Nel tardo capitalismo contemporaneo, la categoria del fascismo appare al contempo fumosa e drammaticamente concreta. Pur non esistendo oggi una definizione condivisa di cosa sia il fascismo, le democrazie neoliberali si allineano sempre più su politiche razziste, xenofobe, sessiste e guerrafondaie. Se da un lato questa svolta reazionaria della politica mondiale viene spesso commentata come fascista, soprattutto a causa dei suoi rimandi più o meno espliciti alle dittature del secolo scorso, dall’altro la destra non esita a ribaltare l’accusa, arrivando a parlare di “fascismo degli antifascisti”. Così, secondo quest’ultima narrazione, chi lotta contro la violenza patriarcale diventa una “nazifemminista”, i movimenti che rilevano le tracce del passato coloniale nello spazio pubblico vengono definiti degli estremisti che vogliono cancellare la storia, e i collettivi che si oppongono ai comizi d’odio dei criminali che minano la libertà di parola.
Questa strumentalizzazione della parola fascismo operata dagli ambienti reazionari svolge un compito centrale di confusione ontologica, necessario a svuotare il termine di ogni significato preciso. In questo modo, il fascismo viene relegato a un periodo storico buio, senza legami con il presente, un incidente di percorso di cui nessuno si assume una responsabilità. Al punto che, ad oggi, il termine viene usato per commentare qualsiasi esempio di presunta prevaricazione o di limitazione della libertà di parola, tanto da ambienti progressisti quanto da quelli reazionari.
Eppure, i fascismi appaiono più vivi che mai, portati avanti proprio da quegli stessi paladini della libertà di parola che, al tempo stesso, relegano i migranti in lager di stato come i CPR, reprimono i movimenti tramite leggi speciali liberticide o impediscono l’interruzione volontaria di gravidanza.
Come orientarsi quindi di fronte a una categoria così sfuggente eppure così influente? Come definire un’entità, quella fascista, che in un secolo ha cambiato faccia innumerevoli volte? Come rendere l’antifascismo una categoria all’altezza dei tempi in cui viviamo?
Una constatazione da cui partire è che, nonostante rimandi più o meno espliciti ai totalitarismi dello scorso secolo, i dispositivi di governo delle destre contemporanee appaiono perfettamente integrati nelle democrazie liberali del tardo capitalismo. Il fascismo odierno non si presenta quindi necessariamente in camicia nera, ma si cela dietro un’apparenza democratica, realizzandosi nel legame che intraprende con l’economia neoliberista.
Questa congiuntura non è una novità e affonda le sue radici nel fascismo delle origini che, una volta giunto al potere nel 1922, abbandonò ogni velleità socialista per adottare un’economia trasformista ma profondamente capitalista e antioperaia. Basta guardare alle riforme di taglio alla spesa pubblica del fascistissimo economista Alberto de Stefani, al protezionismo di Giuseppe Volpi con cui raggiungerà l’obiettivo di Quota 90, alle spinte per uno “stato imprenditore” proposte da Alberto Beneduce o all’economia colonialista e autarchica di Paolo Thaon di Revel. La sola granitica costante di queste economie del fascismo è stata la repressione sistematica della conflittualità operaia, necessaria per ridurre i salari e garantire un capitale variabile sempre vantaggioso per i padroni (Rosati, 2024).
Fin dalle sue origini il fascismo si presenta quindi come una forza antirivoluzionaria, l’ultima spiaggia a cui ricorre il capitalismo per salvarsi da una crisi. La storia di questo binomio non termina però con la seconda guerra mondiale e la fine delle dittature totalitarie, e sarà anzi destinata a rafforzarsi nel dopoguerra. Sarà infatti George Jackson, nei suoi scritti del 1971, a ritrovare negli Stati Uniti del tempo quel nesso segreto tra fascismo e capitalismo. Per il rivoluzionario afrodiscendente, il fascismo non poteva infatti essere considerato un fenomeno concluso con la fine delle dittature, ma come una realtà in movimento, di cui una definizione ultima non poteva essere data, in quanto fenomeno ancora aperto, in fase di sviluppo, vivo. Per Jackson il fascismo italiano del ventennio non era lo stesso degli Stati Uniti degli anni Settanta, ma entrambi condividevano la stessa natura antioperaia e il medesimo ruolo: ristrutturare un capitalismo che si trovava a dover rispondere a una coscienza sociale minacciosa, ma più debole di lui (Jackson, 1972).
