CENSORSHIP
“Senti dire che tu vivi altrove. altrove non è affatto un brutto posto: è soltanto altrove”. Suggestioni intorno ad una lista dimenticata di irrecuperabili aspetti del sè
di Lara Carbonara
Otranto. L’approdo, la motovedetta albanese Kater I Rades diventa un’opera dello scultore greco Costas Varostos.
L’opera è un monumento all’umanità migrante del mediterraneo.
Le Immagini tratte dal quotidiano online del Salento Il tacco d’Italia.
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“Non esiste alcun documento di civiltà che non sia allo stesso tempo un documento di barbarie” (W.Benjamin)

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“Non c’è nazione che mi reclami,
la banlieue è un frastuono di dune”
Samira Negrouche
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Il 29 gennaio 2012 la Kater I Rades, la motovedetta albanese speronata  dalla corvetta Sibilla della Marina Militare Italiana il 28 marzo del 1997,  diventa un monumento all’assenza.
81 persone annegano in quella che rimarrà nella memoria la ‘Strage del Venerdì Santo’; i loro fantasmi rimangono arenati (e dimenticati per anni) nell’erba alta dell’ex caserma della Marina, a Brindisi, finchè  l’Istituto di Culture Mediterranee della Provincia decide di trasformare la Karter in “un monumento per tutti i migranti morti in mare”. È lo scultore greco Costas Varotsos che modellerà la ruggine con il vetro, ricoprendo l’imbarcazione di tutta l’acqua che quel venerdì sera esplose su di essa.
La scultura è una ferita che ricuce la privazione da una parte, la colpa dall’altra; “l’approdo” di corpi che si sono fermati in acqua, hanno smesso di seguire la loro rotta, sono stati inghiottiti lamina contro lamina, dall’urto del potere occidentale,  dalla violenza del ‘regime di verità’ colonialista. Lastre di vetro si sovrappongono come onde impietose; l’acqua, membrana amniotica, smontata, ricomposta e manipolata diventa culla e tomba, attaccamento e trappola.
Costas Varotsos non ha semplicemente reso la carcassa memoria, ma ha proposto una punteggiatura dei respiri, delle conversazioni, delle attese, ­ della  paura dei migranti contenuti in essa, ha levigato una interpretazione che riflette la testimonianza, rendendo il battello un ventre abitato dai corpi che ora identificano l’acqua come luogo di origine e di ritorno.
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Mi chiedi cosa voglio dire
quando dico che ho perso la lingua.
Ti chiedo che faresti tu se avessi in bocca due lingue,
e  perdessi la prima, la madrelingua,
mentre l’altra, la straniera,
fosse ancora sconosciuta
Sujata Bhatt
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Nel saggio A Map to the Door of No Return, la scrittrice isolana, anglofona e caraibica Dionne Brand, racconta i suoi rapporti adolescenziali di appartenenza alla ‘razza’ e i suoi differimenti affettivi per i (perduti) legami nativi. L’autrice, con gli occhi da ragazza vede come un ‘tradimento’ il fatto che suo nonno non riesca a ricordare il nome della terra di provenienza e si convince che questa condizione di dimenticanza sia uno strappo nella mappatura della propria geo-(bio)-grafia, un’interrogazione dispersa e smembrata dalla rottura dei punti di riferimento.
Il nome, la terra, l’origine, il punto di partenza, l’approdo: l’inglese, un’altra lingua accanto a quella d’origine, il luogo in cui tutte le lingue sono state dimenticate, il piedistallo senza pelle, perché scorticato dall’anonimato coloniale, esaltato nel suo altissimo potere dell’estraniazione. Dionne Brand scrive in inglese, emarginando ciò che rimane tra le righe, tuttavia senza perdersi e senza smettere di cercare una strada, anzi inventando una nuova figura della soggettività, libera e prigioniera insieme, naufragata e restituita, ingoiata e sputata. Scrivere e raccontare diventa il suo rifugio per ricostruire un passaggio sull’acqua, ripercorrere con la “carovana del pensiero”(Iain Chambers) lo slittamento dell’esilio, a bordo dei continenti.

