SPECIALE 55ma BIENNALE DI VENEZIA
La memoria in scala 1:1 When attitudes became form alla Fondazione Prada a Venezia
di Viviana Gravano

La Biennale di Venezia si presenta sempre con una doppia anima: le corderie da sempre lo specchio della visione del curatore e i Giardini e con la loro obsoleta divisione nazionale e nazionalista. I padiglioni però, specie grazie a quelli esterni detti senza sede, finiscono sempre per avere una sorta di autonomia, costruiscono una costellazione di visioni che seppure in linea con il tema generale, riescono a inventare declinazioni diverse. Quest’anno, questa dicotomia, ha trovato un terzo polo molto significativo nella mostra alla Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina When attitudes became form, a cura di Germano Celant in dialogo con l’architetto Rem Koolas e l’artista Thomas Demand, re-enactment della omonima mostra del 1969 curata da Harald Szeeman alla Kunsthalle di Berna.  Vorrei quindi porre a confronto quanto é stato presentato a Ca’ Corner della Regina e la mostra originale di Berna inserendo però in questa discussione anche un altro re-enactement realizzato esattamente un anno prima al CCA Wattis Institute for Contemporary Arts a San Francisco da Jens Hoffmann, con il titolo leggermente ma significativamente variato rispetto all’originale, When attitudes became form became attitudes. A restoration – a remake- a rejuvenation – a rebellion.1

Vorrei partire dal testo che Harald Szeeman scrive per presentare la sua mostra a Berna nel 1969 facendo notare che il titolo completo allora era Live in your head. When attitudes became forms (works-concepts-processes-situations-informations). La prima parte del titolo ‘live in your head’ é sparita molto rapidamente anche nella citazione della mostra originale di Szeeman, ma al contrario il sottotitolo che recita appunto ‘lavori-concetti-processi-situazioni-informazioni’ resta forse la parte essenziale del concept del curatore che in più parti nel suo testo introduttivo ne riconferma l’importanza. “Opere, concetti, processi, situazioni, informazioni (ho deliberatamente evitato le espressioni oggetto e esperimento) sono le “forme” in cui questi atteggiamenti artistici hanno trovato espressione. Sono “forme” che non sono nate da opinioni figurative preconcette ma da un evento del processo artistico. Questo detta anche le scelte del materiale e la forma dell’opera come prolungamenti dell’opera. Quest’opera può essere privata e intima o pubblica e espansiva. Mentre rimane sempre il processo essenziale, allo stesso tempo “scrittura e stile”. Quindi il significato di quest’arte é che una generazione di artisti si impegna a far diventare la “natura dell’arte e degli artisti” “forma” nel processo naturale”.2 Un primo dato essenziale emerge dal testo originale di Szeeman: la mostra presenta quegli artisti che a fine anni sessanta stanno facendo del processo la loro vera prima materia di riflessione e di creazione. L’oggetto artistico non scompare, non si parla ancora di arte puramente performativa, di sola azione, di sola attitudine concettuale o relazionale, ma ciò che unisce il gruppo di artisti scelti da Szeeman, con una selezione curatoriale forte e chiara, é l’attitudine a dare forma al processo, cioè a fare in modo che questo resti come traccia evidente all’interno dell’opera finita. Siamo negli anni in cui la processualitá ha strettamente a che vedere con il senso e la necessità dell’agire, dell’azione politica, non a caso la mostra a Berna si inaugura nel 1969 cioè un anno dopo che l’Europa é stata attraversata dalle ‘rivoluzioni’ del 1968. Occorre forse fare una piccola cronologia di quegli anni per capire come questa attitudine all’azione stesse allora divenendo il vero DNA di una nuova ‘generazione’ che ha poi preso diverse vie nel tempo. Nel 1967 lo stesso Germano Celant cura alla Galleria la Bertesca di Genova e poi nel 1968 alla galleria de’ Foscherari a Bologna una importante mostra sulla nascente Arte Povera. Ma la vera rivoluzione si compie un anno dopo nella storica mostra dal significativo titolo Arte+Azioni Povere che si svolge alle corderie dell’arsenale di Amalfi ancora per la cura di Celant ma con il fondamentale contributo dei due giovanissimi Marcello e Lia Rumma. In quella occasione il valore dell’azione, l’eventualitá delle opere acquistano un significato eccezionale. Basti ricordare che Anselmo, Boetti, Piacentino, Fabro, Paolini, Merz, Pistoletto, Zorio realizzano le loro opere in presenza del pubblico, creano cioè una prima e fondamentale condivisione del processo creativo che diviene esso stesso ‘oggetto’ esposto. Occorre dire che nel 2011 Germano Celant ha curato in diverse sedi in Italia3 un ciclo di mostre per celebrare il movimento da lui stesso nominato Arte Povera. Nella tappa napoletana nella sede del Museo MADRE chiesa Donnaregina Vecchia, si é rimessa in atto la sopra citata Arte povera + Azioni povere 1968 di Amalfi. Quello che colpisce é che nonostante le promesse anche in quella occasione la mostra ha privilegiato nettamente la presenza delle opere materiali a totale danno della documentazione delle azioni che avevano un’amplissima e significativa documentazione allora raccolta da Lia e Marcello Rumma.

