Vuoto apparente
Vuoto, unità di misura della museografia contemporanea
di Rossana Macaluso

Chiamato affettuosamente dagli statunitensi “la soffitta della nazione”, lo Smithsonian Institution, la cui sede principale è a Washington DC, ospita circa centotrentasei milioni di oggetti ed è visitato da oltre ventiquattro milioni di persone l’anno. L’Istituto di istruzione e ricerca con annesso l’immenso museo, rappresenta uno storico polo culturale imbattibile per numero di oggetti in collezione, numero di visitatori, costi di gestione1. Nel caso dello Smithsonian Institution, il concetto di “pieno” sembra essere stato, dal quel lontano 1846, anno di fondazione dell’Istituto, una carta vincente. Lo sguardo bulimico di tale abbondanza di oggetti accompagna e forse predispone la fruizione da parte di spettatori disposti a percorrere svariati chilometri di aree espositive accuratamente allestite.

Nel 1935, Alfredo Baar, direttore e fondatore del Museum of Modern Art di New York compie un’azione che sarebbe entrata di diritto nei manuali di storia delle esposizioni di arte del mondo e assunta a guida di ogni futura esposizione. Con l’inaugurazione della celebre mostra dedicata a Van Gogh, Alfredo Baar, pone un deciso e concettuale, oltre che ovviamente materiale, vuoto tra un’opera ed un’altra. Questo vuoto, inteso come “distanza”, rappresenta forse una delle maggiori eredità espositive del MoMA in grado di spazzare via la tradizionale pratica di disporre i dipinti uno sopra e accanto all’altro. La fruizione, nel variegato mondo delle arti visive, diventa concentrazione. Quello stesso spazio vuoto, utilizzato come unità di misura, teorizzato, decifrato in proporzioni, in una parola “regolamentato” diventa, nello specifico caso della mostra del MoMA, spazio neutro nella sua accezione di non più connotato da altri colori che in qualche modo, viceversa, concorreva a creare un’ambientazione scenografica.

Il mostrare un’opera d’arte così come un oggetto culturale o scientifico, è un processo nato da un’azione curatoriale che va ad esercitare una precisa azione volta a colmare lo spazio tra l’oggetto e lo spettatore, colmare un vuoto inteso come distanza di percezione e conoscenza. Una delle storiche criticizzazioni di tale meccanismo, e al contempo di implicita decostruzione, avviene appena un decennio dopo, sempre a New York, per opera di Marcel Duchamp, che nel 1942, in collaborazione con André Breton, Sidney Janis e Parker, realizza l’allestimento “Sixteen Miles of String” per la mostra First Papers of Surrealism. Nella mostra, il vuoto inteso come spazio di riempimento da parte del fruitore è occupato da circa sedici miglia di filo teso tra pavimento e soffitto dell’intera sala. Con Firs Papers of Surrealism è ufficialmente dissacrata qualunque logica espositiva.

Nel tradizionale sistema dell’arte, il “vuoto” inteso come verosimile strumento funzionale all’esposizione, è evidente in alcuni edifici architettonici concepiti sin dall’origine come spazio deputato alla fruizione di opere d’arte. E’ questo il caso del Centre Georges Pompidou a Parigi progettato da Richard George Rogers e Renzo Piano negli anni ’70. La struttura, caratterizzata da superfici ininterrotte prive di colonne interne o pareti portanti, ha esercitato un grande impatto sul tipo di mostre che vi si possono ospitate2. Dunque il concetto di vuoto è diventato modulare, gestibile in relazione alle esigenze delle opere, del pubblico, dell’intera complessità dell’esposizione. Si potrebbe parlare di un “informale” spazio espositivo che in alcun modo impoverisce la qualità delle attività in esso proposte. L’edificio rappresenta infatti un consolidato punto di riferimento per esposizioni di Arte Moderna all’insegna della multidisciplinarità, a cui è affiancato un museo permanente del design, una vasta biblioteca, il tutto contornato da un proliferare di attività musicali, cinematografiche, audio-visive.

Diversa è la natura di altri edifici destinati ugualmente sin dalla progettazione all’esposizione artistica, come il MAXXI di Roma. Volumi scolpiti e spazi artisticamente caratterizzati dall’architetto anglo-irachena Zaha Hadid, il cui progetto è stato scelto tra 273 candidati provenienti da tutto il mondo. Lontanissimi da quel luglio del 1998, in cui è bandito dalla Soprintendenza Speciale d’Arte Contemporanea su incarico del Ministero per i Beni Culturali il concorso internazionale di idee per la realizzazione a Roma del nuovo polo nazionale, culturale ed espositivo dedicato all’arte e all’architettura contemporanee, nel novembre 2009, dunque undici anni dopo, viene inaugurato ufficialmente il MAXXI, ancora “vuoto”. Il museo è stato dunque visitato per due giorni, vuoto come non sarà mai più (di opere d’arte). La seconda inaugurazione ufficiale avviene nella primavera del 2010 con il Museo questa volta allestito. Fra gli artisti invitati per la prima mostra, Cesare Pietroiusti. L’Artista relazione realizza la performance Quello che trovo, quello che penso nella scala di emergenza/servizio nella quale è rimasto chiuso per l’intera durata dell’inaugurazione descrivendo quello spazio in apparenza vuoto. L’artista, munito di lente di ingrandimento e di registratore vocale, elenca tutto ciò che vede -Quello che vedo-, al contempo raccoglie le eventuali associazioni mentali che il reperimento di tali oggetti, come anche la temporanea ma specifica condizione di marginalità, ha prodotto -Quello che penso-. Parallelamente, nel resto dello spazio classicamente deputato all’esposizione d’arte si svolge classicamente l’opening. Uno spazio volutamente vuoto, di opere, ma impregnato di esistenza, spazio di minuziosa indagine reclusiva in esplicita contrapposizione al jet set poco lontano.

Cesare Pietroiusti, Quello che trovo, quello che penso (2010), MAXXI, Roma

 

La nascita di un nuovo polo museale o la trasformazione d’uso di un edificio in spazio culturale museografico, porta con sé differenti esigenze e ambizioni, non per ultima può rappresentare una scommessa culturale ed economica di una città. Questa utopia non di rado è diventata una realtà come nel caso del Guggenheim Museum di Bilbao progettato dall’architetto canadese-americano Frank Gehry, diventato un vero e proprio simbolo immaginifico della città in grado di qualificare la zona del porto (a detta di molti, ma non di tutti) abbandonata e degradata. La presenza dunque di un polo culturale ed espositivo può attivare e colmare un vuoto all’interno di un sistema economico e sociale. Complice la possibilità di intrattenere, di trasmettere, di coinvolgere, di fare cultura, molti musei d’arte contemporanea, rappresentano un punto di riferimento per la società e quando ciò non avviene, di contro, è possibile vedere scintillanti nuovi musei, venir meno al loro ruolo di spazio rivolto al pubblico, il vuoto creato diventa un vuoto culturale, un vuoto di interesse, diventa assenza di spettatori, diventa fallimento con il quale urge fare i conti.

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Immagine in homepage
©Massimiliano Di Franca, Home, 2013 (dettaglio)
Dittico fotografico, collezione privata

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1 P. Hughes, Professione: designer di spazi espositivi, Logos, 2010, pag. 9.
2 Ivi, pag 16.