Il fascismo si riconfigurava quindi come una risposta delle democrazie liberali a ciò che le minacciava: la reazione di un capitalismo della crisi che serrava i propri ranghi. Le analisi di Jackson degli anni Settanta appaiono oggi ancora più concrete. Come ha sottolineato lo storico dell’arte Mikkel Bolt Rasmussen il fascismo contemporaneo può essere compreso solo se lo si colloca nel ruolo di controrivoluzione preventiva che svolge all’interno del sistema tardocapitalista. Sebbene negli ultimi vent’anni non vi sia stato un autentico movimento rivoluzionario di scala globale, il numero di rivolte e insurrezioni è cresciuto esponenzialmente. Di fronte a questa costellazione di episodi insurrezionali, la risposta del sistema neoliberista si è impostata su una riorganizzazione basata su politiche securitarie e nazionaliste. Il fascismo del tardo capitalismo, tuttavia, non si riduce a un mero indirizzo economico o governativo. Sempre secondo Rasmussen, esso si configura come una logica culturale, un affetto, una stimmung. I leader del presente si propongono come dei veri e propri designer: producono un simulacro di società, dichiarandosi capaci di ricreare una comunità nazionale perduta. Richiamandosi a un passato idealizzato in cui “si stava meglio”, alimentano l’odio verso le alterità, accusate di essere responsabili di un declino sociale e morale della società. Così facendo, occultano i problemi strutturali del capitalismo finanziario e della sua crisi sistemica, addossandone la colpa a facili capri espiatori, in primis le persone migranti (Rasmussen, 2024).
Questa promessa di restaurazione avanzata dai fascismi contemporanei rientra appieno nel concetto di macchina mitologica delineato da Furio Jesi nella sua analisi della cultura di destra del 1979. Jesi individuava il filo conduttore tra le ideologie reazionarie del primo e del secondo dopoguerra in un linguaggio specifico che definì “idee senza parole”. Questo specifico linguaggio, composto da concetti spiritualizzati al punto da perdere ogni riferimento storico, opera attraverso il dispositivo della macchina mitologica. Essa è composta da un nucleo centrale, l’origine del mito, situato al di fuori della storia, da cui si diramano le sue interpretazioni, che determinano un’ideologia e un assetto ben definito di rapporti sociali nel reale. Si tratta di un dispositivo di cui possiamo osservare solo l’esterno, cioè tramite le mitologie che produce, ma che allude costantemente alla presenza, interna e impenetrabile, del mito stesso (Jesi, 1979).
Un esempio emblematico è il mito nazista della razza ariana: un’entità di cui non si sapeva se fosse mai realmente esistita, ma la cui mitologia si è rivelata efficace nel giustificare un progetto genocidario. Oggi, similmente, le destre promuovono il mito di una società passata, presuntamente più giusta, che sarebbe stata corrotta dall’arrivo dei fenomeni migratori. Anche questo mito non trova alcun riscontro nella realtà storica: l’economia capitalista, persino nei suoi momenti di apparente prosperità e “benessere”, si è sempre fondata sullo sfruttamento strutturale di specifiche classi sociali e aree geografiche. Tuttavia, la mitologia costruita intorno a questo nucleo immaginario funziona oggi per giustificare politiche di remigrazione e deportazione di persone migranti e razzializzate.
Siamo dunque di fronte a un fascismo contemporaneo che si basa su un doppio carattere: un mito economico che legittima e alimenta mitologie culturali, in un sistema dove il discorso mitico diventa strumento di normalizzazione della violenza istituzionale.
Per mettere in crisi questo doppio dispositivo, non è sufficiente dimostrarne l’inconsistenza storica o l’infondatezza fattuale del suo nucleo, ma piuttosto, come spiega Jesi, è necessario cogliere in flagrante il funzionamento della macchina mitologica ed esporne i meccanismi interni.
