Gettare il corpo nella lotta
La teoria femminista: il sapere situato e il corpo ignorato
di Celeste Ianniciello

Contro la visione coloniale del mondo, della soggettività, e della differenza, le teorie femministe costituiscono un’alternativa rivoluzionaria perché si fondano sul riconoscimento del posizionamento soggettivo come punto di partenza analitico, con tutte le sue varianti di genere, classe, razza, geografia, producendo un sapere in cui la considerazione della singolarità incarnata, delle soggettività minoritarie, diviene istanza critica rispetto all’idea astratta e “museale”, radicata nella cultura occidentale, del sapere e della conoscenza, come prodotti di un Soggetto universale e disincarnato.

Questa contro-narrazione pone al centro non il soggetto astratto ma le soggettività incarnate, e in particolare, le soggettività minoritarie, le donne. Un riferimento teorico in tal senso è quello fornito da Adrienne Rich nel suo testo seminale, Notes Towards A Politics of Location (1985), in cui parlando contro l’oppressione delle donne, la scrittrice comincia col posizionare se stessa come donna bianca, ebrea, statunitense adottando una pratica discorsiva nuova, critica e in contrapposizione al “Sistema Solare” espistemologico astratto stabilito dall’uomo bianco. Il corpo, la materialità incarnata, singolare diventa punto di partenza imprescindibile per interrogarsi sul dove, come, quando, in quali relazioni e condizioni di potere si pronuncia il sé.

Le soggettività minoritarie, nella prospettiva femminista della politica del posizionamento, non sono da intendersi come luogo dell’autenticità. Il mito dell’autenticità proviene da un processo di oggettivazione della differenza, di distanza tra soggetto e oggetto, che è proprio del pensiero della rappresentazione (e della politica dell’identità) intesa sia in termini di discorso culturale che in termini di espressione artistica. Per quanto riguarda il discorso culturale, accanto alla teoria femminista, l’approccio critico postcoloniale costituisce anch’esso una forma di contro-narrazione della realtà e del mondo, basato su un tentativo di ridimensionare la distanza tra soggetto e oggetto del discorso.

Racconto, raccontato, essere raccontato/stai dicendo la verità? Riconoscere le complessità di ogni atto di parola non significa necessariamente abolire o comprendere le qualità di una bella storia …. Chi parla? Cosa parla? La domanda è implicita e la funzione definita, ma l’individuo non domina mai, e il soggetto scivola via senza naturalizzare la sua voce. Colei o colui che parla, parla al racconto e lo comincia a raccontare, e ri-raccontare. Ma non ne parla a proposito. Perché senza un certo lavoro di spostamento, ‘parlare a proposito di qualcosa’ riguarda ancora il mantenimento di un insieme di opposizioni binarie (soggetto/oggetto, io/esso, noi/loro) su cui si basa il sapere territorializzato. (Minh-ha 1992)

Il lavoro di spostamento, di riposizionamento critico cui fa riferimento Trinh Minh-ha, in grado di mettere in crisi l’autorità della rappresentazione emerge non solo dalla teoria, ma anche dall’estetica postcoloniale. La geografia diventa una categoria critica per il femminismo e la teoria postcoloniale, in contrasto con la logica degli stati-nazione. Il concetto di spazio può essere inteso, in quest’ottica, come negazione o, con l’espressione di Henry Lefebvre, “illusione della trasparenza”. Donna Haraway, per esempio, così descrive questo “prendere corpo” della realtà:

Scrivo per sostenere la visuale che proviene da un corpo, un corpo sempre complesso, contraddittorio e strutturato, scrivo contro la visuale dall’alto, da nessun luogo, dalla semplicità … il femminismo ama le scienze e le politiche dell’interpretazione, traduzione, del balbettio, e della comprensione parziale … le scienze del soggetto multiplo, che possiede una visione (almeno) doppia … in uno spazio sociale non omogeneo e sessuato.
… Il prendere corpo femminista resiste al fissaggio e possiede una curiosità insaziabile per le reti di posizionamento differenziato. (Haraway 1991)

