Discomfort
Play is an inherently and deliberately ambiguous concept.
Intervista ai partecipanti del modulo residenziale “Ludocity” di UNIDEE
a cura di Paola Bommarito

Come creare giochi a cui le persone possano giocare seriamente?

PAOLA: Con questa domanda si è dato avvio ai lavori per Ludocity. Designing a site specific game uno dei moduli residenziali a UNIDEE – Università delle idee di Cittadellarte. Oggetto di studio è stato il gioco, inteso come dispositivo partecipativo, temporaneo e mobile, attraverso il quale poter stabilire forme di interazione con le comunità aprendo a nuovi, possibili, significati e usi dello spazio pubblico. Al modulo, guidato da Riccardo Fassone e Juan Sandoval e con un intervento di Gabriele Ferri, hanno partecipato Melania Fusco, Sara Gallotto, Paola Bommarito, Nicholas Ferrara, Annalisa Zegna e Nicolò Molinari. Nel pensare il gioco come strumento complesso, spesso abbiamo poche certezze e molte ambiguità che a volte possono metterci in situazioni scomode. Abbiamo avviato un esercizio sul territorio, tra la Fondazione Pistoletto e il quartiere Riva di Biella, e in un percorso durato una settimana, abbiamo sperimentato come il gioco possa essere inserito all’interno del processo di trasformazione di un luogo.

RICCARDO: Nel testo The Ambiguity of Play, Brian Sutton-Smith, uno dei più noti teorici del gioco, sostanzialmente ammette di non saperne più degli altri, perché il giocare è una di quelle attività che tutti facciamo, che conosciamo in qualche modo. Di conseguenza, l’idea stessa di spiegare il gioco, di insegnare a farne uno, ha un’ambiguità dentro, perché da un lato ci sono delle tecniche, delle strategie per la costruzione delle dinamiche, dall’altro lato il gioco ha la specificità di essere un’attività spontanea che ci appartiene. Occorre costruire intorno al gioco uno spettro molto ampio. Io credo che ci siano forme di funzionalizzazione del gioco, che possa essere educativo, socializzante, liberatorio, che possa veicolare forme di potere e che sia una forma di comunicazione raffinata, ma non è mai uno strumento monofunzionale. Non ha una sola applicazione. La natura del gioco è quella di sollecitare tutta una serie di aree per farci porre delle domande, e questo va considerato nel processo di game design. L’atteggiamento del giocare seriamente secondo me è quello di mettersi in gioco oltrepassando i limiti della propria zona di comfort, perché il gioco porta a un’esplorazione di sè al di fuori dei propri confini. In Homo Ludens, Johan Huizinga definisce gli aspetti culturali che si creano sotto l’egida del gioco. Distingue il gioco dalla vita vera. Giocando, è come se ci si posizionasse su un altro piano, ci sono delle cose consentite che non ci sarebbero in altre circostanze. Il gioco è un pò questo spazio protetto, una sfera extraordinaria, che costruisce un cuscino attorno ai giocatori, per cui abbiamo sempre la possibilità di uscire dal ruolo che abbiamo assunto e spostarci fuori dal gioco. Questa divisione tra la vita ordinaria e il gioco, inteso come cerchio magico, secondo me non tiene quando si progetta un gioco nella città dove ci sono azioni e relazioni reali.

Come mettersi in gioco esplorando così i limiti della propria zona di comfort?

RICCARDO: Secondo me il divertimento non è una condizione né necessaria né sufficiente affinchè un qualcosa venga definito “un gioco”. Perché una delle cose che il gioco fa è quella di mettere in atto delle dinamiche che ci portano a compiere azioni, spingendoci a conoscere noi stessi e gli altri in dei modi che altrimenti non utilizzeremmo. In questo modo il gioco ci sposta oltre rispetto ai confini del nostro agire usuale, appunto il nostro comfort sociale e il nostro comfort psicologico. Ci costringe a metterci alla prova: fino a che punto possiamo spingerci? Ogni gioco, riconfigurando il modo in cui stiamo nel mondo, portandoci a utilizzare forme di comunicazione che sono inconsuete, rivela una parte di noi che non necessariamente vorremmo rivelare in altri contesti. Questa dinamica, non è in tutti i casi divertente, ma ha un aspetto esplorativo che secondo me è un po’ il cuore del gioco, ossia l’idea di scoprire qualcosa di sé e degli altri, sollecitati, nel gioco, da questa possibilità di mettersi in discussione.

