TO PLAY
Strutture aperte: gioco, esperienza e conoscenza nel museo contemporaneo
a cura di Jamila Campagna

1. (oppure 2. / 3. / 4.)

C’è una città invisibile, tra quelle raccontate da Calvino, dove tutto è al rovescio, dove lo svelamento della verità è raggiunto attraverso tutti i contrari del senso comune; in questa città, Ipazia1, non vi è lingua nuova da imparare per poter comprendere e farsi capire e comunicare. Qui sono le cose stesse ad avere un peculiarissimo codice di realtà, al di fuori e prima del codice linguistico: ogni fatto ha un inconsueto riferimento di senso che costringe a ripensare il nesso di causa-effetto e le regole di affinità tra le cose. Quel che di nuovo si deve acquisire sono gli strumenti per la specifica ermeneutica della città stessa. Il linguaggio non può determinare la realtà raccontandola perché, qui, il linguaggio è subordinato all’esperienza della realtà che lo in-forma. A Ipazia, l’indolente si riposa sdraiato in biblioteca, mentre il filosofo, lontano dai “luoghi della cultura”, siede nel parco, tra i giochi per bambini, tra l’erba e le altalene. Lo spazio del gioco si costituisce come il luogo della speculazione intellettuale, del sapere. Il piano del gioco suggerisce che la conoscenza sta nell’esperienza diretta, nella scoperta attraverso la pratica, nel toccare con mano la realtà nel punto in cui questa si incontra con i sentimenti di piacevolezza, con la concentrazione costruttiva, con il compiacimento del risultato raggiunto, laddove le tensioni energetiche psico-spirituali e corporali convogliano nella pratica liberatoria dell’attività ludica.
Quella offerta dal gioco è una conoscenza legata alla scoperta, che è approfondita ma mai esaustiva, perché nell’eventuale compiutezza cesserebbe il motore stesso che spinge a scoprire. E’ una scoperta di tipo circolare, sfaldata su più livelli che portano l’uno all’altro senza potersi esaurire mai, in un’addizione di vie di accesso che offre un numero idealmente infinito di possibilità di approccio.
In qualche modo, tutte le città invisibili sono descritte come dei playground di cui il lettore fa esperienza attraverso le parole di Marco Polo e, a ben vedere, lo stesso volume de Le città invisibili propone un tipo di lettura livellare, stratificata, fatta di tunnel che possono portarci da pagina 61 a pagina 33, da pagina 29 a pagina 156: il testo ha una struttura che si forma e si disfa nella molteplicità di versi e direzioni, nella scelta di chi ne legge i micro-capitoli, che sono itinerari e suggestioni rappresi in un lavorio combinatorio diacronico e reticolato.

Toshiko Horiuchi MacAdam, Harmonic Motion, 2013. Ph. Roberto Boccaccino

2. (oppure 1. / 3. / 4.)