Alcune artiste femministe negli anni Settanta e Ottanta, quali Cindy Sherman, Barbara Kruger, Jenny Holzer, Chantal Akermann, esplorano la relazione tra il corpo e lo spazio (urbano) in termini critici, investigativi, interrogativi, ma tale relazione è ulteriormente sviluppata e approfondita dal lavoro di artiste migranti quali ad esempio, Mona Hatoum, Zineb Sedira, Emily Jacir, Lara Baladi che nella loro estetica, articolano l’esperienza di migrazione come possibilità di riposizionamento identitario, culturale, storico, geografico, oltre che di genere. Una delle questioni fondamentali sollevate da queste ultime è quella della relazione tra luogo e identità, una questione, d’altronde, essenziale nella teoria e nei linguaggi postcoloniali. Le opere di queste artiste evocano l’esperienza autobiografica della transizione attraverso la geografia, le lingue, le culture, la politica, producendo, a loro volta, una transizione, uno spostamento, una tra-duzione, della soggettività, ponendoci di fronte ad una costante ridefinizione della spazialità propria e altra, e quindi alla sfida di ripensare l’orizzonte del proprio, inteso come appropriatezza, proprietà, appartenenza.

La riconfigurazione tra luogo, appartenenza e identità è strettamente legata ad una specifica forma espressiva: l’autobiografia, in cui prima ancora che la relazione tra il sé e lo spazio esterno, viene esplorata la relazione tra il sé e il corpo.

What I never quite understood until this writing is that to be without a sex – to be bodiless – as I sought to be to escape the burgeoning sexuality of my adolescence, my confused early days of active heterosexuality, and later my panicked lesbianism, means also to be without a race. I never attributed my removal from physicality to have anything to do with race, only sex, only desire for women. And yet, as I grew up sexually, it was my race, along with my sex, that was being denied me at every turn. (Moraga 2000)

Il corpo emerge, nell’autobiografia femminile, come luogo privilegiato per l’espressione della soggettività, nella misura in cui esso rappresenta, proprio come la donna, lo spazio occultato, invisibile e represso sul quale si è costruita e mantenuta l’identità egemonica dell’Autore autobiografico: il Soggetto universale prodotto dalla tradizione umanistica e illuminista della filosofia occidentale. Pura res cogitans, il soggetto universale del pensiero occidentale è portatore di una inequivocabile distinzione tra interno-proprio ed esterno-altro (im-proprio); centro molare, singolare, unificato, eretto in equilibrio stabile su confini impermeabili, il soggetto universale si configura senza figura, come attività della ragione, materia astratta a cui va ascritta l’autori(ali)tà della teorizzazione e dell’appropriazione della conoscenza e della verità del mondo, attraverso la capacità di trascendere le contingenze spurie, animali, dell’esperienza umana: i sensi, l’affettività, il corpo.1

La messa al bando della corporeità, con la sua essenza istintuale sregolata e insieme al potenziale caotico e grottesco che evoca è il processo fondante della “messa in essere” del soggetto universale. Il corpo viene ignorato o ridotto a involucro vicario della mente e dell’anima. La conoscenza della realtà avviene unicamente e paradossalmente attraverso un processo di dissociazione del sé dalla propria interdipendenza fisica con il mondo; e, quand’anche la corporeità, attraverso il superamento della dicotomia mente/corpo, acquista una maggiore considerazione nel discorso sull’esperienza della (auto)conoscenza, come nel caso della filosofia di Nietzsche (1991 [1888]) e nel discorso semiologico di Roland Barthes (1975), il corpo viene oggettivato nelle fattezze presumibilmente appropriate al soggetto universale. Il corpo, cioè, nei discorsi che riconoscono e rivendicano i sensi, i desideri, il biologico come componente costitutiva del sé e della conoscenza del sé, viene configurato come corpo universale – o come osserva Mikhail Bakhtin, come “corpo classico” (2001 [1965]) –, il corpo bianco, sano, maschile, geograficamente situato in Occidente, la norma naturalizzata, e perciò invisibile, rispetto alla quale le in(de)finite differenze di genere, etnia, collocazione sociale, economica e geografica, persino di specie si concepiscono come anormalità subordinata. L’oggettivazione del corpo del soggetto universale in una invisibilità normativa, che nulla concede all’ambiguità, all’indeterminatezza, alla semplice eterogeneità, incoraggia un processo di identificazione per cui coloro i cui corpi risultano culturalmente differenti dalla norma, vengono concepiti come essenzialmente corpo, e per questo irrazionali, esotici, irregolari, regionali e, paradossalmente, innaturali.

