i non-detti del museo
Magna Grecia al femminile.
Una lettura non convenzionale delle metope
del santuario di Hera alla foce del Sele (Paestum)
di Chiara Boracchi e Cinzia Dal Maso

Una narrazione importante
“Perché non far parlare una schiava del tempio?”. Già, una schiava. Non ci avevamo pensato. E Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Paestum, aveva avuto l’intuizione giusta, in linea con l’idea che avevamo concordato di sviluppare. Aveva infatti affidato a noi di Archeostorie® l’incarico di scrivere un testo “narrato” per l’audioguida di uno degli highlight del museo di Paestum: le metope – cioè le lastre scolpite che decorano il fregio dei templi dorici – trovate nel Santuario di Hera alla foce del fiume Sele. Era un santuario importante perché segnava il confine tra il territorio di Paestum e quello degli Etruschi, e come tutti i luoghi di confine era anche un centro di scambi economici e culturali. Lì dunque i Greci potevano illustrare agli altri il loro mondo, il loro immaginario, e spiegare perché e come erano giunti sino a laggiù. Le 39 metope sono state trovate in vari luoghi del Santuario, spesso riutilizzate in edifici successivi, e perciò non sappiamo per quale tempio siano state realizzate, e se mai siano state utilizzate. Sappiamo solo che, scolpite verso il 570-60 a.C., dovevano decorare un tempio molto antico, forse addirittura il primo grande tempio costruito nel Santuario. Chiunque andasse al Santuario, dunque, era costretto ad alzare gli occhi e lassù, sul fregio, scopriva e ammirava i miti fondanti della grecità.
Il museo di Paestum è stato costruito nel 1952 (sulla base di un progetto del 1938) proprio per esporre al meglio questo eccezionale ciclo di rilievi. È stata riprodotta la cella di un tempio così da potere ammirare le metope dal basso verso l’alto, con deferenza, proprio come si ammiravano duemilaseicento anni fa. Tuttavia oggi sappiamo che sicuramente non decoravano una cella come quella ricostruita, e l’ordine di esposizione è quantomai confuso con le storie di Eracle, degli Argonauti, della guerra di Troia collocate un po’ qua e un po’ là. Non è facile raccontarle, dovendo per forza rispettare quell’ordine. E non è facile raccontare così tanti miti, con così tanti particolari, senza risultare noiosi. Questi erano i nostri primi problemi. Uniti a una sorta di confronto con una narrazione già realizzata nel 2002 per il cosiddetto “museo narrante” che presenta sul posto, alla foce del Sele, le vicende del Santuario. Una narrazione molto libera e aperta a diverse ipotesi interpretative, e soprattutto basata su copie delle metope liberamente appese al soffitto di una sala in penombra e illuminate di volta in volta da un videoproiettore. Insomma chi l’aveva realizzata – l’équipe diretta dall’architetto Fabrizio Mangoni – si era giustamente facilitato il compito. Noi invece non avevamo vie di scampo.
Per raccontare miti e gesta di eroi, la nostra prima idea era stata di dar voce a un dio o un eroe, un po’ come aveva fatto anche Mangoni. Eppure, la funzione politica, sociale e culturale di quelle metope ci era ben chiara. Avevamo anche letto un testo di Gabriel Zuchtriegel, in corso di stampa ma i cui contenuti sono stati da poco anticipati in questa stessa rivista (Zuchtriegel, 2019) che, tra l’altro, ricorda come il Santuario del Sele e gli altri importanti santuari della Magna Grecia, con i loro templi e cicli narrativi, fossero luoghi di affermazione della presenza greca. Ovunque andassero, i Greci organizzavano gli spazi a modo loro, non solo nelle città ma in tutto il territorio che governavano. Vi portavano il loro ordine, fisico e mentale, e bollavano quel che c’era prima come incivile “disordine”. Il testo di Zuchtriegel riflette in particolare sull’architettura dei templi in questi santuari, anch’essa parte di questo messaggio “civilizzatore”. Tuttavia in passato tale architettura veniva interpretata come il punto di arrivo di un’evoluzione funzionale, contribuendo in tal modo all’idea – tuttora ben salda nel nostro immaginario – della superiorità della civiltà greca rispetto alle altre del mondo antico.