C’è un’opera di Toshiko Horiuchi MacAdam intitolata Harmonic Motion che è stata realizzata a mano dall’artista, modulo dopo modulo, ed è attualmente esposta al museo MACRO (sede di via Nizza, Roma). Harmonic Motion è una struttura nella struttura, un’installazione immersiva e interattiva che sembra un quartiere di città invisibile. Il fruitore è parte integrante dell’opera e la completa interagendovi. Per mezzo del gioco, attraverso un partecipatory enviroment, il museo, luogo del sapere contemplativo, si riapre all’esperienza attiva.
Già nel 1959, Allan Kaprow avviava la pratica dell’happening prevedendo la diretta partecipazione dello spettatore nella creazione dell’opera d’arte come evento performativo, legata alla dimensione dell’effimero e del temporaneo; ancor prima, sempre negli anni ’50, i Situazionisti avevano proposto la modalità del libero gioco e dell’esperienza attiva per una rinnovata scoperta dell’ambiente cittadino e dell’urbanità. Ma è soprattutto nel minimalismo che ha le sue radici l’arte partecipativa e interattiva contemporanea: è con le proposte minimaliste che l’oggetto d’arte, inteso nella sua presenza materiale, inizia ad essere concepito sia come opera site specific che criticizza l’ambiente espositivo, sia come elemento alternativo alla fruizione contemplativa e passiva, portando il concetto di esperienza attiva fin dentro l’ambito museale e collezionistico. L’opera si costituisce come attivatore di una tipologia di fruizione che spinge il visitatore a ripensare sia lo spazio che se stesso, in rapporto ad essa. Attuando una nuova declinazione dell’ambito scultoreo, all’interno del minimalismo c’è una serie di opere che, partendo dalla primarietà delle strutture geometriche, ha creato le condizioni di una rinnovata esperienza della dimensione espositiva, che si configura come percorso esperienziale. In particolare, opere come i volumi L – Beams (1965) di Robert Morris o le travi di legno degli Elements (1960) di Carl Andre e, ancora di più, Passageway (1961), il tunnel curvo e stretto di Morris, e Cuts (1968), pavimento “scacchiera” di Andre, ricercano un rapporto inedito con gli aspetti architettonici dell’ambiente e una partecipazione del fruitore, che entra in contatto con l’opera acquisendone diretta esperienza sensoriale e cognitiva. Successivamente, questo sarà il carattere anche di molte opere di Bruce Nauman, in particolare di tutte le sue varianti dei Corridor, spazi stretti destinati ad attivarsi come opere solo al momento dell’attraversamento da parte di un soggetto visitatore.

E’ da questa implicazione cognitivo-corporale che si è sviluppata l’attuale arte interattiva, costituendosi come vero e proprio playground, struttura di gioco inserita nella struttura museale. Gli scivoli di Carsten Höller sono probabilmente la più riuscita condensazione di tutti gli aspetti concettuali e pratici dell’opera playground: esposti tra Berlino, Londra, Milano, Helsinki, Boston e New York (dal 1998 al 2012) gli scivoli si collocano nel museo come elemento dichiaratamente ludico, ma non solo. L’attraversamento dei piani del museo, con uno sfondamento dell’architettura da parte della struttura dell’opera, genera un ripensamento dello stesso contenitore museale, offrendo nuove possibilità di fruizione che coinvolgano anche gli spazi aerei dell’edificio. Metri cubi che solitamente restano raggiungibili solo dalla vista, diventano percorribili, esperibili nell’offerta di inedite modalità di spostamento da un ambiente all’altro nel museo; il percorso espositivo si arricchisce di nuove vie di percorribilità e di acquisizione di conoscenza che prevedono prima di tutto un approccio alle dimensioni di spazio e tempo attraverso la dimensione dell’esperienza. Il fruitore modifica l’ambiente (e la realtà) mentre ne è modificato.

Carsten Höller, Untitled (Slide), 2011. Courtesy New Museum, New York. Photo: Benoit Pailley


Carsten Höller, High Rise Sculpture, 2006. Courtesy New Museum, New York. Photo: Benoit Pailley


3. (oppure 1. – 2. – 4.)

C’è un passaggio in un piccolo volume di Baudelaire intitolato Morale del giocattolo, pubblicato la prima volta nel 1853, che inquadra con rassegnato sarcasmo una certa tendenza borghese verso la scelta costipatoria, verso una conservazione che ha il sapore del tabù:

“Altri genitori considerano i giocattoli come esempi di muta adorazione! Ci sono abiti che è permesso mettere almeno la domenica; ma i giocattoli si devono usare in ben altro modo! Così non appena l’amico di casa ha deposto la sua offerta nel grembiule del bambino, la madre feroce e risparmiatrice si precipita di sopra, lo mette in un armadio, e dice: E’ troppo bello per la tua età; te ne servirai quando sarai grande! Un mio amico mi ha confessato che non aveva mai potuto gioire dei suoi giocattoli. – E quando sono diventato grande, aggiungeva, avevo altre cose da fare. Del resto, ci sono bambini che fanno da soli la stessa cosa: non usano i loro giocattoli, li risparmiano, li mettono in ordine, ne fanno biblioteche e musei, e li mostrano di tanto in tanto ai loro piccoli amici pregandoli di non toccare. […]2