In tal modo, lo spazio del soggetto universale e quello del culturalmente grottesco o “carnevalesco”, nelle parole di Bahktin, o del socialmente abietto, come sostiene Julia Kristeva (1981), risultano costitutivi l’uno dell’altro. Nel famoso saggio sull’abiezione, Poteri dell’orrore, Kristeva sostiene che l’ordine sociale e le soggettività “proprie”, sia individuali (il soggetto universale) che collettive (le formazioni nazionali occidentali) si erigono sull’eliminazione dell’impuro e dell’“improprio”, secondo un meccanismo di abiezione immanente alla formazione del soggetto e delle categorie sessuali. Judith Butler (1009; 1993), ad esempio, riprendendo le osservazioni di Kristeva sulla nozione dell’abietto, mostra come il rinsaldarsi dell’eterosessualità come la norma e la legge si fonda sull’espulsione o l’abiezione dell’omosessualità come sua violazione. In altre parole, il consolidamento delle nozioni dominanti di genere e razza del soggetto universale richiede il consolidamento delle identità altre come abiette, producendo la simmetria tra il corpo come “altro” e gli altri come corpo abietto.

Naturalmente, tra i corpi abietti che sorreggono la fragile architettura monolitica del Soggetto vi è quello femminile, le cui possibilità di significazione sociale e culturale vengono localizzate nell’organo sessuale e, in particolare, nella sottile membrana che segna i confini tra interno ed esterno: l’imene. Sidonie Smith osserva: «[i]f the topography of the universal subject locates man’s selfhood somewhere between the ears, it locates woman’s selfhood between her thighs. The material and symbolic boundary of the female body becomes the hymen – that physical screen whose presence or absence signals so much». (Smith 1993, 12). In questa ideologia patriarcale della differenza di genere l’imene diventa il “dispositivo confinario” attraverso il quale viene stabilito il destino biologico e sociale femminile che prevede la Donna come figlia, moglie e madre dell’Uomo, esiliata dalla propria individualità, dalla pluralità dei propri desideri e dalla legittimità dei propri pensieri.

La donna viene così incarnata come “nonreflecting bios” (Smith 1993, 19), ricettacolo dell’amore, abitante dello spazio domestico, lo spazio dell’immanenza e della funzionalità subordinato allo spazio universale dell’astrazione teorica, dominato dall’Uomo ed epurato dalle presenze oscure, indomite che potrebbero disturbare o contaminare la visione confortante della donna come “angelo della casa”. I corpi eliminati da questa visione addomesticata sono, ad esempio, i corpi in movimento tra più lingue, culture, discorsi, luoghi; i corpi lesbici, neri, malati, diversamente abili, corpi marginali, migranti; i corpi in cui tutte queste differenze possono essere stratificate. Indicative sono narrazioni ibride prodotte dalle scrittrici migranti e transnazionali descritte da Lidia Curti (2006), le cui voci insubordinate e rivoluzionarie costituiscono un vero e proprio paradigma culturale e politico. Se il discorso egemonico sull’identità e la corporeità prodotto dal soggetto universale si fonda sostanzialmente sull’esclusione o sulla marginalizzazione delle differenze, allora la possibilità di disfar(si)e tale discorso proviene dal confronto con le differenze incarnate, troppo a lungo negate da un’epistemologia universalizzante, e dalla disponibilità ad accogliere le interruzioni, i vuoti, gli spazi indecifrabili, i punti ciechi che inevitabilmente interverranno in una visione alternativa della realtà.