Un’operazione di questo tipo, volta a intercettare e analizzare il fascismo odierno nella sua struttura e nelle sue modalità operative, trova un’importante espressione nelle due mostre realizzate da Mauro Folci, rispettivamente nel 2001 a Rieti e nel 2002 presso il MLAC (Museo Laboratorio di Arte Contemporanea) dell’Università La Sapienza di Roma, entrambe intitolate Kadavergehorsam.
Il titolo Kadavergehorsam, traducibile come “obbedienza cadaverica”, si riferisce al termine usato dal generale nazista Adolf Eichmann durante il processo che si tenne a Gerusalemme nel 1961, in cui fu accusato di numerosi crimini di guerra. Questo concetto di cieca obbedienza, espresso da Eichmann, venne individuato da Hannah Arendt come elemento distintivo di quella che definì la “banalità del male”. Nell’omonimo volume pubblicato nel 1963, e in particolare nell’ottavo capitolo intitolato I doveri di un cittadino ligio alla legge, l’autrice riportò le dichiarazioni del generale, il quale, in risposta alle accuse del tribunale, affermò di aver obbedito non solo agli ordini, ma alla legge stessa di Hitler, alla maniera di un corpo morto. Tuttavia, come sottolinea Arendt, questa obbedienza cadaverica non può essere intesa come semplice conformismo passivo a una norma o a una regola: al contrario, si configura come un impegno esistenziale totalizzante, che include tanto l’aspetto passivo quanto quello attivo; essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce (Arendt, 1964).
La prima occasione espositiva del 2001 è commissionata dall’amministrazione provinciale di Rieti, dove Folci è nato e cresciuto. Per la prima edizione di Kadavergehorsam, l’artista decise di indagare la storia locale della resistenza al fascismo attraverso la figura del sindacalista Florido D’Orazi (1881-1952). Attraverso una ricerca condotta tra archivi e la testimonianza orale del nipote Piero D’Orazi, Folci ricostruì la storia di Florido: dalla fondazione della Camera del Lavoro nel 1919, alle lotte agrarie contro la mezzadria, alla militanza antifascista negli Arditi del Popolo, fino al confino a Lipari e al rientro a Rieti, dove una malattia lo rese invalido.
L’intervento artistico di Folci si articolava in tre momenti: tre grandi striscioni stradali bianchi che riportavano in nero la scritta Kadavergehorsam, appesi in altrettante vie della città per quindici giorni senza che fosse stata data spiegazione alcuna; un lancio di volantini, contenenti passi dell’ottavo capitolo di La banalità del male, effettuato da tre donne dalla torre del municipio di Rieti; e infine l’installazione composta da sei monitor in una stanza della casa abitata da Florido D’Orazi. I video dell’installazione raccoglievano riflessioni sul concetto di Kadavergehorsam, realizzate da Carla Subrizi (storica dell’arte), Tito Marci (sociologo), Fabio Mauri (artista), Domenico Scudero (critico d’arte), Arthur Huber (teologo) e Giuliano Ranucci (linguista). Oltre questi ultimi si aggiungeva un ulteriore video, composto da riprese dei campi dove Florido D’Orazi aveva guidato i contadini nelle lotte, accompagnate in sottofondo dall’intervista al nipote Piero (Roberti, 2010).


Mauro Folci, “Kadavergehorsam”, Rieti 2001. Courtesy: l’artista.
A questi interventi si aggiunge la video performance Kadavergehorsam (Tutto il resto rosolio). Nel video, un’inquadratura fissa mostra il busto e le gambe accavallate di un uomo, di cui non si vede mai il volto. La figura acefala tiene in mano dei fogli dattiloscritti, mentre una voce femminile fuori campo, con marcato accento tedesco, ne legge il contenuto. Di tanto in tanto, un altro uomo entra in scena con un bicchiere d’acqua, lo porge alla figura, poi si inginocchia per distenderne e riaccavallarne le gambe, prima di uscire di nuovo con il bicchiere vuoto. La scena rievoca un momento intimo della vita di Florido D’Orazi: quando, ormai malato, il nipote Piero cercava di alleviarne la sofferenza, porgendogli acqua e distendendogli le gambe.