Fatta questa premessa torniamo a Venezia e iniziamo a vedere come il re-enactment della mostra di Szeeman é stato messo in opera. Nel comunicato stampa della Fondazione Prada si parla di una mostra curata da Germano Celant’in dialogo con Rem Koolas e Thomas Demand, un architetto e teorico, e un arista che normalmente lavora sul confine labile tra finzione e realtà cronachistica. Senza dubbio l’idea di ‘in dialogo é una delle cose che più mi ha colpito spingendomi a cercare di capire in che modo fosse stato attivato il loro contributo e cosa si intendesse per ‘dialogo’. Nel materiale fornito dal press office compaiono due interessanti documenti intitolati rispettivamente Dialogo tra Germano Celant e Rem Koolhaas e Dialogo tra Germano Celant e Thomas Demand4. Dal primo dialogo si evince subito quale sia stata la scelta dei tre dialoganti nell’allestimento della mostra: riportare in scala 1:1 esattamente come era la mostra di Szeeman nella Kunstahalle di Berna nelle sale di Ca’ Corner, prendendo la mostra originale come una scatola da reinserire esattamente nel nuovo spazio veneziano. Nel dialogo con Koolas si parla proprio del processo con cui questa operazione è stata fatta: sovrapponendo fisicamente una stampa della pianta stampata su lucido trasparente della mostra bernese alla mappa della Fondazione Prada veneziana. All’inizio del colloquio Celant nella prima domanda a Koolas dice: “Sovrapporre gli spazi di Berna a quelli settecenteschi di Ca’ Corner della Regina implica uno strappo sia architettonico sia temporale. Un sensazionale, spettacolare innesto in cui due scenari s’intrecciano in un terzo contenitore spaziale e temporale.” La risposta di Koolas prende subito le distanze dai termini ‘sensazionale’ e ‘spettacolare’ e anzi propone un’idea che mi sembra quanto mai lontana dalle iniziali intenzioni teoriche e concettuali di Szeeman. Propone cioè che l’operazione di re-enactment del 2013 parta da una visione archeologica che, come Koolas scrive: “Era come se questo progetto fosse un’archeologia che l’osservatore dovesse svelare.” Già in questa prima brevissima tranche di discorso appare davvero incredibile come non si sia tenuta in considerazione il fatto che la mostra di Berna del 1969 esaltava la processualitá e non l’oggetto, quindi l’attuale possibile ‘reperto’ del tempo. Szeeman aveva la chiara intenzione di enfatizzare anche negli ‘oggetti’ proposti una processualitá che non a caso fu esalata anche nello stesso allestimento realizzato per lo più a terra, senza barriere tra un’opera e l’altra, con un senso quasi di confusione, con una chiara sensazione che lo spettatore fosse chiamato non a guardare frontalmente le opere ma ad iniziare un percorso arduo, personale a tratti persino ‘pericoloso’ per l’incolumità delle opere, perché il fruitore stava divenendo attore, così come lo era stato nelle azioni povere di Amalfi. Tanto più mi appare inaccettabile un simile atteggiamento che arriva da Celant che allora, ad Amalfi, certo con il fondamentale contributo di Lia e Marcello Rumma, mise in atto una vera e propria rivoluzione della fruizione. Poco più avanti nel dialogo Koolas cita il senso di rispetto e fedeltà invocato dallo stesso Celant e da Demand rispetto alla mostra originale. E di nuovo viene messa in gioco un’idea di ‘originale’ in contraddizione con la visione fluida ed eventuale della curatela di Szeeman. Non esiste una versione originale di When attitudes became form perché allora Szeeman non creò una mostra ma mise in atto un processo, non assemblò opere che venivano dalla Land