Gli “altri” della storia
Conoscevamo ovviamente anche la recente pubblicazione di Zuchtriegel Colonization and Subalternity in Classical Greece (Zuchtriegel, 2017) che rilegge la storia greca cercando di considerare anche i poveri e i vinti, cioè coloro che non hanno in genere lasciato documenti e dunque vengono necessariamente ignorati dai posteri. Tuttavia la cultura materiale può fornire oggi indizi per indagare anche le loro vite, e per rileggere le fonti letterarie ed epigrafiche con altri occhi. Perché gli oggetti conservati nei musei appartenevano ai ricchi e potenti ma anche alla gente comune. Finora si è spiegato cosa la gente comune faceva con quegli oggetti: come li realizzava e poi li utilizzava. Ma è possibile risalire dagli oggetti al pensiero di quella gente? È possibile capire il loro punto di vista sulla storia? Forse sì, anche se non del tutto. E il punto di vista delle donne, dell’“altra metà del cielo” per l’appunto, da sempre il grande assente della storia, riusciamo a recuperarlo? Si è scritto molto sulla storia delle donne e nei musei si dedicano intere sezioni al cosiddetto “mondo femminile”, ma raramente ci si interroga su come le donne guardassero a quel che accadeva. Anche le donne sono tra i “perdenti”, coloro che hanno lasciato poche tracce e di difficile interpretazione, ma anche per questo è importante cogliere il loro sguardo. Almeno provarci. Anche inventando per costruire una narrazione coerente, se necessario, come diciamo da tempo noi di Archeostorie® (Dal Maso, 2018). Perché presentare interpretazioni molteplici dei fatti storici è comunque più realistico che presentarne uno solo. La realtà è, ed è sempre stata, molteplice e complessa.

Idea di progresso e sue derive
Al contrario il nostro immaginario collettivo è ancora molto pervaso dall’idea – che risale al secolo dei Lumi e al positivismo ottocentesco – di uno sviluppo storico univoco e lineare. La ricerca è spesso andata oltre, ma l’immaginario è ancora per certi versi fermo all’idea della scimmia quadrupede che si alza progressivamente fino al Sapiens Sapiens in posizione eretta, con uno sviluppo lineare che non ammette deviazioni. Laddove invece sappiamo che l’umanità si è costruita per tentativi del tutto casuali e persino schizofrenici. E neppure nelle epoche storiche c’è stata vera linearità, come ci ha ricordato anche Zuchtriegel (2019): le idee che hanno prevalso non erano necessariamente migliori ed evolutivamente più avanzate delle altre, ma sovente erano quelle dei vincenti e dei più forti. Però il nostro immaginario è ancora fermo a un’idea di civiltà come punto d’arrivo del progresso umano che, per quanto riguarda il pensiero, ha trovato la sua massima espressione nell’antichità classica. Per questo il punto di riferimento di noi occidentali rimangono sempre la Grecia e Roma antiche: un mondo perfetto, puro e candido proprio come le sue statue, che erano invece coloratissime, ma è un’idea che non vogliamo mandare giù (Dal Maso, 2007). Non vogliamo perché ci fa comodo, perché nella mente di molti, ancora oggi, il bianco è il bello, il buono, il bene; il colore è il barbaro e il male. Il gusto estetico settecentesco è diventato insomma l’idea della supremazia del bianco rispetto al colore, e della pelle bianca rispetto alla pelle più scura, e le candide statue antiche hanno alimentato le peggiori derive razziste (Talbot, 2018). Non riusciamo proprio a pensare che invece nel mondo antico la “civiltà” era mediterranea e dunque di pelle non proprio candida, mentre quelli del nord (come quelli dell’estremo sud, del resto) erano inequivocabilmente barbari. Inoltre anche il maschilismo peggiore – quello che bolla la violenza sulle donne come una mera menzogna femminile – usa gli autori antichi come autorità legittimante, come ci ha mostrato recentemente anche Donna Zuckerberg in uno scritto documentatissimo che ne svela i meccanismi pervertiti e perversi, così come si rivelano sul web (Zuckerberg, 2018).