Nel testo letto nella video performance, redatto da Folci, si pone l’accento sull’origine religiosa del termine Kadavergehorsam, che viene fatto risalire all’obbedienza “come quella di un corpo morto” che risponde alla Legge di Dio, interpretato da Tommaso da Celano, e alla formula di Sant’Ignazio di Loyola perinde ac cadaver. Da qui, il termine arriverà all’obbedienza cadaverica di Eichmann, che descrive lo stato di cieca sottomissione del popolo del Terzo Reich alla legge di Hitler. Il percorso etimologico dimostra come la secolarizzazione abbia trasformato un concetto nato nella sfera spirituale o religiosa in una categoria politica, o meglio, per essere più aderenti alla contemporaneità, economica. Per l’artista infatti Kadavergehorsam rappresenta l’immagine mortifera di una società inesorabilmente capitalistica, un grido d’attenzione verso un progetto neoliberista che ha raggiunto una sofisticazione tale da assumere un carattere totalitario e ideologico, mistificato da una presunta naturalità (Folci, 2001a).
L’attenzione che Folci dedica all’etimologia del termine Kadavergehorsam nella video-performance anticipa uno dei nodi concettuali che emergeranno con maggiore forza nella seconda edizione della mostra, e che attraversa l’intera opera dell’artista: l’identificazione tra linguaggio e lavoro nella società neoliberista. Tramite l’interesse al linguaggio, in una pratica artistica che trova una delle sue matrici nella figura di Fabio Mauri, Folci propone una prima articolazione della sua riflessione sulle tracce del fascismo nel presente e sulle forme di resistenza a esse. In questa prima edizione tuttavia, l’accento è ancora posto su una resistenza all’obbedienza cadaverica che trova un suo antipodo nella disobbedienza al regime, attraverso una storia locale dal valore paradigmatico, restituita alla collettività nella figura di D’Orazi, che si oppose alle vessazioni e alle violenze fasciste (Gallo, 2021).
L’analisi del carattere fascista del neoliberismo contemporaneo troverà piena completezza nella seconda edizione della mostra, realizzata nel 2002 al MLAC. Essa si componeva di due parti: la performance Effetto Kanban, che occupava lo spazio del museo e il piazzale antistante, e Kadavergehorsam, un’installazione ambientale situata all’interno della città universitaria (Scudero, 2002).
Il lavoro intitolato Effetto Kanban, prevedeva l’assunzione di un lavoratore con contratto temporaneo di quattro ore al giorno per tutta la durata della mostra. Il compito dell’operaio consisteva nel trasportare una serie di casse da imballaggio da un lato all’altro del piazzale utilizzando un carrello di sollevamento. L’ingresso del museo era stato murato e, accanto alla nuova barriera, era stato affisso un foglio contenente il contratto di impiego del lavoratore insieme al testo della legge n. 196 del 24 giugno 1997, che regolamentava il contratto di fornitura di servizi di lavoro temporaneo. A documentare le attività dell’operaio fu installato un sistema di videosorveglianza a circuito chiuso, le cui immagini venivano trasmesse su un monitor collocato all’ingresso del museo.



Mauro Folci, Effetto Kanban, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea (MLAC), Roma 2002. Courtesy: l’artista
Il kanban, letteralmente il «cartellino», si riferisce al principio chiave della produzione toyotista. Nella pratica, indica la scheda che il cliente compila presso il concessionario indicando tutte le opzioni scelte per la sua auto e che, successivamente, stabilisce il piano di produzione all’interno della fabbrica. Questo dispositivo, che svolge un ruolo di contenimento delle conflittualità all’interno della fabbrica, è riproposto nella performance di Folci: il lavoratore-perfomer non sa quindi se il tiranno è l’autore dell’azione artistica che per 500 euro lo costringe ad un lavoro inutile ed alienante, o l’agenzia di lavoro interinale, che formalmente lo impiega. L’artista poneva al centro dell’opera gli aspetti economici che rendono possibile la produzione dell’evento espositivo, mettendo così in discussione la propria responsabilità di artista (Folci, 2002).