MELANIA: Personalmente ho deciso di partecipare al modulo Ludocity perché trattava della progettazione di un gioco che, in qualche modo, spesso entra a far parte della mia pratica artistica. Quando parlo di gioco non riesco ad intenderlo solo come una scelta di ruoli, con delle regole ben precise che occorre seguire e l’elemento competitivo che ne regola i flussi. Al di là dell’aspetto ludico, nei miei progetti il gioco torna come uno strumento per mettere in scena una sensazione di straniamento e frustrazione. Mi spiego meglio, nel lavoro che ho presentato alla fine della residenza presso la Fondazione Bevilacqua La Masa (Tutte le parole che ti ho detto in attesa che svaniscano) riflettevo sulle difficoltà di comunicazione e interazione all’interno di un gruppo più o meno ampio di persone. Ho utilizzato alcuni strumenti che sono inevitabilmente legati al gioco e all’intrattenimento – in questo caso uno sparacoriandoli – per riflettere, apparentemente con leggerezza, su alcune dinamiche che si ripetono in un qualsiasi gruppo di lavoro. A prima vista si percepiva una distesa di coriandoli, quasi come la fine di una festa, poi, con un pò di attenzione, ti accorgevi che ogni coriandolo era parte di una pila di tutte le mail stampate e scambiate durante l’anno di residenza tra i 12 artisti e chi ogni giorno lavora all’interno della Fondazione. Oppure in Something went wrong. Try again: un gonfiabile, segretamente manomesso, che per stare in piedi ha bisogno di essere gonfiato continuamente. Mi piace ironizzare sul sentimento di competizione usando una pratica “giocosa” che pone in una condizione frustrante chi è coinvolto, dal momento che risulta impossibile raggiungere l’obiettivo preposto.

Può il gioco essere uno strumenti all’interno di un processo volto alla trasformazione di un luogo?

JUAN: Nell’immaginare questo modulo siamo partiti da un lavoro realizzato a Cuba: il gioco da tavolo (d)estructura creato dal mio collettivo el puente_lab e l’artista Mariangela Aponte. Lo scopo del nostro progetto era realizzare una mappatura, conoscere gli attori culturali presenti nei diversi luoghi dell’isola, raccogliere impressioni e desideri per poi cercare di elaborare una strategia di messa in rete di queste diverse comunità. Abbiamo pensato che il gioco potesse essere strumento adatto per l’osservazione, la raccolta dati e l’analisi dei rapporti tra gli individui che compongono una comunità e il proprio territorio. La domanda posta ai giocatori li portava a immaginarsi tra 10 anni, uno spostamento dalle problematiche del presente, più quotidiane, verso una prospettiva futura, riempiendo questo tempo di un qualcosa che noi abbiamo chiamato “valori”. A ciascun valore veniva associato un mattoncino di legno e veniva chiesto ai giocatori di costruire una torre, più alta possibile. Tra le ambiguità legate al gioco in questi giorni abbiamo discusso sul come questo possa essere uno strumento, che in alcuni casi veicola una forma di potere, o una risorsa. Nel caso di (d)estructura è stato uno strumento per noi, perché ci ha permesso di raccogliere dati sulle dinamiche dei vari gruppi, e una risorsa per i giocatori, utile sia nel processo di re-immaginazione di una comunità, sia nell’aprire uno spazio di discussione, in cui confrontarsi sulle cose delle quali non parliamo tutti i giorni, che ha portato i giocatori a riflettere, porsi delle domande. In Ludocity la struttura che abbiamo messo insieme consisteva nell’avere un luogo di riferimento per progettare un’azione ludica, di ricerca, di attivazione del territorio. Lo abbiamo fatto su Riva che è il quartiere in cui si trova la Fondazione Michelangelo Pistoletto e ci interessava mettere in connessione il lavoro che facciamo all’interno di Cittadellarte e la città. Nel quartiere al momento sono in corso processi di riqualificazione che lo vedono come territorio di latente conflittualità, e in passato è stato oggetto di discussione perchè è un quartiere dove c’è una buona presenza di migranti e dove si raccoglie la vita notturna della città, quindi questo nel tempo ha avuto delle problematicità.