Passato e presente
Dunque l’idea delle “magnifiche sorti e progressive” va combattuta non solo perché irrealistica ma anche perché si associa spesso, e paradossalmente, alla pratica diffusa di appiattire tutta la storia sul presente e attribuire così nostre abitudini al passato, giustificando in tal modo privilegi sociali e producendo derive che purtroppo al giorno d’oggi si stanno diffondendo in forme sempre più allarmanti. Dobbiamo recuperare la profondità storica finché siamo in tempo, far capire che i nostri antenati, anche i più vicini a noi, erano in realtà diversi da noi. I nostri nonni non erano come noi, figuriamoci chi è vissuto migliaia di anni fa. È giusto che ci sentiamo eredi dei Greci e dei Romani come anche di tutti coloro che ci hanno preceduto, senza considerarli intoccabili bensì calando le loro idee nella realtà e nel tempo a cui appartengono. Se loro erano razzisti e maschilisti – perché lo erano – non dobbiamo esserlo per forza anche noi. E se poi ricordiamo che quella storia antica a noi nota, quei documenti che citiamo in realtà non erano la voce di tutta ma solo di una parte della società antica, e se proviamo a cogliere e trasmettere anche i sentimenti delle altre parti, riusciamo a dare del passato una visione ancor meno mitica e mitizzata. Nei nostri musei è importante costruire collegamenti continui fra passato e presente per spiegare che la storia ci riguarda, che studiare il passato significa capire come siamo diventati ciò che siamo e dunque capire noi stessi. Ma tali collegamenti devono necessariamente tenere presente la distanza temporale che ci separa, devono trasmettere il senso della profondità della storia. Solo in questa prospettiva i musei diventano luoghi dove noi contemporanei, confrontandoci con le vite altrui che si manifestano negli oggetti esposti, diamo senso e ricchezza alla nostra vita quotidiana. Diventano cioè palestre di interculturalità e di rispetto per ogni diversità (Dal Maso, 2018).

Allestimento metope al Museo di Paestum Wikimedia Commons

Voce delle donne e dei vinti
Ecco perché la schiava è stata l’idea vincente, la soluzione perfetta. È in linea con l’indagine postcoloniale e antievoluzionistica sulla storia greca di Zuchtriegel. Ma riprende anche la nostra esperienza giornalistica che ci ha insegnato quanto sia essenziale far leva sull’immaginario collettivo per catturare l’attenzione, e quanto sia altrettanto importante condurre con sensibilità l’uditorio a costruire assieme un dialogo proficuo tra il passato e la contemporaneità. Questo è, secondo noi, il discrimine tra “buona” e “cattiva” comunicazione, tra chi cerca solo facili adesioni (o like sui social) e chi attribuisce alla comunicazione un’importante funzione sociale e civile (Dal Maso, 2007). Grazie alla schiava e con la schiava, abbiamo potuto affrontare due temi caldi del mondo contemporaneo per i quali ci battiamo entrambe da tempo: la condizione femminile e la sostenibilità ambientale. Argomenti attuali e perciò di sicuro richiamo, ma sui quali è necessario andare al di là degli stereotipi e riflettere con maggiore acume, disincanto, apertura di vedute. Oggi più che mai. Com’è che non avevamo pensato prima alla schiava?
La “nostra” schiava apparteneva a quelle genti italiche che vivevano nella piana del Sele e dintorni prima dell’arrivo dei Greci. Erano in realtà Greci venuti da Sibari e quindi avevano già avuto a che fare con gli Italici e imparato a conviverci, magari assimilando anche qualche loro stile di vita. Ma tant’è, quando delle genti giungono in una terra e vi si vogliono stabilire, ambiscono al terreno più fertile e alla fonte d’acqua più copiosa. E necessariamente scalzano chi c’era prima. O tuo o mio, non può essere di entrambi: ci sono per forza un vincitore e un vinto. Le metope del Sele sono state scolpite da e per i vincitori. La schiava apparteneva ai vinti ed è finita a lavorare al Santuario. In più è donna, e ci ha consentito perciò di indagare entrambi i punti di vista alternativi a quello già noto. Raccontando i suoi pensieri e le sue fantasie sui miti narrati dalle metope.

