del black face. Il ciclo di opere significativamente e coerentemente con il programma proposto dalla mostra di Parigi si intitola: Le continente noir à la conquête de la civilisation meccanique. I singoli pannelli riportano ciascuno a loro volta un titolo: l’écran dans le desert, tatouage du soleil, phono-danse, le fétiche mécanisé, radio fauves, la magie de la perle noire. Appare interessante anche nei testi la contaminazione tra il linguaggio ufficiale esotista e stereotipico dei paesi colonizzatori, con parole come selvaggio, feticcio, magia e perla nera, mescolato però alle parole tipiche del modernismo futurista. Filippo Tommaso Marinetti scrive la prefazione a un piccolo libro dedicato alle pitture di Prampolini per l’Expo di Parigi19 nel quale esalta l’eccezionale bravura del pittore e scultore suo amico e lo definisce: «[…] un génie plastique contenant la richesse fertile et la vélocité-automobile de ses campagnes émiliennes unies à la vigueur colorée de la Méditerranée».20
Occorre entrare all’interno della ricostruzione delle Basilica per cogliere fino in fondo il senso profondo della partecipazione italiana. Le sale ospitano una grande mostra che comprende: sculture, statue, reperti archeologici scavati e trafugati nelle colonie sia in epoca fascista che liberale, prodotti delle colonie del tempo dell’Esposizione Coloniale, e una interessante e significativa sezione dedicata agli studi sulla “razza” svolti in Italia.
Al centro della sala principale si erge la famosa Venere di Cirene, copia romana di età adrianea di una statua ellenistica del IV secolo forse di Prassitele. La Venere Anadiomena acefala era stata rinvenuta a Cirene, durante la guerra italo turca nel 1913, e trafugata per essere esposta alla sala Ottagona del Planetario di Roma. La Libia ne aveva fatto richiesta di restituzione nel 1989 al Ministro De Mihcelis ma per una ottusa opposizione di Italia Nostra l’opera è tornata in patria solo nel 2008. La statua sintetizza in maniera esemplare quanto sin qui detto: una statua romana, copia di un originale greco, in una città come Cirene che ha visto ambedue le dominazioni che hanno lasciato loro monumenti e opere artistiche; la “riscoperta” da parte dell’Italia coloniale nel 1913 che nella sua opera di civilizzazione la sottrae agli incivili e selvaggi libici che non la comprendono, e quindi non la sanno valorizzare e conservare; il suo trasferimento in Italia, nella grande Roma, dove riceverà il rilievo che merita; ad opera del fascismo il suo “viaggio” a Parigi, sede come Londra di interi musei nazionali nati dai trafugamenti operati in epoca coloniale in aree limitrofe specie in Nord Africa. Un cerchio che si chiude alla perfezione: Roma ha fatto grande quei territori e a Roma tornano le opere per raccontare la sua grandezza passata e la sua nuova magnificenza come civiltà fascista del presente. La descrizione che la Guide Officiel de la Section Italienne dell’Expo di Parigi fa è molto scientifica, appare volutamente come una guida museale, con un linguaggio e un’abbondanza di dettagli narrativi che donano importanza accademica alla mostra e ai pezzi che contiene. Mussolini non porta a Parigi le colonie italiane ma la cultura coloniale italiana: sa di non poter ostentare una grande potenza economica e militare tanto da poter essere annoverato tra i costruttori di un impero del XX secolo, dunque mostra la forza culturale dell’impero romano del quale è “degno” erede e prosecutore.