NICOLO’: Tra i partecipanti al modulo vi eravamo Annalisa, Nicolas e io, abitanti di Biella. Tutti noi facciamo parte dell’associazione Better Places che gestisce lo spazio culturale Hydro, all’interno di Cittadellarte, e siamo coinvolti nel lavoro del comitato per la promozione di un Urban Center nel quartiere Riva. Abbiamo iniziato la nostra ricerca sul territorio attraverso una serie di passeggiate e incontri nel quartiere. Alcune sono state “guidate”. Abbiamo incontrato delle persone che fanno parte del comitato, visitando con loro la parte più centrale, soffermandoci sulle architetture dei luoghi e i vuoti urbani che si sono venuti a creare in seguito alla chiusura di alcune attività commerciali. L’incontro con un ex assessore alle politiche giovanili ci ha mostrato le problematiche complesse e una serie di temi legati all’affrontare un lavoro di riqualificazione urbana da parte dell’amministrazione comunale. Infine abbiamo visitato il quartiere con chi oggi è soprannominato “il sindaco di Riva”, una persona che rappresenta la memoria storica di quel luogo, che ha inquadrato Riva sia storicamente, raccontandoci diverse storie degli abitanti, sia geograficamente, mostrandoci i confini del quartiere. Abbiamo inoltre fatto una deriva, una passeggiata in solitaria, dove ognuno di noi si è trovato ad attraversare il quartiere in modo spontaneo e ha cercato di raccogliere degli elementi che sarebbero poi stati utili nell’elaborazione del gioco.

In che modo il disfare e rielaborare le regole ci aiuta a comprendere i processi del game design?

RICCARDO: Parallelamente alle visite nel quartiere, abbiamo iniziato a lavorare allo stesso modo dei game designer. Una delle cose che i game designer fanno spesso è quella di decostruire, smontare giochi già esistenti, cercare di comprenderne il funzionamento, dividerli in regole, capire quali regole sono fondamentali, quali possono essere cambiate, quali tengono in piedi la struttura del gioco e quali sono accessorie. Lo abbiamo fatto su una serie di giochi e questo è uno stretching mentale che aiuta a entrare nell’ottica di lavorare su sistemi regolati che interagiscono tra di loro.

SARA: Per me è stato molto interessante questo processo di progettazione del gioco che lavora sulla ridefinizione delle regole. Il primo esercizio che Riccardo ci ha fatto fare consisteva nell’analisi del gioco del Tris, un gioco che per la maggior parte dei casi si conclude con la parità tra i due giocatori. In questo modo il tris potrebbe sembrare un gioco che non funziona. Tutti insieme abbiamo cercato di scrivere un manuale di istruzioni per il gioco del Tris, elencando tutte le regole. Dopo, ognuno di noi ha cercato di cambiare due o tre regole per cercare di rendere il gioco più interessante. Il risultato è stato quello di immaginare altri possibili giochi.

RICCARDO: Un gioco cooperativo che spesso presento ai miei studenti è Insoliti Sospetti, in cui occorre capire chi è il sospettato attraverso delle deduzioni che non si basano su aspetti fisici, tratti oggettivi o elementi facili da identificare, ma avvengono sulla base di impressioni soggettive. Secondo me l’imbarazzo è una sensazione poco esplorata da parte dei game designer e in generale da chi fa oggetti che comunicano. Certe volte dei giochi ti mettono in una situazione imbarazzante, però questo poi diventa sorprendente. L’imbarazzo rivela parti di noi che sono molto recondite ed è questo che mi piace del gioco di Paolo Mori Insoliti Sospetti perché è un gioco sull’imbarazzo dei propri pregiudizi, delle nostre convinzioni rispetto agli altri. Questo tipo di giochi, che pungolano quel genere di preconcetti che solitamente ci teniamo per noi, sono secondo me utili nel modo in cui ci svelano e raccontano qualcosa di noi stessi.

In che modo il gioco può essere una forma di immaginazione collettiva di scenari futuri?