I miti delle metope
Sono i grandi miti della Grecia antica. Le gesta degli eroi della guerra di Troia come Achille, Aiace e Ulisse; o eroi che portarono la cultura greca tra le altre genti considerate incolte, eroi “civilizzatori” come si suol dire, come Giasone e soprattutto Eracle. Quest’ultimo era un semidio – figlio di Zeus e di una donna mortale – ed era dotato di una forza sovrumana che gli consentiva di portare ovunque l’ordine, combattendo mostri feroci, Giganti e Centauri, abitatori del disordine. La nostra schiava guarda i mostri e dice: «sai che c’è? a me in realtà quei mostri fanno tenerezza, mi ricordano queste terre com’erano prima dell’arrivo dei Greci, quando ci vivevamo noi e nessun altro. E io in quel “disordine” – come i Greci lo chiamano – in fondo mi trovavo bene. Per me aveva un senso. Oggi voi lo potete capire; voi che, nel perseguire la diffusione dell’ordine e della “civiltà” a scapito del disordine, avete sconvolto l’equilibrio del pianeta. Ora capite che meno aggressività e più rispetto per l’ambiente avrebbero giovato a tutti. Allora non si poteva sapere però io e la mia gente, in qualche modo, percepivamo che l’atteggiamento dei Greci non era del tutto giusto, che anche la nostra etica aveva un valore». La schiava guarda poi le metope che insistono sulla superiorità maschile e sulla “normalità” delle violenze ai danni di donne. Come le storie dei centauri Eurizio e Nesso che provarono entrambi a violentare Deianira, o del gigante Tizio che rapì Latona, oppure dei Dioscuri che rapirono le figlie di Leucippo, le violentarono e poi le sposarono. Come? Barbarie? Violenza legalizzata? Il cosiddetto “matrimonio riparatore” è sopravvissuto nella legislazione della Repubblica italiana fino al 1981. Praticamente fino a ieri.

Noi molteplici
La nostra schiava ammira dunque i mostri delle metope, gli sconfitti come lei, quelli che, a fronte della visione vincente e univoca della storia, fanno trapelare la molteplicità di forme e visioni. Spesso i mostri hanno più teste, più code, si deformano e si trasformano. Sono insomma simbolo della vita vera che è sempre molteplice. Noi stessi siamo molteplici e solo con un moto razionale ci fissiamo in una maschera univoca. Anche i Greci erano consapevoli che non tutto il mondo poteva rientrare nell’ambito ordinato della loro polis, ed esorcizzavano il diverso e il molteplice nella tragedia e nella commedia. Però forse recuperare la molteplicità che è dentro di noi è uno sforzo etico che vale la pena compiere. Merita recuperare tutta la nostra umanità. Il poeta latino Ovidio ci ha raccontato l’importanza e il valore del molteplice scrivendo le Metamorfosi. Ha combattuto, a modo suo, contro ogni tipo di fissazione. Poi però Augusto l’ha esiliato a Tomi sul Mar Nero. Non sappiamo perché ma forse anche per questo.