Art, dalla Conceptual Art, dalla Minimal e dall’Arte Povera ma innescò un processo critico rispetto al ruolo che il processo stesso aveva in tutte queste possibili declinazioni dell’arte di vera avanguardia di quegli anni. Koolas e Celant parlano di ‘set’ per spiegare la loro ricostruzione della mostra. Un set é il luogo fisico della messa in scena di un evento, potremmo provare a paragonare questa visione con l’idea proposta da Jeff Wall nella cosiddetta staged photography. Ora gli attori e gli scenari di una fiction negoziano il ricordo attraverso la variazione nell’oggi, rendono attuale nel più puro senso benjaminiano un accaduto che non viene ricostruito di per sé ma rimesso in atto, in gioco, criticizzato attraverso i suoi punti di rottura, le sue cadute, i suoi innesti e le sue somiglianze con allora. Nell’idea di Koolas e Celant tutto questo si realizza nella sovrapposizione dell’edificio del 1918 di Berna con la ben più antica settecentesca decorazione di Ca’ Corner alla presenza delle opere. Un’operazione di decor. Una monumentalizzazione dello spazio a totale danno del concetto e delle dinamiche che le opere disvelavano a Berna, e che ora appaiono come appunto ‘reperti’, cioè frammenti che non chiedono una ricostruzione critica ma solo una museificazione e, diciamolo, una ennesima consacrazione di mercato. Solo alla fine del dialogo Koolas – Celant si fa cenno alla ‘relazione’ che é invece il cardine del lavoro di Szeeman non solo a Berna, ma nella seguente Documenta di Kassel e alla Biennale da lui curate. E dove l’architetto e il curatore trovano la relazione nell’operazione veneziana? Nel contenitore. Cioè la relazione si esplica nel rapporto tra lo spazio complesso di Ca’ Corner e lo spazio lineare della mostra di Berna. Verso la fine del dialogo Celant cita Warburg dicendo: “Da un punto di vista curatoriale, l’incontro “impossibile” tra un edificio svizzero del 1918 e un palazzo veneziano del Settecento è un tentativo di far conoscere la relazione tra le cose nella storia dell’arte. È come mostrare al pubblico una mappa di queste relazioni in un dato momento storico; in qualche modo simile a quelle di Aby Warburg, sebbene quelle fossero basate su enormi salti linguistici e storici.” Mi sembra che Celant arrivi paradossalmente a una conclusione che contraddice la stessa operazione. La costruzione di un edificio in un altro non ha nulla che vedere con il mettere in relazione una modalità, un approccio, una attitudine appunto con la sua possibile rilettura nell’oggi. Se vogliamo restare in ambito warburghiano, che credo si prestasse perfettamente alle scelte di Szeeman del 1969, in quella occasione ciò di cui si faceva ‘mostra’ era proprio la Pathosformel citata da Warburg, cioè la riflessione su un gesto citabile ripetuto, riemergente nell’arte intesa come azione. Ciò che Warburg insieme poi a Benjamin non considerano é proprio la citazione pedissequa, l’idea dell’emulazione formale mimetica, la riproduzione intesa come “neo” qualcosa. Ciò che ancora oggi colpisce leggendo Szeeman, che sia per la mostra di Berna del 1969 o per i seguenti testi per Kassel o Venezia, é proprio questo interesse per un’arte che cercasse una Pathosformel cioè una ‘citazione’ del gesto inteso come emersione improvvisa, come traccia di un processo bloccato per un attimo per essere percepito e trasmesso. Ciò che restituisce di questo la mostra di Venezia del 2013 é un cimitero dell’azione, una massa immobile di opere processuali divenute oggetti che si guardano stupiti inseriti in un contenitore a scatole cinesi.

