Introduzione alla politica del rumore
Le tassonomie occidentali hanno a lungo ordinato l’esperienza acustica attraverso criteri che non riflettono solo questioni tecniche, ma modelli culturali e rapporti di potere. Nelle pratiche artistiche contemporanee, il rumore emerge come principio di disallineamento del sensibile, in grado di ridefinire gerarchie percettive entro i regimi aurali dell’economia culturale. Inteso come soglia epistemica, destabilizza le metriche con cui la modernità occidentale ha delimitato l’udibile, relegando a “disturbo” ciò che eccede lo standard della desiderabilità fonologica.
Già l’acustica ottocentesca, con la distinzione helmholtziana fra vibrazione periodica (tono) e aperiodica (rumore), non istituisce una verità classificatoria ma un confine operativo (Meulders, 2005). Proprio in questa ambivalenza si apre la possibilità di leggere il rumore come eccedenza critica, capace di riprogrammare lo spettro dell’udibile e di metterne in discussione le categorie normative. Nelle traiettorie della composizione contemporanea e nelle culture nate ai margini – dal rave al noise, dalla techno all’industrial fino alla sound art – il rumore espone l’infrastruttura politica dell’ascolto, mostrando chi può prendere parola, attraverso quali dispositivi e da quale posizione. L’ascolto diventa così pratica di negoziazione e di redistribuzione, non mera ricezione ma esercizio di rinegoziazione dei diritti d’accesso al sensibile e delle forme di condivisione dell’esperienza. In una prospettiva femminista intersezionale, il rumore diventa cittadinanza acustica, politica del sensibile che consente a soggettività altre di riappropriarsi di spazi e parola all’interno del divenire storico.
Genealogie storico-artistiche del rumore
Una genealogia sintetica consente di contestualizzare il rumore nel campo delle arti visive e delle pratiche musicali. La modernità industriale lo ha inscritto nello slancio tecnologico e urbano: traffico, macchine, fabbriche, elettricità entrano a costituire i nuovi ambienti sonori collettivi producendo una diffusione capillare che ne trasforma radicalmente la percezione. Le avanguardie storiche hanno inscritto quei fenomeni acustici entro un lessico estetico e simbolico dalle traiettorie divergenti. Il Futurismo ne ha esaltato la carica tecnologica e la vertigine della modernità, facendo del rumore emblema di velocità e potenza. Il Dadaismo, invece, ne ha messo in atto una torsione critica, come nei poemi fonetici di Hugo Ball, dove la frantumazione della parola in puro suono produce un cortocircuito semantico che disarticola il linguaggio stesso. In questa ambivalenza il rumore si configura come materia liminale, in grado di tradurre in gesto estetico le contraddizioni della modernità. Non solo interferenza nella linearità degli stilemi rappresentativi, ma rottura dei regimi di ascolto che investe arti visive e sonore. In ambito pittorico, Quadrato nero di Kazimir Malevič (1915) opera un azzeramento che, oltre la retorica dell’icona, espone la materialità della superficie e ne lascia affiorare una forma di “rumore visivo”, disturbo informazionale che sospende la funzione mimetica a favore di una soglia percettiva. In Francia Marcel Duchamp, con la sua Ruota di Bicicletta (1913), mette in crisi il concetto tradizionale di opera introducendo la logica del ready-made (Weibel, 2019). Sul piano musicale e performativo, gli intonarumori di Luigi Russolo (1913-16) trasferiscono la città industriale nella composizione, normalizzando timbri non armonici, dinamiche estreme e mascheramenti spettrali come lessico. Le pratiche successive spaziano tra sperimentazioni tecnologiche, vocali e performative. In questo orizzonte il rumore non si configura più come eccedenza disordinata, ma come agente produttivo, capace di scardinare e ridefinire il campo dell’udibile oltre le consuetudini culturali. Con il Padiglione Philips (Expo Bruxelles, 1958), l’integrazione tra architettura e diffusione elettroacustica realizzata da Varèse (Poème électronique) e Xenakis (Concret PH) introduce la spazializzazione, il riverbero calcolato e la proiezione multicanale come parametri di scrittura sonora e spaziale. Da qui in avanti, il rumore apre la soglia della vulnerabilità, mettendo in scena un’esposizione del corpo che resiste al decoro e all’estetica normativa, trasformando il movimento stesso in dissenso incarnato. Poesia sonora, text-sound composition, sperimentazioni radiofoniche, azioni pubbliche e coreografie vocali site-specific delineano così una costellazione transdisciplinare in cui il rumore agisce come gesto eccedente, sottraendosi a ogni riduzione categoriale.