Un metodo di lavoro
Ci preme infine sottolineare una questione metodologica per noi importante: un archeologo si è rivolto a dei comunicatori per realizzare un prodotto di comunicazione – un’audioguida – che rispecchiasse le sue intenzioni, ma con forma e tono che lui difficilmente avrebbe concepito. Nei musei non è sempre così: se gli studiosi – che siano archeologi o storici dell’arte o altro – accettano oramai il contributo degli esperti di allestimenti o tecnologie, in genere il concept e i testi dei vari prodotti li vogliono concepire loro, con risultati non sempre accattivanti e di facile comprensione per il pubblico. Oppure, nel caso di prodotti di comunicazione considerati “di minor valore”, lasciano fare a chiunque, con risultati ugualmente poco convincenti. Ma il museo è luogo della comunicazione, e comunica in ogni sua attività: se è giusto che siano gli studiosi a individuarne i contenuti, per condividere così con tutti i cittadini i risultati delle ricerche più recenti, questi dovrebbero poi valutare le strategie di comunicazione assieme a dei professionisti. Per l’audioguida delle metope del Santuario del Sele abbiamo fatto un vero gioco di squadra come dovrebbe essere sempre, e ne andiamo fieri. Il testo è scritto con un linguaggio semplice e chiaro, che spiega tutto senza dare nulla per scontato. Il tono è leggero ma fermo, piacevole ma capace di toccare le corde giuste. La tensione tra passato e presente è misurata, come pure l’accento femminista e ambientalista. Ora la palla passa ai visitatori: attendiamo con ansia di conoscere le loro reazioni e possibilmente di discuterne con loro. Assieme, col contributo di chiunque vorrà, potremo costruire narrazioni sempre più coinvolgenti e utili. Sempre migliori. Attendiamo anche i commenti di voi, lettori di roots&routes, se avrete la bontà di condividerli. Nel file audio qui sotto trovate letti alcuni testi. Buon ascolto, e a presto.

INTRODUZIONE

Suicidio di Aiace. Wikimedia Commons
Ulisse sulla Tartaruga © Parco archeologico di Paestum e Google Arts & Culture
Eracle e il cinghiale di Erimanto © Parco archeologico di Paestum e Google Arts & Culture
Oreste e le Erinni © Parco archeologico di Paestum e Google Arts & Culture
Ratto di Latona © Parco archeologico di Paestum e Google Arts & Culture

Violenze sulle donne

Ratto delle Leucippidi © Parco archeologico di Paestum e Google Arts & Culture
Eracle, Hera e i Sileni © Parco archeologico di Paestum e Google Arts & Culture

Bibliografia
Dal Maso C., Il problema del bush. Preistoria, comunicazione e senso comune in Lucia Sarti e Massimo Tarantini (a cura di), Evoluzione, preistoria dell’uomo e società contemporanea, Carocci, Roma 2007.
Dal Maso C. (a cura di), Racconti da museo. Storytelling d’autore per il museo 4.0, Edipuglia, Bari 2018.
Talbot M., The Myth of Whiteness in Classical Sculpture, The New Yorker, 29 ottobre 2018.
Zuchtriegel G., Colonization and Subalternity in Classical Greece, Cambridge University Press 2017.
Zuchtriegel G., Agains Evolution: Towards anti-evolutionary exhibitions of Classical architecture, in roots&routes n. 30, maggio-agosto 2019.
Zuckerberg D., Not All Dead White Men. Classics and Misogyny in the Digital Age, Harvard University Press 2018.

Chiara Boracchi
Giornalista, speaker radiofonica e podcaster, si occupa di tematiche ambientali, turismo sostenibile, archeologia e comunicazione museale. Scrive per LifeGate, punto di riferimento della comunicazione ambientale in Italia, e per Archeostorie Magazine. Per il gruppo Archeostorie® coordina inoltre gli audio progetti con l’obiettivo di indagare e utilizzare il linguaggio dei podcast come strumento privilegiato di divulgazione culturale. Nel 2018 ha per questo ideato il format Archeoparole, primo progetto di divulgazione archeologica attraverso i podcast.

Cinzia Dal Maso
Giornalista e scrittrice, si occupa di archeologia, comunicazione dei beni culturali, uso contemporaneo del passato, turismo culturale, ecoturismo. Scrive per Repubblica, Il Sole 24 ore e dirige Archeostorie Magazine, osservatorio sulle forme di comunicazione e gestione dei beni culturali del mondo d’oggi che promuove lo storytelling come strumento privilegiato di dialogo tra passato e presente. Archeostorie® è anche un gruppo di ricerca che guarda al futuro, e un pool di professionisti che studia soluzioni per una comunicazione museale sempre più precisa e coinvolgente.