«L’archeologia è destinata a giocare un ruolo fondamentale, di primissimo piano, nell’ambito dell’ideologia del diritto storico di Roma sulla terra libica. Da qui l’attenzione particolare sempre riservata all’archeologia da parte del potere politico che si estrinseca in tutte le sue conseguenze già prima del fascismo. Si vedrà come al tempo della conquista il tema del ritorno alla romanità fosse sentito e propagandato fortemente, dalle fazioni politiche, così come in poesia, come somma motivazione alla guerra di conquista».21
Le sale ospitano altre numerose statue romane e bassorilievi22, nell’allestimento le didascalie che indicano il titolo apposto sul basamento stesso delle opere prendono la forma delle antiche insegne romane – un rettangolo con ai lati due triangoli attaccati alla tabella centrale per la punta – che si possono vedere nelle famose processioni effimere realizzate dai romani dopo le vittorie in battaglia. Un dettaglio che però ribadisce la continua oscillazione tra modernizzazione e citazione filologica del passato romano, e che sposta un “oggetto” dell’iconografia della conquista romana conosciuto in tutto il mondo, dalla celebrazione militari ai “reperti” conquistati e trafugati e resi stabilmente oggetti museali in patria.
Entrando nella Basilica dalla porta posteriore ci si imbatte nella Sezione Militare della Mostra dove sono esposte le ricostruzioni dei diversi corpi militari coloniali d’invasione italiani, accanto ai famosi Ascari, e sui muri mescolate ad armi da combattimento vi sono immagini sia dei paesaggi che delle popolazioni delle colonie: una sorta di piccola mostra antropologica. Sopra la testa dei visitatori diversi modelli di aerei usati per le guerre coloniali e nella parete di fronte sistemi di trasporto via terra, via mare e via rotaia nelle colonie. Alla mostra “archeologica” si affianca una ricostruzione del potere militare e della capacità di “civilizzare” attribuita all’Italia da Giolitti a Mussolini.
Un po’ ovunque, in diverse teche, appaiono gli oggetti dell’artigianato locale che nella Guide Officiel sono indicati solo in maniera molto generica, senza nessuna enfasi, e men che meno con il tono con cui si sono descritte le opere d’arte del periodo romano. La descrizione appare come un grande bazar dove materie prime e oggetti elaborati si mescolano, senza mai citarne né il periodo storico né la modalità di realizzazione né la fattura. La produzione locale deve essere tolta dall’aura dell’arte, resa astorica negandone una possibile origine antica, portata nel contesto dell’artigianato locale, e cosa essenziale, non deve far emergere un’idea di “cultura” locale che potrebbe mettere in dubbio la necessità dell’intervento di civilizzazione della nuova Roma fascista, e dell’Italia dalla cultura millenaria. In mezzo a tutta questa confusa profusione di “oggetti” appaiono le immagini panoramiche dei nuovi insediamenti italiani nelle colonie, maquette di progetti in corso, per sottolineare ancora la differenza evidente tra una produzione locale “primitiva” seppur ricca e a tratti bella, e la progettazione scientifica e “civile” dell’architettura del fascismo che nelle colonie porta l’Italia. Non a caso la mostra si completa con la visione di tutte le opere di bonifica agricola di varie aree della regione compiute ancora dal fascismo.