Le pratiche Fluxus, dagli event scores alle azioni sugli strumenti e alle vocalità estese, spostano la composizione verso protocolli d’ascolto situati, in cui rumore, gesto e dispositivo coincidono. L’uso del microfono come lente, dell’amplificazione come scultura e della preparazione o distruzione come tecnica mette a nudo l’infrastruttura effimera dell’udibile. Nelle installazioni sonore ciò implica anche una trasformazione dell’esperienza temporale: la durata degli eventi musicali non è più data, ma dipende dalla fruizione. In questo quadro, l’agency dello spettatore-uditore si esplicita nel decidere quando entrare nello spazio, come collocarsi rispetto alla fonte sonora e quando interrompere l’esperienza. «If, as with the sound installation art, objects of perception are in constant state of flux, but elude any sense of conclusion beyond their temporal extension because of their spatial differentiation, the perceiver inevitably finds themselves confronted with the aporias of their experience. […] The material object of a work of art cannot be reconciled with the cognitive representation from which the aesthetic experience first unfolds» (Schroeder e Straebel, 2017, p. 28).
Quando l’arte si apre alla dimensione spaziale dell’udibile, riduce la distanza tra ciò che è esteticamente ammissibile e ciò che non lo è, spostando l’attenzione dal che cosa al come si ascolta e mettendo in luce il ruolo del suono nella costruzione situata e simbolica delle identità dei luoghi e delle comunità che li abitano. Il concetto di soundscape è una matrice analitica che consente di leggere suoni e rumori, non solo come eventi acustici, ma come tracce referenziali cariche di senso. Come osserva Schafer: «I suoni dell’ambiente possiedono significati referenziali. Per chi studia il paesaggio sonoro non rappresentano soltanto degli eventi acustici astratti ma devono essere analizzati come segni, segnali o simboli acustici. Un segno è la rappresentazione di una realtà fisica (la nota Do in una partitura musicale, l’indicazione on/off in una radio, ecc.). Un segno non ha suono, ma si limita ad indicarlo. Un segnale è un suono carico di una significazione specifica e richiede spesso una risposta diretta (trillo del telefono, sirena, ecc.). Un simbolo, da parte sua, possiede connotazioni ancora più ricche» (Schafer, 2022, p. 297).
È in questo passaggio che la distinzione fra suono e rumore rivela la propria natura contingente, non puro dato fisico ma dispositivo di ordinamento, attraverso cui saperi tecnici e convenzioni sociali tracciano i confini dell’udibile e determinano le forme di presenza acustica possibili. Il rumore, nella sua debordanza estetico-critica, mette in questione tali gerarchie percettive e apre spazi di ascolto intersezionale. La prospettiva femminista, al centro di questa ricerca, si afferma come pratica di dislocazione che incrina la normatività del codice e restituisce alla voce il suo carattere politico. L’acustico si intreccia così a una postura critica che riconosce l’ascolto come pratica situata e relazionale, capace di interrogare chi possa prendere parola, da quale posizione, attraverso quali mediazioni tecniche e con quali conseguenze.
Dal predominio dello sguardo alla voce come relazione
La cultura occidentale ha storicamente privilegiato lo sguardo rispetto all’ascolto, costruendo un ocularcentrismo che attraversa la prospettiva rinascimentale, i regimi scopici della modernità e fino alla visualità intesa come dispositivo di governo. La critica femminista ha mostrato come questo regime non sia neutro, ma sostenga gerarchie di genere; parallelamente, la cultura visuale ne ha messo in luce l’implicazione con il potere e con l’economia dell’immagine. In questa costellazione teorica, nella quale John Berger rappresenta uno dei riferimenti più noti, la visualità contribuisce a naturalizzare l’ordine capitalistico attraverso la selezione e la circolazione delle immagini (Berger, 1972).