Un passaggio dall’universale disincarnato ai particolari incarnati avviene nella produzione autobiografica intesa come modalità di inscrizione del sé plurale – autos e bios, mente e corpo, “io” e “non-io” – da parte di un soggetto particolare, in grado per questo di scomporre i paradigmi dell’universalità, le leggi della conformità, in opposizione diametrale alla tradizionale funzione dell’autobiografia occidentale, quella, cioè, come sostiene Smith, di coordinare e contenere la “colorfulness”. Le autobiografie delle donne – rientrano a pieno titolo tra i soggetti della “colorfulness” – erano, ad esempio, denigrate ed escluse dal “canone” maschilista dell’autobiografia perché ritenute troppo particolaristiche, personali e “domestiche”, prodotti da soggetti impossibilitate per “natura”, ad ergersi a modello universale. Così spiega Domna Stanton:

The autobiographical, in literary histories, constituted a positive term when applied to Augustine, Montaigne, Rousseau and Goethe, Henry Adams and Henry Miller, but … had negative connotations when imposed on women’s texts. … [the autobiographical] was used to affirm that women could not transcend but only record, the concerns of the private self; thus it has effectively served to devalue their writing. … wielded as a weapon to denigrate female texts and exclude them from the canon. (Stanton 1984, 132)

Differenziare il canone: l’autobiografia in divenire

Nel campo dell’arte moderna, soprattutto a partire dagli anni Settanta, quando il lavoro teorico all’interno della critica d’arte femminista cominciò a valutare le possibilità creative della relazione tra le donne e l’autobiografia, la modalità autobiografica diventa per le donne la pratica privilegiata di inscrizione del sé che interrompe deliberatamente la vecchia narrativa patriarcale della femminilità che vuole la donna “addomesticata” in funzione del sostentamento maschile (universale) e, per questo, ridotta a corpo-vagina-imene-utero. E’ soprattutto attraverso l’arte visiva, come sostengono Sidonie Smith e Julia Watson (2002), che le donne producono una contro-narrazione della femminilità, esemplificata nel breve racconto di Isak Dinesen The Blank Page (1975), molto spesso citato dalla critica femminista (Gubar 1986; Smith 1993). In un convento spagnolo circondato dal lino trapiantato dalla Terra Santa, delle suore si dedicano alla tessitura delle lenzuola destinate ai corredi nuziali dell’aristocrazia. Lungo i corridoi del convento sono esposte le “nobili” lenzuola della prima notte di nozze, macchiate dal sangue della deflorazione, ciascuna contrassegnata con gli stemmi del casato e con il nome della donna, a testimonianza del mantenimento dei valori patriarcali attraverso la penetrazione, l’appropriazione e l’“inquadramento” della sessualità femminile. Il nome e la macchia diventano segni intercambiabili del destino e dell’identità femminile: l’intera autobiografia femminile è impressa sulle lenzuola esposte alle pareti. La trama ripetitiva di questi “autoritratti” femminili viene, però, interrotta dalla presenza di un lenzuolo che più di ogni altro attira l’attenzione delle suore perché bianco e senza nome. La slealtà al sistema dominante è stata pagata con la negazione dell’identità, tuttavia è esattamente in questo spazio vuoto, in questa “pagina bianca” che si inscrive la possibilità di una autobiografia alternativa, rifiutando che la traccia del proprio sangue come la prova della propria reputazione resti l’unico mezzo per le donne di autorappresentarsi.

Il racconto di Dinesen non è una storia che celebra il silenzio, il vuoto, come una virtù culturale femminile, piuttosto esso crea un’immagine doppia attorno al candore femminile, collegato sia ad una forma di sovversione della narrativa fallo-logo-centrica, sia all’idea di una superficie eterogenea che evoca la possibilità di sentire ed essere altrimenti. La pagina bianca può essere intesa come il punto cieco di una presenza insostenibile, indecifrabile, che richiama il concetto di unmarked, elaborato da Peggy Phelan, ovvero, “a configuration of subjectivity which exceeds, even while informing, both gaze and language” (1993, 27), una modalità destabilizzante di esporre la differenza e la scomparsa, o la scomparsa come differenza, all’interno dei regimi di riproduzione culturale. La presenza unmarked, non segnata, sulla superficie bianca implica una differente istanza della visualità, oltre l’immediatamente visibile e la visibilità stessa, appellandosi ad un occhio capace di scorgere in questo spazio interdetto – anche con l’intervento degli altri organi sensoriali – l’inscrizione del femminile come dissidenza, differenza ed eterogeneità, la possibilità di differenti configurazioni del soggetto e del corpo.