Baudelaire paragona questa scorta di giocattoli inutilizzati, messi da parte e mostrati saltuariamente, a biblioteche – per la classificazione stipata – e musei – intendendendo chiaramente il museo classico, che a metà ‘800 era anche l’unico museo di cui si aveva esempio.
L’idea del “guardare ma non toccare” è stata sostanziale nella concezione museale ed espositiva fin dopo l’avvento delle avanguardie novecentesche, in nome di una auraticità dell’opera che sembrava poter sussistere anche nella sua intoccabilità. Certamente il problema della conservazione è ancora oggi attualissimo e fondamentale: un’opera che si rovini, alterandosi a causa di un qualunque tipo di agente esterno, perde valore non solo dal punto di vista economico ma anche sotto il profilo estetico e storico. L’intoccabilità scaturiva di certo dal timore del danneggiamento dell’opera, della sua corruzione, dell’alterazione del suo stato e, dunque, della sua trasformazione; qualunque cosa potesse intervenire a modificare la cosa, rendendola diversa da se stessa, era da evitare in tutti i modi. Ma l’ossessione per la conservazione, nel museo classico, sembra aver a che fare piuttosto con l’immobilità, col desiderio ostinato di chiudere una forma – e un contenuto – nella dimensione del perfetto. L’opera così ottenuta, messa al sicuro da ogni possibile incombenza che la trasformi, può essere solo oggetto di contemplazione distaccata da parte di uno spettatore che ne è necessariamente tagliato fuori.

Immobilità e chiusura sono l’esatto opposto della trasformabilità e dell’apertura delle strutture combinatorie che molti artisti contemporanei hanno scelto di realizzare.
Lavori come All Variations of Incomplete Open Cubes (1974) di Sol LeWitt partono dall’essenza geometrica per evidenziare il processo costruttivo, la modularità compositiva che implica l’esistenza di una variabile; il volume cubico è scorticato per rendere visibile la struttura nel suo farsi e dis-farsi elementare. La stessa trasformabilità modulare si riscontra nelle strutture combinatorie di Jan Slothouber e William Graatsma, sempre attorno alla figura del cubo: l’opera non è semplicemente aperta; è possibilità multipla in attesa di intervento esterno.


Jan Slothouber + William Graatsma, Dutch pavilion, Venice Biennale, 1970. Galerie VIVID Rotterdam

Slothouber & Graatsma, Center Cubic Constructions 2003. Galerie VIVID Rotterdam

4. (oppure 1. – 2. – 3.)

C’è una frase, tra le pagine del sito internet dell’Associazione Bruno Munari, con cui Alberto Munari, psicologo dell’educazione ed epistemologo, figlio di Bruno, ben definisce il rapporto tra arte e infanzia:

“Giocare con l’arte? Ma capiranno? Così piccoli, capiranno cos’è l’Arte? Capire cos’è l’arte è una preoccupazione (inutile) dell’adulto. Capire come si fa a farla è invece un interesse autentico dei bambini.”3

Questa idea del fare per capire è quel pensiero progettuale creativo che sta alla base della metodologia didattica ideata da Bruno Munari sin dai suoi primi laboratori negli anni ’70. Così il gioco è un’estetica dell’esperire che è autoaffermazione e rappresentazione dell’io in una dimensione extra-linguistica, nell’atto di imporsi e ottenere una modificazione della realtà attraverso il proprio intervento; non nel dirsi, non nell’enunciarsi, ma nel fare stesso.
L’esperienza è nel sentimento e nel sensorio, nel cognitivo, contemporaneamente nell’eterno presente e nell’incamerato. E’ silenzio e si dà solo per traduzione. La dimensione linguistica e, in particolare, la narrazione e il discorso sono situati nel confronto tra individui e offrono la comunicazione, ma la speculazione è sempre post-esperienza.
Vi è, dunque, uno scarto tra esperienza e linguaggio; tuttavia possono esistere dei testi esperienziali: Infanzia berlinese di Benjamin e Minima moralia di Adorno sono testi esperienziali, non tanto perché raccontano punti di vista su matrice autobiografica dei rispettivi autori, quanto piuttosto perché implicano un andamento della lettura, che è precendentemente stato un andamento nella stesura, fatto di libera combinazione, di slancio nell’associazione mentale, di necessità di parcellizzazione del sapere per renderlo aderente al vivere e, dunque, al fare.
La scrittura, con il suo multi-valore di segno, traccia e gesto, è riflessione concettuale fatta espressione, tra manifattura e compositività letteraria. La scrittura è il punto di riconciliazione tra linguaggio e esperienza. La scrittura è linguaggio dell’esperimento.