Sottrarsi al predominio dell’immagine significa operare un necessario spostamento critico verso altre forme del sensibile. Le pratiche sonore sperimentali, in particolare nelle prospettive ecologica e femminista/queer, si configurano come laboratori di dissenso e di cura, nei quali si rinegoziano le soglie tra segnale e rumore, tra presenza ed esclusione.
Tra le molte possibili traiettorie, un primo terreno di riposizionamento si dà nella vocalità, intesa come relazione materiale e come facoltà di dirsi. Poiché la differenza sessuata ha informato fin dall’origine le tassonomie dell’udibile e la loro gerarchizzazione, è attraverso la voce che il rumore si manifesta come esubero fonico e come pratica di riappropriazione. La voce, luogo di respiro, contatto e prossimità, è anche capacità di autodeterminazione linguistica, gesto con cui la soggettività si espone al mondo e afferma la propria esistenza sonora. Secondo la prospettiva irigariana, alla soggettività femminile è stata storicamente assegnata una condizione di mutismo entro un dispositivo simbolico privo di un luogo proprio. L’uscita da questa trappola non risiede nell’adeguamento al codice, ma in un lavoro di rovesciamento dei significati, di reintroduzione del corpo nel discorso e di insistenza sui vuoti in cui l’esclusione si è prodotta.
«Ma come fare? poiché le parole «sensate» – di cui tra l’altro dispone soltanto per mimetismo – sono impotenti a tradurre ciò che è pulsante, sospeso e sfocato (…). Allora… mettere ogni significato sotto sopra, dietro davanti, alto basso. Scuoterlo radicalmente, riportandovi, reintroducendovi quelle convulsioni che il suo «corpo» patisce (…). Insistere inoltre e deliberatamente su quei vuoti del discorso che ricordano i luoghi della sua esclusione, spazi bianchi che con la loro silenziosa plasticità assicurano la coesione, l’articolazione» (Irigaray, 1975, p. 137).
In questa traiettoria, anche la riflessione di Adriana Cavarero (2022) su un linguaggio sessuato al femminile, in contrasto con il monismo maschile della tradizione, restituisce alla vocalità – marginalizzata dalla metafisica occidentale – il suo pieno potenziale relazionale, trasformandola in progetto collettivo. Nel sistema patriarcale, la divisione dei sessi si riflette anche nelle voci: quella maschile trova legittimità nello spazio pubblico della polis, mentre quella femminile viene confinata al silenzio domestico dell’oikos. Laddove la filosofia occidentale ha subordinato la parola parlata a quella scritta, il rumore e le eccedenze vocali restituiscono udibilità alla materia della voce e aprono una critica alle tassonomie aurali che hanno storicamente normalizzato registri e modalità di emissione.
Sul terreno della storia dell’arte questo comporta uno spostamento d’asse: dall’opera come oggetto chiuso al gesto vocale come superficie vibratile e porosa che si offre all’alterità, generando prossimità, cura e vulnerabilità condivisa. La vocalità diventa così un laboratorio di differenza, dove ciò che la tradizione ha indicato come difetto si rivela condizione di accesso a una verità del corpo che, parlando, si espone e afferma la propria soggettività acustica e ontologica.
Oppositional gaze e rumore come segno politico
Se lo sguardo ha una storia patriarcale, anche l’udito non è mai stato neutrale. La riflessione di bell hooks sull’oppositional gaze ha mostrato come guardare in modo divergente significhi disobbedire al punto di vista dominante, aprendo un varco critico dentro regimi visivi consolidati (hooks, 2014). In campo sonoro, un’analoga postura può essere rintracciata in pratiche che si sottraggono al regime aurale maschile e coloniale, sovvertendo le griglie di udibilità attraverso cui si esercita il potere sulle voci e sui corpi. In questa chiave, il rumore agisce non solo come disturbo ma come attrito rivelatore, capace di rendere percepibile l’infrastruttura di potere che governa le istituzioni artistiche, i media e gli spazi architettonici.