La seconda parte della mostra prevedeva invece l’affissione di cinque grandi striscioni all’interno dell’università, recanti la scritta Kadavergehorsam, e la distribuzione di volantini con la stessa frase e il capitolo del testo di Arendt. Tuttavia, il giorno precedente all’inaugurazione, la Segreteria del Rettorato emise un ordine di requisizione degli striscioni Kadavergehorsam che erano già stati installati in varie parti della città universitaria, impedendo di fatto la possibilità di realizzare la seconda parte della mostra prevista (Scudero, 2002).


Mauro Folci, Kadavergehorsam, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea (MLAC), Roma 2002. Courtesy: l’artista.
Nell’opera di Folci, il concetto di Kadavergehorsam veniva così trasportato in una contemporaneità plasmata dalla ragione produttiva e dalle leggi del mercato, in cui l’individuo non può che essere ridotto a mero soggetto economico, costretto a obbedire ciecamente all’economica in cui è costretto a vivere. Ricollegandosi alle teorizzazioni post-operaiste, in particolare agli scritti di Paolo Virno, Folci evidenziava come il tempo lavorativo, nella fase postfordista, abbia perduto i suoi confini tradizionali, espandendosi fino a permeare l’intera esistenza. Di conseguenza, la produzione contemporanea, non si fonda più solo su dinamiche materiali, ma si realizza attraverso il linguaggio e le interazioni della comunità linguistica. Ed è proprio tale dimensione immateriale a trasformare i rapporti sociali stessi in merci, cristallizzando e sussumendo in forme economiche ogni aspetto dell’esistenza (Virno, 2002).
Questo linguaggio che viene messo a lavoro non si limita solamente a quello tecno-scientifico, ma comprende il linguaggio del simbolo e del corpo, degli affetti e dell’amicizia, delle relazioni e in definitiva del linguaggio dell’arte, dell’astrazione, della poesia.
La situazione delineata dall’artista è quindi quella di una totale obbedienza al mercato, che permea ogni aspetto della vita. In questo scenario, anche la sola possibilità di uscire da questo stato di obbedienza diventa impraticabile, addirittura impensabile, poiché mancano gli strumenti per immaginare un’alternativa al capitale. Così, il soggetto contemporaneo, al pari di Eichmann, si ritrova a obbedire cadavericamente alle leggi che gli sono imposte dall’economia.
Il confronto tra la sottomissione di Eichmann al nazismo e la conformità dell’umanità contemporanea alle forze del mercato era già stato proposto nella rivista di filosofia politica Tiqqun, nel testo Teoria del Bloom, pubblicato tre anni prima della mostra di Folci: «[…] nell’ambito del dominio, la banalità del Bloom si manifesta sempre come banalità del male. […] non esiste alcuna differenza di natura tra un Eichmann che si identifica totalmente con la propria funzione criminale, e il branché che, non essendo in grado di farsi carico della propria non-appartenenza a questo mondo né delle conseguenze di una condizione di esilio, si vota al consumo frenetico dei segni di appartenenza che questa società gli vende a così caro prezzo» (Tiqqun, 2004).
La figura di Bloom delineata nel testo corrisponde al soggetto contemporaneo immerso nella forma di vita imposta dal capitale, in cui la propaganda della merce ha trionfato così radicalmente che egli concepisce il suo mondo non come il frutto di una lunga storia, ma come il primitivo concepisce la foresta, cioè come il suo ambiente naturale. Per Tiqqun con il Bloom, come per Folci con il Kadavergehorsam, il soggetto contemporaneo è quindi indissolubilmente legato alla struttura economica, che condiziona e mette a profitto la totalità dei rapporti umani.
Con la seconda edizione di Kadavergehorsam, Folci abbandona il riferimento esplicito al ventennio fascista per concentrarsi sulla condizione di obbedienza cadaverica imposta dal tardo capitalismo. All’interno della mostra si dispiegava la violenza del sistema economico contemporaneo, in cui l’obbedienza cieca imposta dal lavoro diviene per l’artista un passaggio obbligato per comprendere tanto il fascismo storico quanto quello attuale. Se infatti nella prima edizione il riferimento alla resistenza, evocato dalla figura di Florido D’Orazi, lasciava intravedere la possibilità di una fuoriuscita dallo stato di obbedienza, la mostra alla Sapienza propone invece una lettura più disillusa: tanto l’operaio-performer, quanto il pubblico che osserva dall’esterno e l’artista stesso, appaiono immersi in una condizione di obbedienza cadaverica all’economia dalla quale sembra impossibile sottrarsi.