Venendo al dialogo con Thomas Demand alla domanda di Celant sulla scelta di omettere la ricostruzione anche del soffitto della Kunsthalle a Venezia, Denand precisa: “La Kunsthalle è il luogo ma non il motivo di questa operazione, e alla fine, per quanto liberatorio potrebbe essere, porre la concentrazione nell’interezza della realizzazione significherebbe di fatto fraintendere le preoccupazioni curatoriali di Szeemann. In mostra dovrebbe esserci ciò che basta per stimolare l’immaginazione, perché inseguire un ideale di completezza, includendo i soffitti per esempio, vorrebbe dire spingersi troppo lontano.” Ora di nuovo mi sembra che la dichiarazione sia in netta contraddizione con la realizzazione. La completa riproposizione dello spazio della Kunstahalle a Ca’ Corner non solo é un chiarissimo intento dichiarato più e più volte da Celant e Koolas nell’altro dialogo, ma é anche un assoluto dato di fatto andando a vedere la mostra. Per altro la non copertura della scatola inserita nelle sale di Venezia appare quanto mai un ovvio omaggio alla bellezza dell’edificio veneziano che altrimenti non avrebbe potuto aprire quel dialogo tanto osannato dagli stesso allestitori/curatori tra spazio bernese e veneziano. Demand solleva tra le righe un dubbio che io invece vorrei esprimere in maniera chiara: in che misura e in che modo la ricostruzione pedissequa di una mostra del passato, per altro totalmente basata sulla relazionalità con il contesto sociale e culturale del tempo e con la processualità delle opere esposte, ci restituisce quella stessa mostra nell’oggi? Demand parla a un certo punto del rischio di “disneylandizzazione” dell’operazione, dove credo sia malcelato un certo timore di intendere il re-enactement come una sorta di processo di monumentalizzazione, cioè come la pietrificazione di un evento nel suo “così é stato” che per altro come sempre non finisce per rendere l’eventualitá e la precarietà discontinua di un’espansione, ma una sorta di resa a posteriori che ne ricalca solo il profilo formale. Credo a questo punto sia essenziale leggere in parte cose dice il curatore Germano Celant nel suo saggio di introduzione. In apertura il testo specifica il ruolo del curatore riferendolo a se stesso in quanto curatore della mostra a Venezia e nello stesso tempo sottende un riferimento a Szeeeman come curatore di Berna. “La stesura di un testo teorico e storico riflette come in uno specchio la prospettiva dell’autore e ricalca il suo percorso di narratore dei fatti vissuti e trattati. È il ritratto di uno storyteller che lascia dietro di sé un’orma o una traccia interpretativa e filosofica del proprio esperire, che arricchisce al tempo stesso la storia della sua vita in quanto persona ed intellettuale. Lascia dietro di sé i tasselli che compongono la sua “figura” di interprete e di narratore che partecipa agli eventi e li analizza. Avvera un percorso che definisce la sua unicità, mentre cerca di definirne un’altra. In tal senso la constatazione di poter narrare, attraverso la Fondazione Prada, l’importanza della mostra “Live in Your Head. When Attitudes Become Form”  curata nel 1969 da Harald Szeemann alla Kunstalle Bern, risulta possibile sia in quanto esperienza della nostra memoria e della nostra presenza a quell’evento, sia per la consapevolezza che tale mostra appartiene alla storia ed è un documento fondante di un formarsi aperto sull’esperienza e la conoscenza dell’arte contemporanea. Un’osmosi tra storia di vita e di idee che si è attuata attraverso un nuovo dialogo tra il curatore e gli artisti.” Almeno due passaggi mi sembrano essenziali: il primo la sottolineatura che un curatore é uno storyteller e nel raccontare gli “altri” definisce la sua stessa figura; il secondo che esplicita che la mostra del 1969 ha stabilito una nuova modalità di dialogo tra curatore e artisti. Ora se torniamo solo per un secondo al dialogo con Demand in una delle domande Celant dice chiaramente che lui sarebbe d’accordo che qualcuno rifacesse una sua mostra storica solo a patto che questa venga ricostruita senza variazioni. L’operazione a Fondazione Prada è esattamente questo, quindi é la posizione che Celant ha e dichiara rispetto a una mostra storica che lui ritiene evidentemente fondamentale e rispetta, ma che ricostruisce solo attraverso una pedissequa riproposizione di questa da un punto di vista materiale e allestitivo.  