Significativamente, nell’arte visiva contemporanea, le donne, consapevoli di essere naturalizzate, nell’ideologia maschilista del visibile, come oggetto dello sguardo maschile o, come osserva John Berger, “whatch[ing] themselves being looked at” (1972, 47), di essere oggettivate, disciplinate sia dall’artista-produttore, che dallo spettatore-consumatore come oggetto passivo, quiescente e, tuttavia, inscrutabile e intoccabile, ricorrono alla modalità autobiografica per decostruire la loro oggettivazione nel campo della visione e della produzione artistica. Le artiste puntano ad una rivalutazione del narcisismo, nelle loro opere, come strategia politica di resistenza, attraverso la valorizzazione dell’esperienza incarnata e dell’interconnessione tra sé interno e sé esterno, tra soggetto e oggetto d’arte. In questo senso, il narcisismo, come sostiene Amelia Jones, può essere inteso come una pratica proiettiva del sé, piuttosto che come esercizio solipsistico; come una modalità di interrelazione tra il sé e l’esterno, e, simultaneamente, di dislocazione del sé trascendente e universale: «[n]arcissism, enacted through the body art, turns the subject inexorably and paradoxically outward … [it is] a marker of instability of both self and other».(Jones 1998, 48).

Le artiste si appropriano dei loro corpi ri(pro)ducendoli in frammenti, tracce, resti, eccessi del sé ed evocando il sé come eccesso, punto cieco instabile, ibrido, interdipendente e collettivo, decostruendo il canone artistico e quello dell’identità stessa, sia femminile che maschile. Le artiste mostrano come la pratica autobiografica non sia una pratica trasparente che riproduce fedelmente l’individualità autentica di un soggetto sovrano, coerente e fisso, perché essa è inscindibile dall’esperienza materiale, incarnata del soggetto, con le sue variabili culturali, linguistiche, sessuali, economiche, geografiche. La storica dell’arte Griselda Pollock sottolinea la necessità di “differenziare il canone” (Pollock 1999) partendo dal rifiuto dell’ideale della trasparenza attraverso il quale la storia dell’arte tradizionale collegava l’opera d’arte al suo autore, intendendo l’opera come una superficie trasparente sulla quale è codificata l’autobiografia e la vita psichica dell’artista, ovvero, come mezzo che consente una facile via d’accesso alle verità intime dell’artista. La critica di Pollock muove dalla consapevolezza che i testi autobiografici femminili, sia scritti che visivi, sono sempre incarnati, materiali, performativi e difficili da decifrare, e oppone al principio di trasparenza la difficoltà di decifrazione inscritta nell’arte femminista. Quest’ultima, in particolare l’arte autobiografica, diventa istanza critica che opera sulla soglia del sé, del proprio, dell’identità, inventando più corpi, maschere, ibridando i generi e i mezzi artistici, in una radicale poetica della differenza che è femminile non per la rivendicazione di un’essenza, ma per la rottura delle norme falliche della fissità di genere, identità, sessualità, cultura.

L’arte autobiografica femminista contemporanea sfida in modo radicale il potere centrale e crea dei contro-discorsi attraverso la lente d’ingrandimento della differenza, attraverso una sessualizzazione e una soggettivazione dei discorsi centrali(zzanti), in questo senso la differenziazione del canone nelle opere di artiste multiculturali o che si muovono negli interstizi tra più culture, lingue, storie, geografie, risulta de-centrante anche rispetto alle artiste occidentali. Non basta accogliere l’esempio del discorso femminista come strumento di resistenza e trasformazione del discorso maggioritario, senza che essa stessa sia disposta al confronto con ciò che potrebbe rappresentare l’altro sé, con l’altro minoritario. E’ fondamentale considerare l’impatto non solo della valorizzazione della marginalità femminile sul discorso centralizzante (o marginalizzante) del soggetto universale prodotto in Occidente, ma anche quello delle varianti culturali e geografiche di questa marginalità, e studiare la relazione tra chi parla, chi parla per, chi è parlato e chi ascolta. La questione, qui, attiene al problema della “rappresentazione” come conoscenza storica e filosofica, ovvero al problema dell’epistemologia eurocentrica prodotta dalla filosofia occidentale; rispetto ad essa l’autobiografica femminista multiculturale può essere considerata una valida alternativa teorica in grado di produrre nuovi significati sull’essere-nel-mondo.