«La mitologizzazione ad uso strumentale della storia romana venne portata a permeare il vivere quotidiano, esaltata nelle mostre, divulgata nelle scuole, nelle associazioni giovanili, in quelle dopolavoristiche e tra i coloni mandati a “redimere” con la loro opera la terra libica. L’acme di questo processo sarebbe stato raggiunto con la rivendicazione della capacità innata dell’agricoltore-colono italiano di bonificare, di dissodare e lavorare la terra, in quanto diretto discendente dall’antico colono romano che tante tracce si voleva avesse lasciato in terra libica, tracce che in realtà erano il risultato di una cultura eminentemente mista, sorta dalla fusione di elementi libici, punici, greci e romani, visto che mai vi era stata una vera e propria colonizzazione agraria romana».23
Vorrei concludere citando alcuni stralci del testo intitolato Les découvertes archéologiques das le colonies italiennes nella Guide Officiel, che spiega in maniera molto esauriente l’uso strumentale dell’archeologia in Italia, prima e dopo il fascismo, per giustificare le occupazioni coloniali, con l’appoggio indiscriminato di pressoché tutto il mondo accademico e della ricerca italiano, complice di una politica razzista e depredatoria a opera del proprio paese a danno di altri. Ancora oggi la storiografia italiana stenta a far emergere questo incredibile unanimismo del tempo, anche perché la maggior parte di coloro che allora furono in prima linea come fiancheggiatori intellettuali e sul campo di questa nefasta visione, pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale furono spesso reintegrati in incarichi pubblici in Italia, e cosa peculiare dell’Italia e ancora più sconcertante, spesso proprio come dirigenti di quella istituzioni museali e archivi che conservano in Italia il risultato delle depredazioni coloniali.24
«Les sculptures qui font d’ornement du pavillon italien à l’Exposition Coloniale de Paris, constituent un choix d’œuvres antiques mises au jour en Tripolitaine en en Cyrénaïque, grâce au labeur des archéologues italiens qui, de 1913 à nos jours, ont prodigués dans les recherches en ces terres lointaines, tout leur travail et toute leur science. Ces sculptures son exposés dans le pavillon, non pas à titre d’élément décoratif, mais en témoignage d’une forme d’activité des plus nobles que l’Italie a déployée dans ses colonies de l’Afrique du Nord. Dans ces pays, où, il y a des siècles, s’exerça la science colonisatrice de nos ancêtres romains, la recherche des restes du passé, non seulement pour des raisons artistiques, mais pour en tirer des règles d’expérience qui puissent conduire au succès la nouvelle poussées des colonies, est certainement une œuvre louable: Découvertes épigraphiques, qui apportent des éclaircissements à l’histoire antique et transforment nos connaissances, découvertes artistiques d’une ligne merveilleuse qui frappent nos yeux et nous conduisent au culte dub eau».25
Il testo è tratto dal libro di Rodolfo Micacchi (nella guida erroneamente indicato con l’iniziale del nome A.) Scultpures antiques en Libye26 Capo dell’Ispettorato Scuole e Archeologia del Ministero della Colonie, a testimonianza della totale adesione della maggioranza degli studiosi alla visione di esaltazione del passato romano, da riscoprire tramite l’archeologia ma anche tramite tutta la letteratura a essa connessa che si produrrà copiosa in questi anni, associata alla denigrazione di qualsiasi cultura locale nei paesi colonizzati.
Vorrei chiudere con una breve citazione tratta dalla Guida dell’Africa Italiana redatta e commercializzata dalla Consociazione Turistica Italiana (antenata dell’attuale Touring Club) nel 1938: «Questo volume, che esce a breve distanza dalla Vittoria e dall’occupazione italiana, in un periodo di rapidissima trasformazione dell’Impero da poco aperto, dopo il millenario isolamento, al soffio della civiltà, ha naturalm. scopi e caratteri particolari».27 E la guida continua descrivendo ai futuri turisti i paesi colonie italiane dove potranno andare in visita: «Essa comprende zone indubbiam. tra le più belle e più varie non solo dell’Africa, ma del mondo, e dove il clima vi rende gradevole il soggiorno dell’europeo come in poche altre regioni del continente nero. Il fascino di questo selvaggio paese dai violenti contrasti, ove s’incontrano e si sovrapposero innumerevoli genti e linguaggi, civiltà e religioni diversissime in una vicenda confusam. intuibile, terra densa di storia e di leggenda e d’imprevisto, ove la vita umana si svolgeva pur ieri come ai tempi biblici, è stato profondam. sentito dai nostri grandi esploratori africani e lo subiscono ora i nostri pionieri, che trovano spesso nelle forme del paesaggio un qualche richiamo alla patria».28

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Foto in homepage: Ricostruzione della Basilica Leptis Magna, dalla Guide officiel de la section italienne à l’Exposition coloniale Paris 1931.