Dunque il dubbio che mi assale che in questo caso la figura del curatore che emerge non é quella di Szeemal a cui si dice di voler rendere omaggio, visto che poco dopo si specifica, come di fatto é stato nel 1969, che il senso di quella mostra non era nella presentazione materiale delle opere ma nella diversa processualità che queste hanno messo in atto tra curatore e artista. Una processualità a mio modo di vedere irripetibile usando strumenti mimetici formali visto che la sua ‘eccezionalità’ é stata e resta proprio nella capacità continua di Szeeman di farsi negoziatore in quel contesto tra opere, intese anche come oggetti, artisti, pubblico, spazio e lui stesso come curatore. Ciò che Celant, Koolas e Demand hanno fatto a Venezia é stato solo rimettere in scena un solo piccolo vettore di quella complessa macchina relazionale: lo spazio.

Poco oltre ancora nel saggio di Celant, di nuovo a mio modo di vedere in totale contraddizione tra l’enunciato e l’analisi e poi la realizzazione si legge: “È un avvenimento che sempre più ha raggiunto la dimensione postuma di un mito a cui le immagini fotografiche e l’immaginario artistico hanno eretto un monumento, mentre all’epoca la percezione era profondamente legata ad una vitalità scatenante e liberatoria, basata su interventi effimeri e fluidi. Tale dicotomia tra ricordo ed esperienza è stimolo per affrontare il reenactment di quell’evento in quanto intreccio tra il vitalismo delle proposizioni estetiche e comportamentali degli artisti e la loro identità: una pluralità di cose e di persone che sono state coinvolte nell’operazione per la creazione di un nuovo immaginario espositivo ed artistico che si afferma a partire da quel momento.” Si parla della monumentalizzazione della mostra a Berna, della creazione di un vero e proprio mito intorno ad essa nel tempo e della difficoltà di rappresentare invece il fluido vitalismo che era sotteso a quell’evento a suo tempo. Ora la monumentalizzazione e la creazione del mito sono caratterizzate proprio dall’immobilismo, dalla sovrapposizione di un’immagine unica e immutabile su una memoria mutevole, naturalmente soggettiva e esperienziale. Ogni monumento é un calco di pietra di una sola visione, ogni mitizzazione é un vestito rigido e costrittivo sull’identità fluida che rappresenta. Come si può dunque immaginare che per sciogliere quel mito, per non pietrificarne la memoria storica, l’operazione migliore é farne una copia ‘fedele’, é marmorizzare il suo aspetto in maniera da restituirlo esattamente ‘come era’ con fedeltà e rispetto. L’attualizzazione richiede il coraggio del non rispettabile, richiede gesti di tradimento e di infedeltà, altrimenti gioca un ruolo conservatore che non attiva ma imbalsama i processi. Se come lo stesso Celant dice chiaramente Berna fu prima di tutto un evento relazionale, ci assalgono due domande: perché rimetterlo in scena e poi, una volta scelto di farlo, perché non cogliere il senso, la dinamica, la procedura, il processo invece di trasportarlo come un ‘reperto’ archeologico appunto da conservare intatto e chiudere in una splendida bacheca museale come Ca’ Corner della Regina? Credo che la risposta a questa domanda sia ancora nel chiaro testo di Celant che dopo aver spiegato come Szeeman abbia in qualche modo inventato la nuova figura del curatore dopo gli anni sessanta scrive: “C’è tuttavia un