Ripensare la soggettività non in termini universalistici ma in termini di singolarità incarnata comporta un ripensamento anche della relazione tra rappresentazione, come esposizione artistica e/o filosofica, e rappresentatività, come rappresentanza politica e/o identitaria, nella concettualizzazione dell’“altro” o degli altri marginali. Nell’attenzione posta sulla singolarità incarnata, sia da parte delle/degli artiste/i marginali impegnati nelle pratiche autobiografiche, sia da parte degli studiosi interessati al discorso sulla marginalità, vi è il rischio di enfatizzare la marginalità (sociale, culturale, sessuale) dell’esperienza vissuta, come luogo dell’autenticità. Le rappresentazioni artistiche e filosofiche rischiano di avallare il passaggio dall’ideale della trasparenza del sé universale e unitario all’ideale dell’autenticità dell’esperienza singolare e marginale, restando, in tal modo, invischiati nell’infruttuoso processo di metaforizzazione implicito nel pensiero della rappresentazione, proprio alla politica dell’identità, basato sulla cristallizzazione delle differenze come (metafore) rappresentative di un’identità.

L’oggettivazione delle differenze attraverso una mitizzazione degli altri marginali come luogo dell’autenticità dell’esperienza è l’errore paradossale in cui, secondo Gayatri Chakravorty Spivak (1988), incorre la critica post-strutturalista, nel tentativo di decostruire il soggetto universale e la sua visione logocentrica della realtà. Spivak esamina il rapporto contraddittorio dei filosofi post-strutturalisti con l’eterogeneità e la marginalità e critica la mancata considerazione dei rapporti di potere tra loro e gli altri, oggetto del loro discorso che, pertanto, si presenta, conformemente alla visione egemonica della tradizione filosofica europea, come un “parlare per conto di”, piuttosto che un “parlare accanto” ai soggetti marginali(zzati) (Djebar 1988 [1980]).

La mancata collocazione storica, geografica, sessuale, economica della propria istanza discorsiva rende i filosofi post-strutturalisti dei “professori” di un discorso universalista che, nelle parole di Spivak, “restores the category of the sovereign subject within the theory that seems most to question it” (1999, 261), ovvero, che perpetua su di sé lo stesso modello di soggettività che si propone di decostruire, perpetuando, di conseguenza la marginalizzazione degli altri non europei. Infatti, i filosofi, pur decretando la crisi del Soggetto universale europeo, occupano irremovibilmente la posizione privilegiata di “radicali egemoni”; mentre, i nativi non europei restano esclusi dalla produzione del discorso filosofico o di un significato storico, concepiti unicamente come oggetto del Discorso, astratti in una subordinazione necessaria al funzionamento della rappresentazione eurocentrica, conservando la stessa posizione che tre secoli fa Kant riservava loro, quella, cioè di costituire il caso-limite della ragione.

L’essenzializzazione della loro esperienza come autentica, perché corrispondente ad una visione dal basso, legata alla realtà empirica quindi anti-universalista, reca in sé il germe dell’esotismo e del razzismo. Bell Hooks, ad esempio, a proposito degli “altri” neri, sostiene: «Racism is perpetuated when blackness is associated solely with concrete, gut-level experience, conceived as either opposing or having no connection to abstract thinking and the production of critical theory». (1990, 23). Hooks attacca fortemente la difficoltà a riconoscere nei neri e altri “altri” la capacità di un approccio decostruttivo verso l’identità; tuttavia, come tanta parte della teoria postcoloniale, riconosce una linea di continuità concettuale con il post-strutturalismo e la sua critica radicale all’imperialismo ontologico del pensiero europeo e alla sua connessione con il dominio del mondo, sostenendo la necessità di studiare l’impatto destabilizzante del postmodernismo in generale e della filosofia post-strutturalista, in particolare, sulle soggettività marginali, piuttosto che preservare queste ultime nell’alveo dell’autenticità.