 

 

1 P. Violi, Paesaggi della memoria. Il trauma, lo spazio, la storia, Bompiani, Milano 2014.
2 E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1932.
3 R. Visser, Fascist Doctrine and the Cult of the “Romanità”, in «Journal of Contemporary History», n. 27, 1992, pp. 5-12
4 Ivi, p. 5-6.
5 Per una dettagliata descrizione delle vicende politiche francesi legate alla realizzazione dell’esposizione rimando al saggio M. Carli, Ri/produrre l’Africa romana: i padiglioni italiani all’Exposition coloniale internazionale, Parigi 1931, in “Memoria e Ricerca”, Franco Angeli, 2004, fasc.17, p.212-214.
6 Cfr. R. Carbey, Vetrine etnografiche: il racconto e lo sguardo, in Zoo Umani. Dalla Venere ottentotta ai reality show, Ombre Corte, Verona 2003.
7 Guide officiel de la section italienne à l’Exposition coloniale Paris 1931, Publicité De Rosa, Parigi 1931.
8 Ivi, p.5-6.
9 Ivi., p.6
10 Ibid.
11 R. Visser, cit. p.7.
12 M. Carli, Ri/produrre l’Africa romana: i padiglioni italiani all’Exposition coloniale internazionale, Parigi 1931, in “Memoria e Ricerca”, Franco Angeli, 2004, fasc.17, p.225.
13 P. Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Einaudi, Torino, 2008, p.35.
14 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, La Fenice, Firenze, 1951-1981, vol.XXVI, p.187.
15 A. Giardina e A.Vauchez, Il mito di Roma da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma, 2000, p.248-258.
16 In occasione delle celebrazioni e della mostra fu creata una copiosa raccolta di saggi su Augusto che ne dovevano esaltare solo gli aspetti positivi e inneggiare alla sa figura senza nessuno spirito storico e critico, proprio in nome della assimilazione tra l’imperatore romano e Mussolini. Cfr. V. Arangio-Ruiz, G.Cardinali; P. De Francisci, Augistus: studi in occasione del bimillenario augusteo, Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1938.
17 M. Pallottino, La Mostra Augustea della Romanità, in “Capitolium”, 1937, X, p. 519.
18 In proposito si legga quanto scrive lo stesso Piacentini che si dilunga proprio sulle scelte strutturali atte a far si che le colonne non appaiano né troppo somiglianti a quelle classiche scanalate né a quelle egizie. Cfr. M.Piacentini, Di alcune particolarità del Muonumento alla Vittoria in Bolzano, in “Architettura e Arti Decorative”, fasc.6, feb. 1929, p.255-258.
19 F. T. Marinetti, Peintures murales de Prampolini à l’Exposition internationale coloniale, Imp. A.Micouin, Parigi, 1931, s.p.
20 Ibid.
21 M. Muzi, L’epica del ritorno: archeologia e politica nella Tripolitania italiana, L’Erma Di Bretschneider, Roma, 2001, p.10.
22 Cfr. Guide Officiel, cit., p.14-23.
23 M. Muzi, cit., p.11.
24 Un esempio per tutti Giuseppe Vincenzo Tucci, esploratore e esperto di Tibet, fu nel 1933 in pieno periodo fascista e alle dirette dipendenze del duce, fu tra i fondatori dell’ISMEO – Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente. Dopo la caduta del fascismo e la fine della II Guerra Mondiale, già nel gennaio del 1946 viene riassunto in servizio attivo e nel 1947 nominato presidente dell’ISMEO, del quale diventerà Presidente onorario nel 1978. Casi come questi di Tucci sono una delle cause più gravi dell’occultamento di molte fonti documentarie del periodo coloniale italiano a tutt’oggi spesso di difficile accesso o addirittura disperse.
25 Guide Officiel, cit., p.32.
26 R. Micacchi, Scultpures antiques en Libye, Istituto Italiano Arti Grafiche, Bergamo 1931.
27 Guida dell’Africa Orientale Italiana, Consociazione Turistica Italiana, Milano, 1938, p.13.
28 Idem.