Dal momento in cui ogni atto di ascolto è situato, e non esiste un punto di percezione neutrale o non culturalmente disciplinato, le pratiche femministe e queer ridefiniscono costantemente la soglia tra segnale e rumore, rimodulando ciò che viene riconosciuto come significativo all’interno della scena acustica. Un oppositional listening si delineerebbe non come gesto antagonistico, ma come esercizio disruptivo che scardina i protocolli percettivi dominanti e apre spazi di presenza condivisa. Ascoltare significa innanzitutto situarsi, riconoscere la contingenza delle condizioni che rendono l’atto percettivo possibile, poiché ogni esperienza uditiva affonda in corpi localizzati e in configurazioni culturali specifiche. A ciò si intreccia l’uso della dinamica come gesto politico, capace di abbassare l’intensità per far emergere voci altrimenti sommerse o di accentuarla per restituire la fatica che accompagna l’udire. Anche il silenzio assume una valenza attiva, non come vuoto o sospensione neutra, ma come spazio di rinegoziazione dell’attenzione e affioramento di nuove entità sonore. Ascoltare equivale ad assumere la responsabilità di ridefinire di continuo la soglia tra segnale e rumore, trasformando l’atto uditivo in pratica di cambiamento sociale.
È in questa stessa prospettiva che Jacques Attali legge il rumore come premonizione, indizio dei mutamenti nei regimi di produzione e di valore (Attali, 1968). Lungi dall’essere semplice disturbo, il rumore diventa segnale politico che svela l’economia del sensibile e apre a modalità di gestione condivisa dell’udibile.
Un approccio femminista e decoloniale mostra come le scelte tecniche di produzione e ricezione determinino inclusioni o esclusioni di agency acustica. Per Salomé Voegelin (2010) il suono si dà come accadere nell’ascolto, inteso come pratica socio-politica; questa contingenza diventa metodo d’indagine e privilegia condizioni, relazioni e interazioni rispetto alla fissazione partiturale. In questa direzione, la disobbedienza epistemica di Walter Mignolo invita a disallineare le tassonomie occidentali del sensibile, aprendo a forme di ascolto capaci di decentrare la prospettiva moderna/coloniale (Mignolo, 2010). Pensare in termini di ecologie del suono implica riconoscere che ogni ambiente aurale è situato, attraversato da poteri differenziali e dalla memoria dei corpi. Le geografie sonore emergono come attraversamenti, cortocircuiti e rotte oblique, alternative a quelle ufficiali. In questo quadro il rumore opera come controgeografia, rendendo leggibili le fratture della cartografia dominante e restituendo udibilità a soggettività altrimenti silenziate.
Tre strategie di disallineamento sonoro
Le pratiche di Zorka Wollny, Ain Bailey e Anna Raimondo mostrano modalità differenti ma convergenti di politicizzazione dell’ascolto. Nella loro eterogeneità, condividono la postura di assumere il rumore come strumento per incrinare l’auralità disciplinare e aprire nuove coreografie di udibilità.
Le azioni corali di Zorka Wollny (Cracovia, 1980) agiscono come dispositivi di risonanza situata in spazi istituzionali e collettivi dove l’udito è spesso addestrato alla frontalità e alla ricezione disciplinata. Corpi disposti nello spazio generano campi di pressione che ridefiniscono la metrica del luogo. Dal punto di vista tecnico, le partiture vocali lavorano sulla differenza timbrica tra gruppi e sulla spazializzazione in movimento: il pubblico viene attraversato da onde sonore che non provengono da un unico fronte, ma da una costellazione di sorgenti. La percezione dell’origine sonora si scompone; la posizione dell’ascoltatore diventa un parametro estetico. Ma è soprattutto la coreografia dell’udibilità a essere messa in questione. Il coro opera un’interferenza sull’auralità disciplinare dell’istituzione, trasformando il luogo storico in spazio di risposta. Con Voicers — Oratorio for Five Speakers and a Listening Crowd (Steirischer Herbst, 2019) Wollny disseziona la parola politica come materiale sonoro collettivo. Cinque voci modellano tipologie riconoscibili di discorso pubblico; la retorica si sfalda in ritmo, ripetizione, accento, finché il lessico cede e resta la performatività fonica. La partitura è sostenuta da percussioni (NU Unruh, Einstürzende Neubauten), da un coro maschile (20 malicious men) e da una regia timbrico-spaziale che sfrutta il campo architettonico (i balconi del Landhaushof rinascimentale a Graz) come dispositivo di proiezione, chiamando il pubblico a una postura attiva. La comunità uditiva è rimontata dall’opera, sperimentando l’ascolto come pratica di dissenso rispetto alla semantica politica. Let’s Make Noise, Sisters! (dal 2020) è un progetto radicale che trasforma la rabbia politica e la frustrazione sociale in energia catartica attraverso pratiche vocali corali e performative. Si struttura in azioni collettive, video multicanale e pratiche partecipative che assumono il rumore e la voce come strumenti di resistenza, trasformando l’ascolto in co-presenza e cura. Qui il rumore funziona da posizionamento critico rivendicando timbri, accenti, sibilanti, rotture, verso nuove ecologie relazionali che negoziano il “common ground” non come consenso, ma come campo di conflitto regolato.