Tuttavia questo approccio, solo in apparenza completamente negativo, diventa lo strumento attraverso cui l’opera riesce a inceppare la macchina mitologica jesiana. È proprio attraverso l’esposizione dei meccanismi di dominio che Folci riesce a cogliere le dinamiche di potere nel loro svolgimento, mostrandole fino a rivelarne la natura profonda. Le reazioni censorie dell’istituzione universitaria ne sono una riprova concreta, confermando il carattere antioperaio e la funzione di controrivoluzione preventiva che il fascismo continua a svolgere, sotto nuove forme, nel presente.
L’operazione assume un significato ancora più ampio se collocata nel contesto della città universitaria della Sapienza, spazio denso di contraddizioni. Qui, mentre l’architettura del ventennio fascista veniva agevolmente accettata e riabilitata, l’opera di Folci continuava a risultare indigesta. In questo senso, la seconda edizione di Kadavergehorsam anticipa una tensione che è riemersa con forza a partire dal 2017, quando l’ateneo ha deciso di ripristinare i simboli fascisti all’interno dell’affresco di Mario Sironi nell’Aula Magna. Sebbene presentato come un intervento di “risemantizzazione e decostruzione”, il restauro ha evidenziato le profonde ambiguità che caratterizzano la rielaborazione del passato fascista e coloniale. Tali contraddizioni appaiono ancora più stridenti se si considera la disinvoltura con cui la governance universitaria riesce a parlare di “dialogo” con le tracce di quel passato, legittimando di fatto lo svolgimento di rituali accademici alla presenza di fasci littori mentre, al contrario, assume un atteggiamento repressivo nei confronti delle scritte e delle azioni emerse durante le recenti mobilitazioni studentesche. Queste ultime, volte a denunciare il coinvolgimento dell’università nel complesso militare o a evidenziare l’insufficienza delle politiche intraprese contro le violenze patriarcali, sono state sistematicamente criminalizzate, negando ogni possibilità di dialogo con la comunità studentesca, in nome di una logica del decoro perfettamente coerente con le attuali forme di governo.

Se nelle due edizioni di Kadavergehorsam l’interesse di Folci è incentrato sull’aspetto economico dei fascismi contemporanei, è tuttavia importante sottolineare come in altre sue opere vengano messi in luce i meccanismi di razzismo sistemico della società contemporanea, come in Non comprate questo libro del 1996, dove venne indagato il neocolonialismo dell’azienda ENI, Raafat Abdou Mohamed Shatta, ringrazia del 2000, parte di una campagna di solidarietà a Raafat Abdou Mohamed, trentanovenne egiziano abitante in Italia che perse entrambe le gambe in un incidente ferroviario nel tentativo di sottrarsi al controllo del titolo di viaggio, e Tutto il resto rosolio del 2001, dove furono esposti quarantasette specchi su cui altrettante donne, emigrate e profughe che vivevano a Roma, scrissero nella propria lingua una lettera sul tema dell’emigrare (Folci, 1996, 2000, 2001b).



Le opere di Folci quindi, più che cercare una definizione conclusa del fascismo, ne evidenziano la sua natura mutevole e contradditoria, ne indagano il legame indissolubile con il presente tardo capitalista, analizzando come, ad oggi, i fascismi funzionino. L’immaginario antifascista di Folci mette in luce, fino a scardinarlo, quel linguaggio delle idee senza parole che, come disse Jesi, è l’elemento più caratteristico e diffuso della cultura di destra, in quanto «[…] possiede tutta la sua oscurità che è dichiarata chiarezza, tutta la sua ripugnanza per la storia che è camuffata da venerazione del passato glorioso, tutto il suo immobilismo veramente cadaverico che si finge forza viva perenne» (Jesi, 1979).
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Giacomo Rinalduzzi è laureato in Storia dell’Arte presso l’università La Sapienza di Roma. Le sue ricerche si sono concentrate sull’analisi di tematiche militanti all’interno dell’arte contemporanea italiana.