aspetto cruciale nel desiderio di rifare e rivisitare: oltre al riportare all’attenzione in maniera concreta ed esperibile un momento della storia dell’arte e della sua presentazione, il remake è sia omaggio rivolto a Szeemann sia un investimento auto-referenziale, se non autobiografico, a una situazione che si è personalmente condivisa. E seppur la velocità vertiginosa che ha travolto il mercato – e il consumo – dell’oggetto artistico ha reso obsoleto e ha logorato il valore di tale esperimento, rimane l’illusione di un nuovo modo di intendere la produzione artistica e il suo display fluido e caotico. Il mito di una gestione condivisa e complice, non populistica né burocratica, della promozione e della diffusione dell’arte”. La mostra di Ca’ Corner é l’omaggio di Celant a Szeeman. Il posizionamento di Celant é dichiarato e fondamentale e questo mi sembra il dato più positivo di tutta l’operazione a Fondazione Prada. Il curatore attuale denuncia che la ricostruzione di quella mostra é una sorta di storicizzando del suo stesso percorso. Ciò che però mi appare davvero significativo é che Celant dichiara fallito quel tentativo di stare ‘fuori’ dal mercato di quella mostra e di quegli artisti in quegli anni, o meglio il loro tentativo di non sottomettere tutte le proprie scelte ad un mercato sempre più invadente. Celant parla della nuova relazione artista/curatore proposta da Szeeman come un ‘mito’ cioè come qualcosa di passato a cui guardare magari con malinconia e nostalgia, ma non più presente. Certo la mostra della Fondazione Prada mette perfettamente in scena questa sconfitta mostrando non When the attitudes became form ma le opere, ora proprietà di grandi collezioni pubbliche e private, che allora furono esposte alla mostra. La mostra di Venezia non parla affatto della relazione che quelle opere ebbero con gli artisti, con lo spazio, con il curatore e con il loro tempo subito fuori delle porte della Kunsthalle di Berna. La mostra a Ca’ Corner converte in ‘mercato’ una mostra che aveva rotto quel triangolo che Szeeman stesso aveva definito ‘atelier-galleria-museo” nel suo testo introduttivo del 1969.

In conclusione vorrei solo citare una mostra cui facevo cenno all’inizio curata da Jens Hoffmann a San Francisco nel 2012 ancora ispirata alla mostra di Szeeman a Berna. Come dicevo l’esposizione americana ha il titolo When attitudes became form became attitudes che si pone già nel titolo nell’ottica non di ricostruire la mostra materialmente ma semmai di fare proprio il criterio con il quale fu messa in opera. Non mi interessa in questa sede dare un giudizio sulla mostra di Hoffmann, né tanto meno sulla sua scelta curatoriale degli artisti invitati, mi sembra invece molto interessante l’approccio che il curatore ha avuto davanti a questa mostra ‘mitica’. Un approccio laico e demitizzante, una visione di vera riappropriazione che prevede un posizionamento chiaro e deciso, una forma di re-enactment che respinge qualsiasi possibile mimetismo e al contrario divide in due parti la nuova ‘versione’ di quell’evento. Da un lato la documentazione originale – fotografie, testi, una moquette dello spazio a Berna, video – dall’altra una mostra curata da Hoffmann con tutti artisti giovani di oggi che, con un processo condiviso con il curatore, esattamente come fu per Szeeman, rimettono in scena non le opere ma le relazioni, non gli spazi ma i processi senza nessuna volontà di ricostruzione ma solo semmai di evocare attraverso una nuova esperienza solo empatica con il passato e non ossequiosa. Il catalogo di San Francisco riporta un colloquio tra Jens Hoffmann e Harald Szeeman registrato nell’istituto italiano di Cultura a Berlino il 21 aprile del 2001 mentre Szeeman curava la Biennale di Venezia. In tutta la prima parte del colloquio Hoffman chiede a Szeeman come é stata la sua formazione e che influenza ha avuto sul suo