La pratica di Ain Bailey (Londra, 1963) interroga il rapporto tra suono, memoria e identità, costruendo archivi affettivi e geografie acustiche che si radicano nelle esperienze queer e diasporiche. Il montaggio diventa strumento politico, capace di ridefinire le condizioni di udibilità e di trasformare ogni spazio in dispositivo di convocazione, dove il rumore eccedente lo standard hi-fi produce nuove relazioni e forme di cura. Con Sonic Stories (2018-19), realizzato con giovani donne della Westminster Academy di Londra nell’ambito del Youth Forum della Serpentine Gallery, l’artista ha lavorato su esperienze e ricordi legati alla casa, al luogo e alla comunità. Le sessioni hanno previsto registrazioni ambientali, esplorazioni in camera anecoica, soundscape costruiti da materiali d’archivio, l’uso di microfoni a contatto su oggetti domestici e momenti di condivisione come un laboratorio di DJing e una festa. In questo processo l’ascolto si configura come pratica collettiva che costruisce prossimità e rende percepibili dimensioni intime e comunitarie insieme; diventa dissenso rispetto al privilegio del parlare come unica modalità di connessione, spostando il baricentro dall’eloquenza all’udibilità dei corpi e dei loro archivi affettivi [1]. La distinzione udibile/inaudibile cessa di essere un dato tecnico e si rivela una decisione istituzionale: Sonic Stories la problematizza dall’interno, trasformando l’archivio sonoro delle vite in controgeografia affettiva.

Anna Raimondo (Caserta, 1981. Vive e lavora a Bruxelles) esplora la vocalità come soglia porosa tra lingua, silenzio e ascolto, dove l’enunciazione eccede il codice e ne rivela la normatività. La radiofonia, intesa come laboratorio originario e infrastruttura critica, non costituisce un semplice veicolo di trasmissione, ma un dispositivo capace di trasformare la tecnica in forma e la prossimità in politica, luogo in cui l’accento e la traduzione vengono continuamente rinegoziati. Le sue pratiche decostruiscono immaginari e consuetudini culturali, facendo della fluidità identitaria un campo operativo. Un “io” dichiaratamente situato e relazionale, in dialogo con la tradizione wittighiana, orienta una postura etica dell’ascolto, mentre lo spazio è trattato come dimensione relazionale e di prossimità che rinegozia continuamente i confini tra pubblico e privato. In New Boundaries of the Well-Being of the Vaginal Ecosystem (dal 2017) Raimondo elabora cartografie transfemministe attraverso interviste orali e sonore con donne cis, trans, queer e intersex, individuando i luoghi significativi delle loro città e restituendone la memoria affettiva e politica. Ogni tappa del progetto genera paesaggi sonori composti a partire dalle voci e dalle essenze uditive degli spazi evocati. L’opera prende così forma in un dispositivo plurale che ridefinisce le relazioni nel campo di co-presenza, e restituisce udibilità a geografie affettive. Tra i diversi nuclei progettuali della sua ricerca, quello dedicato al mare costituisce un osservatorio privilegiato, in cui si condensano i principali vettori della sua pratica: ascolto situato, voce plurale, appartenenza negoziata. Derrière la mer (2018) Anna Raimondo convoca un coro di voci eterogenee, provenienti da differenti orizzonti geo-culturali, intrecciandole a passi coranici e biblici dedicati al mare, assunto come elemento simbolico e referenziale, al tempo stesso matrice culturale e spazio mitico di attraversamenti, pericoli e proiezioni collettive. La partitura in tre movimenti – Toward the sea, Crossing the sea, Beyond the sea – trasfigura l’esperienza