Con Agamben:

“[…] nella filosofia medievale la scrittura è il modello o l’immagine della potenza, della possibilità: il bambino che impara a scrivere, oppure lo scriba che sa già scrivere, che è padrone della sua potenza. […] nel voler scrivere in realtà c’è una specie di desiderio e di esperienza della possibilità. Voler scrivere significa volersi rendere la vita possibile.”4

Sol LeWitt, All Variations of Incomplete Open Cubes, 1974. Image courtesy of the Saatchi Gallery, London

Bruce Nauman. Green Light Corridor, 1970
Painted wallboard and fluorescent light fixtures with green lamps, dimensions variable,
approximately: 10 x 40 x 1 feet (3 m x 12.2 m x 30.5 cm)
Solomon R. Guggenheim Museum, New York Panza Collection, Gift 92.4171
© 2014 Bruce Nauman/Artists Rights Society (ARS), New York. Installation view: Changing Perceptions: The Panza Collection at the Guggenheim Museum, Guggenheim Museum Bilbao, Spain, October 10, 2000–April 22, 2001. Photo © Erika Barahona Ede

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1 I. Calvino, Le città invisibili, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2002, pp. 47 – 48.
2 C. Baudelaire, Morale del giocattolo, Procaccini, Napoli 1989, p. 18.
3 Tratto da www.brunomunari.it.
4 R. Andreotti, F. De Melis, “I ricordi per favore no”, intervista a G. Agamben, in Alias, supplemento a Il Manifesto, 9 settembre 2006, anno 9, n. 35, pp. 1 – 5, 8.

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Bibliografia

T.W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino (2013);
G. Agamben, Infanzia e storia: distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino (2001);
C. Baudelaire, Morale del giocattolo, Procaccini, Napoli (1989);
W. Benjamin, Infanzia berlinese – intorno al millenovecento, Einaudi, Torino (2007);
I. Calvino, Le città invisibili, Arnoldo Mondadori Editore, Milano (2002);
C. Corbetta, Carsten Höller, in F. Bonami (a cura di) Supercontemporanea. Carsten Höller, Mondadori Electa, Milano (2007)
D. de Kerckhove, Tecnopsicologia e nuovi orizzonti sensoriali. L’arte come esplorazione delle innovazioni tecniche, in M. Carboni, P. Montani (a cura di), Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica, Editori Laterza, Roma – Bari (2005);
S. Millar, La psicologia del gioco infantile, Editore Boringhieri, Torino (1974);
B. Munari, Da cosa nasce cosa, Editori Laterza, Roma – Bari (1981);
B. Munari, Design e comunicazione visiva, Editori Laterza, Roma – Bari (1980);
F. Poli, (a cura di), Arte Contemporanea – le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 a oggi, Mondadori Electa, Milano (2005);
F. Poli, Minimalismo, Arte Povera, Arte Concettuale, Editori Laterza, Roma – Bari (2007).


Jamila Campagna nata a Latina nel 1987, laureata in Scienze Storico-artistiche, presso l’Università La Sapienza di Roma, con una tesi in Storia della fotografia contemporanea, considera lo studio della Storia dell’arte come una sorta di summa mundi, punto d’incontro di tutte le discipline. Parallelamente agli studi universitari, nel 2009 ha conseguito un diploma presso la Scuola Romana di Fotografia, specializzandosi in Reportage fotografico presso l’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata di Roma, nel 2010. Nel 2013 ha inoltre conseguito il Master Curatore Museale e di Eventi presso lo IED di Roma. Fa attualmente parte del collettivo curatoriale Il Muro.