Participation
Quarta parete A/R
di Daniele Villa/Sotterraneo

Ci piace l’idea che agli spettacoli del Sotterraneo uno partecipa. Cioè non va solo a vederli ma partecipa. Alcuni spettatori che ci conoscono da tempo fanno anche cose meschine come provare a sedersi nelle ultime file. Ingenui. Come se non calcolassimo questo fattore. Però anche “partecipazione”, come molte parole usate nel campo culturale, va depurata da qualsiasi infezione ideologica. Non pensiamo che uno spettacolo partecipativo sia migliore di uno contemplativo. E non sto ad analizzare i vari livelli a cui non lo pensiamo. Non lo pensiamo e basta. Chiarito questo, diciamo pure che l’idea di chiamare interventi diretti del pubblico durante gli spettacoli è nata in modo istintivo sin dalle prime produzioni, e ogni volta il pensiero che costruiamo attorno a un momento partecipativo è diverso, contestualizzato nei temi e nelle forme dello spettacolo.

Post-it (2007): un non-spettatore, ignaro di tutto, viene chiamato al telefono durante lo spettacolo e messo in viva-voce. Tutto il pubblico ascolta la sua risposta a una “semplicissima” domanda: che cos’è per te la Fine? Post-it era un lavoro sull’assenza, la scomparsa, l’occultamento, partiva da riflessioni sull’opera di Christo e Jeanne-Claude incrociate con i riti funebri e Pac-man (sì, Pac-man, il videogame anni ‘80). Insomma telefonavamo a qualcuno che non era presente per fargli una domanda coerente con le domande che si poneva lo spettacolo. La sua risposta veniva registrata nella segreteria telefonica, ascoltata a fine spettacolo con tutto il pubblico presente e poi cancellata per sempre.

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Teatro Sotterraneo, Post-it, 2007

Dies irae (2009) era un lavoro sulla testimonianza dei sopravvissuti in seguito a una catastrofe. Era diviso in 5 episodi e dopo ogni episodio un attore raccontava per filo e per segno cosa era accaduto “nell’episodio precedente”. All’inizio del quarto episodio veniva chiesto (imposto) a uno spettatore di farsi testimone e raccontare lui l’accaduto. La ricostruzione rivelava ciò che l’aveva colpito, ed era probabilmente diversa da quella di chiunque altro, incluse le cose che perdeva.

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Teatro Sotterraneo, Dies irae, 2009

BE NORMAL! (2013), uno spettacolo sulle strategie di sopravvivenza economica delle nuove generazioni. Tra i vari pezzi presentavamo anche una sorta di “conference” sul conflitto generazionale, esponevamo dei pannelli di Vecchi simbolici (dalla Regina Elisabetta a Paperon de’ Paperoni) e invitavamo una selezione di spettatori “giovani” ad abbatterli con delle palle di colore nero consegnate durante la stessa conference. Un gioco maledettamente serio, come piace a noi, perché mentre ti diverti, attui una guerriglia simbolica alla quale chi viene coinvolto aderisce pienamente – e la cosa di solito era più che evidente.

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Teatro Sotterraneo, BE NORMAL!, 2013

WAR NOW! (2014), uno spettacolo su un’ipotetica Terza Guerra Mondiale. Organizziamo un summit internazionale, otto spettatori vengono prelevati dalla platea e posti a un tavolo con le bandiere di otto superpotenze. Sono invitati a parlare e negoziare una sospensione del conflitto, ma di fatto è una trappola in cui a manifestarsi è l’impotenza e l’inadeguatezza e intanto dietro di loro si alzano le nebbie nucleari.

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Teatro Sotterraneo, WAR NOW!, 2014

Questi sono alcuni esempi di come non riusciamo a lasciare in pace lo spettatore. Che è poi un modo di dire perfettamente calzante: bisognerebbe forse andare a teatro per essere lasciati in pace?

La spinta nasce da questo semplicissimo assunto: è ormai chiaro a tutti che la quarta parete non esiste e che attraversarla continuamente è una strategia teatrale piena di possibilità. Noi proprio non riusciamo a far finta di nulla all’idea che abbiamo 100-200-300 persone davanti, si tratta di una risorsa primaria troppo fertile per trascurarla. Prendere lo spettatore, braccarlo, interrogarlo, metterlo al centro della drammaturgia, puntargli una luce, offrirgli un microfono sono tutti modi per confrontarci con questa presenza davanti a ciò che facciamo, ed è di fatto la manifestazione in carne e ossa di quello che consideriamo un’opera aperta, cioè qualcosa che può essere interpretato e di cui ci si appropria personalmente, qualcosa che si completa in rivoli e rivoli nei processi emotivi e mentali di chi guarda. L’opera viene influenzata e completata dagli interventi e lo spettatore viene invaso dall’opera: in fondo è un modo per teatralizzare un flusso che ci sarebbe comunque ma che così facendo si materializza.

E tutto ciò si basa a sua volta su un presupposto che per noi è abbastanza chiaro e decisivo per rendere sostenibile una relazione teatrale oggi: chi si siede in platea è intelligente e colto quanto chi sta sul palco – o almeno è chiamato a esserlo – non c’è più alcun presupposto pedagogico, c’è piuttosto un contratto fra saperi e punti di vista che nello spaziotempo di un spettacolo mettono sotto la lente d’ingrandimento il nostro tempo e le sue contraddizioni. Questo fa del teatro un esercizio di cittadinanza e un gesto quotidiano di cultura all’altezza dell’anno 2016, e a questo si applica perfettamente il bellissimo diktat che introduce alcuni spettacoli di Roger Bernat1, cui lo rubiamo per chiudere questo pezzo: “audience is not allowed”.

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Autore e regista teatrale catalano che lavora sistematicamente sulla messa al centro del pubblico.

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immagine di copertina:
Teatro Sotterraneo, Dies irae. 5 episodi attorno alla fine della specie, 2009

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Sotterraneo è un collettivo di ricerca teatrale, nato a Firenze nel 2005. Le produzioni del gruppo replicano in diversi dei più importanti festival e teatri nazionali e internazionali, ricevendo negli anni numerosi riconoscimenti tra cui Premio Lo Straniero, Premio Speciale Ubu, BeFestival First Prize. Sotterraneo fa parte del progetto Fies Factory curato da Centrale Fies e ha residenza artistica presso l’Associazione Teatrale Pistoiese.