“Avevi la sensazione che un essere andasse cancellato e un altro essere andasse coltivato” (D.B): è il cuore di tenebra che diventa porta di silenzio, di annegamento, di oblio, di prigionia, di catene. L’opprimente forza della (ri)nominazione penetra come urgenza e necessità nella terra materna – la Matria –  immaginata come una resistenza senza tempo. Il corpo ‘nero’ custodito in  zigomi caraibici rifugge la segregazione quotidiana trasformandosi in quell’unica domanda che Henry Louis Gates pone all’improvviso ad un uomo ghanese. “Perché ci avete venduto?”.
Intatti. Ostinati. Assoluti, Muti. I ‘senza ritorno’ sono corpi di carne e sangue senza confini. Un indagare che pone l’autrice di fronte al gioco del riconoscimento: non tanto parole quanto tracce; non solo segni geografici, quanto percorsi; non solo questioni identitarie, quanto razziali. La mappatura della scrittrice ritorna insistentemente sull’immaginazione come nascondiglio delle tante se stesse che la abitano. La sua memoria occupata dalla demonizzazione imperialista, si svuota  del colore della pelle e si reinventa reagendo alla propria cancellazione. Il dis-locamento di Dionne Brand entra in un disperato tentativo di iscrizione di un percorso, una mappa qualsiasi, che la faccia riappropriare di una nuova unicità. Una mappa, che lei stessa definisce “una vita di conversazioni, intorno ad una lista dimenticata di irrecuperabili aspetti di sé”. Sono i suoi tanti io che la Brand recupera con il tentativo di ricostruzione, consapevole che il passaggio coloniale dell’acqua non ha significato libertà e che la ‘voce della subalterna’ ha bisogno del corpo per essere codificata.
La (mia) suggestione insiste sull’idea del corpo come grafia dell’attivismo:  il personaggio femminile di Mahasweta Devi, Douloti, testimonianza di ribellione e rivendicazione, corpo che si riappropria della sua nazione, adagiandosi morente sulla mappa dell’India, riempiendo l’intera penisola “dagli oceani all’Himalaya” e interrompendo il sogno dell’Utopia nazionalistica: “Che cosa farà ora Mohan? Douloti è dappertutto in India”. Dunque la lingua su cui si (i)scrive la traccia dell’oppressione è la stessa lingua – e lo stesso corpo-  che (in)scrive lo spazio della sopravvivenza, come il ciliegio conficcato sulla schiena di Shete, o come il corpo/metamorfosi  delle donne di  Parsipur Shahrnush, o come i teschi ricorrenti nei sogni dolorosi di Jacob Beer – “penso ai detriti portati a riva sulla spiaggia di ghiaia sotto di noi, solo che non è legno, ma sono le loro lunghe ossa, le loro ossa curve portate dalla marea. Solo i teschi restano in mare. Troppo pesanti, si posano sul fondo; sul fondo dell’oceano c’è una città di cupole bianche” (Anne Michaels, In fuga)
L’astrazione dei migranti avviene sulla pelle, e Dionne Brand ne decifra  le nuove radici: ogni viaggio si imprime sul corpo e ogni origine si re-inscrive nell’acqua, lo stato liquido del non ritorno, della perdita della lingua materna, dello sguardo che non prende, ma riceve, del passo che non arriva ma approda, di un’esistenza che non è un esilio ma una mappatura.
“Uno viaggia. Uno si considera integro”.
Dionne Brand vive su di sé la mancanza di quella integrità,  ( wholeness ) dislocata nel ‘ritorno del represso’, e sperimenta in prima persona l’impazzire dei frutti puri che il dottor W.Carlos Williams ritrova nel corpo/attrazione/repulsione di Elsie; la scrittrice non essendo più ‘pura’ deve spostare la prospettiva, sa che non può più cercare la strada del ritorno, piuttosto deve tenerne conto, che non può più ostinarsi nel ricordare la purezza, piuttosto deve ri-collocarsi in un nuovo margine di naufragio, in un rinnovato approdo dei corpi politici privati di alternative concepibili, l’acqua, la promessa di una auto-interpretazione ri-posizionata.
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Gli uomini perdono le proprie tracce. Sentono la mancanza
della madre e del padre e della sorella. Non sanno portarsi
la casa dentro di sè…. Devi saperlo fare.
(Abu-Jaber)
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Guardo la nave ri-abitata di Varotsos, leggo l’elaborazione delle coordinate di Dionne Brand, in questo “archivio fluido’’ (Iain Chambers) che occupa memoria, lingua e corpo, mi viene in mente la scultura di Mimmo Paladino, in Sicilia, la porta di Lampedusa per i corpi nomadi del Mediterraneo. E poi penso, che tutto questo “ventriloquismo razziale” (Carla Kaplan), questo fascino di abitare l’altro, il migrante, articolare la sua voce, rubare la sua coscienza, modulare i suoi ritmi,  decidere le sue rotte e cancellare il suo ritorno,  sia causa ed effetto piuttosto di  una ‘smemoratezza’ patteggiata con queste inutili quanto patetiche  ‘offerte’ di memoria ai suoi morti.
Ciò che non si riuscirà mai a dimenticare sono i corpi – dei vivi – piegati da un destino politico che è ancora retaggio coloniale, e le voci mute dei subalterni isolati, delle conversazioni costruite intorno alla lista degli oggetti smarriti del sé. O di quelli conservati in fondo all’Atlantico nero.

…con ogni onda un’altra parte è risospinta indietro,
reclamata ancora, di nuovo, dalla spiaggia. Non vi è cosa
al mondo che quel piccolo tratto di sabbia conosca meglio
delle bianche onde che lo percuotono, lo accarezzano, vi
si infrangono, vi scompaiono. Non vi è cosa al mondo che
la bianca schiuma conosca meglio di quella sabbia che la
aspetta, le si offre e la risucchia. Ma cosa ne sanno, le onde,
delle sabbie ammassate, bollenti e immobili del deserto a
soli venti, no, dieci metri dalla costa merlata? E la spiaggia:
cosa ne sa delle profondità, il freddo, le correnti proprio lì –
lo vedi? – lì dove il mare si fa di un blu più scuro.
(Ahdaf Soueif)
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Lara Carbonara è dottoranda in Teoria del Linguaggio e Scienze dei Segni (Università degli Studi di Bari Aldo Moro). Si occupa di studi culturali, visuali e postcoloniali focalizzando la sua ricerca  in ambito letterario-artistico. è  direttrice di una rivista on-line, ArtSOB Magazine che indaga i campi dell’arte contemporanea;  è una curatrice free lance ed ha diverse collaborazioni.