NICOLAS: Durante le nostre derive individuali ci siamo concentrati nella ricerca di aspetti, dettagli, che potessero iniziare a farci scattare qualcosa a livello ludico. Una serie di elementi già legati all’idea di poter essere gioco. Per esempio siamo entrati in un androne e abbiamo trovato un cartello con su scritto “vietato giocare”. Oppure passeggiando per le strade abbiamo scoperto il campanello del quartiere Riva. Più volte siamo passati da Piazza del Monte, un grande cortile interno che presenta quattro ingressi chiusi. Questa piazza si poteva già pensare come un campo da gioco in modo molto naturale, tra l’altro già diviso e strutturato con delle linee per terra. Così come in piazza abbiamo notato un alieno, raffigurato nel muro, che abbiamo pensato potesse essere un “attivatore” ludico, un elemento che potesse fornire delle istruzioni per poter giocare. L’alieno, e il disco volante accanto a lui, in qualche modo potevano essere utilizzati come spunti che permettessero di sviluppare delle dinamiche del gioco, elementi di sorpresa o di straniamento che potessero dare avvio proprio al nostro esercizio di progettazione di un gioco.

PAOLA: Il post-it è stato uno strumento fondamentale nel nostro lavoro di progettazione. Ci ha permesso di poter sviluppare le idee in modo collettivo. Ognuno buttava giù qualcosa su cui aveva il desiderio di lavorare e a partire da questi dettagli, emersi dai luoghi o dalle storie che abbiamo ascoltato, abbiamo individuato una serie di elementi fondamentali su cui costruire il nostro gioco. Ci interessava la modalità in cui poter riconfigurare gli spazi, agendo nei luoghi e nell’immaginario delle persone. Volevamo sviluppare un gioco che fosse narrativo, un invito a creare altre storie. Ci sarà una volta in Riva… è il titolo del gioco che abbiamo pensato per il quartiere, un gioco di carte e di esplorazione, per disseminare micronarrazioni, e raccogliere le storie delle persone su un mondo futuro ipotetico.

ANNALISA: Nel nostro esercizio di progettazione di un gioco è stato molto utile l’incontro con Gabriele Ferri, che si occupa di progettazione del gioco e design speculativo, ovvero il costruire sistemi ludici che permettono alle persone di riflettere sul futuro, produrre oggetti finzionali, narrazioni diffuse, giochi di ruolo, che facciano pensare a quella che è la prospettiva futura della situazione attuale. Gabriele ci raccontava che molto spesso i suoi lavori sono rivolti a progettare oggetti che non funzionano ma che potranno funzionare in un futuro, oggetti di sorveglianza, oggetti legati alla divisione rigida in caste sociali, una progettazione di cose che oggi non servono, che probabilmente non saranno mai progettate, ma che ci servono a speculare sul futuro con una forte componente narrativa. L’idea interessante che è emersa è stata quella di sperimentare una dinamica all’interno della quale possano svilupparsi dei temi e venir fuori contrasti che sono magari latenti. Un’azione diversa dal nostro solito agire. Il gioco ti porta a scorgere delle dinamiche, esercitare la tua immaginazione, osservare delle cose o guardare ciò che vedi normalmente con altri occhi. Secondo me il gioco non deve risolvere niente. In questo forse il gioco, in modo silenzioso, ci fa entrare in un circolo di spostamento rispetto la quotidianità, i ruoli sociali e le interazioni delle persone che in qualche modo possono essere problematiche.

LudoCity. Designing a site specific game
Modulo residenziale a Cittadellarte, 15 – 19 Maggio 2017
MENTOR: Riccardo Fassone and Juan Sandoval (el puente_lab)
OSPITE: Gabriele Ferri
PARTECIPANTI: Paola Bommarito, Nicholas Ferrara, Melania Fusco, Sara Gallotto, Nicolò Molinari, Annalisa Zegna.

UNIDEE-Università delle Idee di Cittadellarte propone un modello educativo basato su “altre” modalità per fare esperienza dell’incontro tra teoria critica, attivismo e pratica artistica non secondo rapporti di subordinazione ma piuttosto attraverso livelli di interazione, scambi, interferenze reciproche. A Cittadellarte ogni settimana, all’interno di moduli laboratoriali e seminariali moderati sapientemente da un mentore con il supporto di un ospite, gruppi di partecipanti sempre diversi provenienti da ogni parte del mondo si confrontano in modo serrato sulle relazioni tra arte e sfera pubblica a partire da pratiche differenti e attraverso collegamenti tra varie discipline.

Direttrice e curatrice del programma: Cecilia Guida
Coordinatrice del programma: Clara Tosetti
Assistente del Direttore: Annalisa Zegna