Si pone, dunque, il problema di fornire adeguate rappresentazioni della soggettività, della sua eterogeneità, della sua natura potenzialmente contraddittoria e della rete delle relazioni di potere all’interno della quale essa emerge, evitando di assumere un approccio vampiristico di fronte alla differenza ed essenzialista nei confronti dell’identità. Persino l’arte femminista mostra, per certi versi, come il pericolo di scivolare in questo errore sia sempre in agguato. Se la posizione femminista condivide con la teoria postcoloniale e l’estetica postmoderna la sostenibilità di un soggetto decentrato e costantemente in divenire che implica lo smantellamento delle rivendicazioni universaliste e di autorità culturale, essa, come suggerisce Griselda Pollock in Differencing the Canon, se ne distacca nella misura in cui sottolinea e rivendica l’essenza femminile di tale soggettività.

E’ possibile intendere e produrre un diverso tipo di rappresentazione del sé se si approccia la realtà, la relazione tra il sé e il mondo esterno, in termini dinamici, relazionali e creativi, anziché in termini prescrittivi – come suggerisce il discorso sul potere del significante – o oppositivi – come potrebbe lasciare intendere la politica dell’identità –, adottando un atteggiamento più adeguato alla configurazione planetaria e diasporica del mondo e alla costellazione mobile delle appartenenze. In questo senso, risulta particolarmente utile un recupero dell’approccio post-strutturalista, attraverso la valorizzazione delle sue radici materialistiche, della sua critica anti-umanistica al pensiero della rappresentazione e della sua contestazione della fissità della posizione soggettiva, utilizzandolo come strumento analitico della realtà, da affiancare ad un altro strumento analitico, quello dell’arte autobiografica contemporanea, alfine di produrre una rappresentazione concettuale dei soggetti in divenire.

La produzione autobiografica delle artiste femministe fornisce un contributo teorico fondamentale al superamento della tensione tra identità e differenza o tra essenzialismo e relativismo, attraverso l’insistenza sull’esperienza incarnata e la rappresentazione di tale esperienza come instabile, frammentata, in divenire, attraverso, cioè, l’esposizione di una soggettività al contempo destabilizzata, decentrata e irriducibilmente immanente. Infatti, la capacità delle artiste di configurarsi simultaneamente come oggetto e soggetto della rappresentazione non implica di per sé, come sostiene Rosalind Krauss (1999), la rivendicazione di una agency della soggettività femminile, piuttosto essa permette di sospendere la fissità del genere, delle posizioni degli spettatori e delle spettatrici, destabilizzando il processo di identificazione.

E’ nell’incontro con l’altro, nella sua ricerca, nel contatto che interpella l’altro interno al sé che può essere ricreato un nuovo senso estetico e teorico dell’autobiografia. Nella sua autobiografia What Does a Woman Want? Reading and Sexual Difference, Shoshana Felman mette in discussione le premesse stesse su cui si fondano le teorie dell’arte femminista, auspicando un’inversione: invece di concepire le donne come il soggetto per eccellenza di opposizione e resistenza ai segni culturali, ella suggerisce una “femminine resistance of the text”, ovvero di leggere all’interno del testo delle resistenze agli assunti patriarcali e ai paradigmi dominanti, indicando così la strada verso un “divenire” femministe (Pollock 1999, 81). La proposta di Felman implica un riconoscimento della necessità di mettere in discussione anche i propri assunti personali. Le femministe assegnano una grande importanza al personale, facendo delle esperienze delle donne una contro-misura alla conoscenza ufficiale, ma, sostiene Felman, il personale è un’alternativa piuttosto problematica, non è di per sé una garanzia, non si può fare affidamento sul sé perché siamo sempre costruzioni esterne su idee importate e, per questo, incapaci di possedere una storia propria, un’autobiografia. Ella scrive:

I will suggest that none of us, as women, has as yet, precisely, an autobiography. Trained to see ourselves as objects and to be positioned as the Other estranged to ourselves, we have a story that cannot by definition be self-present to us, a story that, in other words, is not a story, but must become a story. … And it cannot become a story except through the bond of reading, that is, through the story of the Other (the story read by other women, the story told by other women, the story of women told by others) insofar as this story of the other , as our own autobiography, has yet precisely to be owned. … I will propose that we might be able to engender, or to access our story only indirectly – by conjugating literature, theory, and autobiography together through the act of reading and by reading, thus, into the texts of culture, at once our sexual difference and our autobiography as missing. (Felman 1993, 14)

Il senso della (propria) autobiografia è nella connettività, nella possibilità di implementare molteplici appartenenze, rinunciando a concepirsi come centro a favore della visione del sé come punto di interferenze, processi, passaggi, mobilità, definito dalla pratica della relazione e dalla politica del posizionameto. L’ideologia del medesimo, del centro, della presenza stabile e indiscussa del sé viene superata esattamente nella pratica autobiografica in cui l’occasione di riflessione su di sé risulta inseparabile da un atto di proiezione dal sé, nell’incontro con l’estraneità che conduce oltre il monologo tra l’io e l’io, in una dimensione più fragile, mobile e indefinita. L’espressione e il racconto di sé, dunque, e l’estetica incarnata e carnale dell’arte femminile (Papenburg et al. 2013) possono essere intesi come il luogo dell’intersezione tra una border art e un border thinking, una pratica e una teoria del sé che inevitabilmente ne discute e riposiziona i confini geografici, storici, sociali, di genere, evidenziando in questo movimento tra culture e identità, la possibilità di creare coalizioni, alleanze, rapporti relazionali in grado di scalzare la definizioni egemoniche e centralistiche della comunità, del senso comune, dell’essere e del vivere in comune.

Fig_2 (img_copertina)

Roshini Kempadoo, Arrival: Nnedi #6, 2010

 

La filosofia dell’immanenza e della differenza sessuale elaborata da Luce Irigaray, la sua critica al pensiero del Medesimo, dell’Uno alla base della filosofia e della conoscenza occidentale, è qui un riferimento fondamentale. Si vedano, tra gli altri: Luce Irigaray, Io, tu, noi. Per una cultura della differenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1992; Oltre i propri confini, Baldini Castoldi, Milano, 2007; La via dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

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Il presente articolo propone un estratto dal libro: Memorie Transnazionali. Estetica contemporanea e critica postcoloniale (“L’Orientale” editrice – 2016), di Celeste Ianniciello e Michaela Quadraro. L’estratto corrisponde ai paragrafi 2 e 3 del capitolo Quarto “Spazi e confini, transiti e posizionamenti”, di Celeste Ianniciello.

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Celeste Ianniciello è dottoressa di ricerca in Studi Culturali e Postcoloniali del mondo anglofono e membro del Centro di Studi Postcoloniali e di Genere presso l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”. Dal 2011 al 2015 è stata ricercatrice nel progetto europeo MeLa*, sul ripensamento dei musei e degli archivi europei nell’età delle migrazioni. Dal 2013 è ricercatrice nel progetto Il Matriarchivio del Mediterraneo. Grafie e materie dedicato all’archiviazione e diffusione delle arti femminili nel Mediterraneo. La sua ricerca è incentrata sull’arte visiva prodotta da artiste migranti provenienti dai paesi del Medio Oriente e Nord-Africa. Ha pubblicato saggi critici su letteratura anglofona postcoloniale, cinema, arti visive, in cui analizza la relazione tra l’etica e l’estetica dell’attraversamento confinario, in termini storici, geografici, culturali e di genere. Le sue più recenti pubblicazioni esplorano nuove modalità di vivere e archiviare la memoria culturale nell’arte contemporanea prodotta da soggettività migranti nell’area mediterranea, e in pratiche curatoriali e progetti museali “post-istituzionali”. Ha co-curato il volume, The Postcolonial Museum. The Arts of Memory and the Pressures of History (Routledge, 2014); tra le sue ultime pubblicazioni, il libro scritto a quattro mani con Michaela Quadraro, Memorie Transculturali. Estetica contemporanea e critica postcoloniale (“L’Orientale”, 2016).