futuro di curatore la sua iniziale esperienza di uomo di teatro. Szeeman parla della sua visione di curatore e di una possibile vicinanza con il ruolo del regista, ma ripropone sempre l’idea che il fatto essenziale di quegli anni sessanta in cui lui ha lavorato era la relazione con gli artisti e il continuo processo di scambio. Quasi alla fine del dialogo, quando Hoffmann gli chiede di specificare meglio che vuol dire essere un ‘narratore’ di storie Szeeman risponde: “Ognuno può prendersi il proprio spazio, ma tutti questi insieme devono formare una unità che propone qualcosa di nuovo”. In queste sue parole il senso di When attitudes became form” nel 1969: la costruzione di una nuova visione dettata dalla relazione negoziata e fluida tra gli spazi di tutti, curatore compreso. Jens Hoffmann non definisce la sua mostra a San Francisco come un re-enactment ma come un sequel cioè quel processo che nel cinema, nelle fiction e simili riprende un plot, un tema una storia e ne racconta il seguito. Hoffmann si chiede perché lui dovrebbe fare questo proprio di una mostra e risponde: “Perché sono un curatore, e questo é il mio medium… il modo con cui io esprimo i miei pensieri e le mie idee.” E poco oltre specifica che lui fa mostre e non voleva scriver un saggio ma agire, creare una mostra che discutesse quell’altra mostra con una pratica, un’azione. Nella lista che Hoffman fa seguire come sottotitolo alla sua nuova esposizione comprare anche la parola ‘ribellione’ che spiega meglio di qualsiasi altra lo spirito che era sotteso alla mostra a Berna, che si opponeva in maniera forte a un sistema che a Venezia sembra invece essere il promotore dell’evento. Nella mostra di Hoffmann e nel suo saggio compaiono delle critiche alle scelte di Szeeman, vengono introdotti elementi di criticizzazione rispetto alla ‘caotica’ scelta del tempo di mettere insieme artisti che provenivano da ambiti molto diversi. Elementi essenziali per ridiscutere seriamente una scelta del 1969 oggi. A Venezia un peana della mostra di allora non inserisce elementi di rottura, non ne apre crepe nell’infallibile e inalterabile mitizzazione, perché questo comporterebbe un posizionamento forte dell’oggi rispetto alle domande che quella mostra nella sua sana imperfezione poneva allora e pone ora. Hoffmann non fa omaggi ma discute, la mostra di Venezia celebra e quindi annulla il potere eversivo istituzionalizzando ciò che combatteva contro una certa istituzionalizzazione.

Vorrei chiudere citando un testo di Szeeman del 1979 intitolato Impulsione-Armonia (preghiera) che é una sorta di autoritratto in versi, come un’ode dove a circa metà si legge: “Io sono per l’errore/io sono per il rischio/io sono per il contatto diretto/io sono per l’asticella nell’occhio dell’altro di fronte a me/ perché io sono per l’altro/perché noi siamo per l’incertezza del nostro stesso io”.5
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1 When attitudes became form became attitudes. A restoration – a remake- a rejuvenation – a rebellion, CCA Wattis Institute for Contemporary Arts, San Francisco, settembre-dicembre 2012, Contemporary Art Museum, Detroit, febbraio-marzo 2013. A cura di Jens Hoffmann.
2 Szeemann H., Live in your head. When attitudes became form. Works-Concepts-Processes-Situations-Information, Kunstahalle, Bern, 22/03-27/04 1969, pp.IJ. Traduzione a cura della redazione
3 Mambo, Bologna; Museo di Rivoli, Torino; MAXXI, Roma; MADRE, Napoli.
4 Tutti i materiali citati, il Dialogo tra Germano Celant e Rem Koolas, il Dialogo tra Germano Celant e Thomas Demand e il saggio introduttivo di Germano Celant alla mostra sono scaricabile dalla sezione del press office del sito della mostra all’indirizzo: http://www.fondazioneprada.org/
5 Szeeman H., Impulsion-Harmonie (prière), 1979, in Écrire les expositions, La lettre volée, Bruxelles 1996.
Traduzione a cura della redazione.