sensuale, il pericolo della traversata e la proiezione simbolica dell’oltre. Il mare diviene così soglia e palinsesto, materia fluida di risonanze plurali, capace di ospitare linguaggi e memorie senza mai farsi frattura. In Mi porti al mare? (2016) la figura della sirena diventa dispositivo di negoziazione del comune e di riscrittura simbolica delle appartenenze; mentre il progetto itinerante Come un mare fuor d’acqua (2015) presenta una meditazione sull’assenza come condizione generativa, interrogando il paradosso di reinventare il mare dove non c’è. Attraverso la raccolta di narrazioni, memorie e immaginari delle comunità coinvolte, Raimondo convoca l’elemento acquatico come figura preliminare che dischiude un orizzonte più vasto: quello della collettività intesa come campo di risonanza. Al di là dell’acqua stessa, ciò che emerge è un pensiero della relazione, una trama eteroclita che restituisce visibilità a ciò che non ha voce, reinventando, come interferenza, le condizioni del comune.

Verso una micropolitica dell’udibilità
Leggere congiuntamente queste pratiche consente di delineare una micropolitica dell’udibilità che intreccia tecnica, spazio e corpo. Pensare il rumore come pratica femminista, nelle sue declinazioni estetiche e simboliche, significa riconoscere l’agency sonora dei corpi. Anche le scelte tecniche – spazializzazione, prossimità microfonica, compressione, filtraggio – non sono neutre, ma parametri politici che determinano inclusioni ed esclusioni dell’udibile. La cura ecologica dell’ambiente sonoro è inseparabile dalla giustizia sociale: non esiste soundscape armonico senza redistribuzione delle possibilità di produrre e di essere ascoltate. Non si tratta di aggiungere voci a un canone, ma di ripensare le strutture che decidono cosa è udibile, dove e per chi. In questa prospettiva, il rumore è politica dell’attenzione e della relazione, capace di aprire interstizi di esperienza e trasformare la vulnerabilità in risorsa. La soglia tra segnale e rumore diventa così terreno di una controgeografia del sensibile, dove l’ascolto è pratica di dissenso e trasformazione.
Note
[1] Il frame concettuale dialoga con l’idea di “lifetime soundtrack” (Lauren Istvandity): il canone metaforico di musiche e suoni che accompagna l’esistenza e ne sedimenta gli affetti.
Bibliografia
Attali J., Rumori. Saggio sull’economia politica della musica, Mazzotta, Milano, 1968.
Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 2018.
Berger J., Ways of Seeing, Penguin, Londra, 1972.
Cavarero A., A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Castelvecchi, Roma, 2022.
Cavarero A., Restaino F., Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, Milano, 2002.
hooks b., The Oppositional Gaze: Black Female Spectator, Routledge, Oxfordshire, 2014
Irigaray L., Speculum (l’altra donna), Feltrinelli, Milano, 1975.
Meulders M., Helmholtz. Dal secolo dei Lumi alle neuroscienze, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.
Mignolo W. D., Epistemic Disobedience, Independent Thought and Decolonial Freedom, in «Theory, Culture & Society», 26/7-8 (2010), pp. 159-181, DOI.
Schafer M.R., Il paesaggio sonoro. Il nostro ambiente acustico e l’accordatura del mondo, Casa Ricordi-LIM, Milano, 2022 (edizione a cura di Giovanni Cestino).
Schroeder F. e Straebel V. (a cura di) Sound Studies and Sonic Arts Reader, Universitätsverlag der TU Berlin, Berlino, 2017.
Voegelin S., Listening to Noise and Silence: Toward a Philosophy of Sound Art, Continuum, Londra, 2010.
Weibel P. (ed.), Sound Art. Sound as a Medium of Art, MIT Press, Cambridge, MA, 2019.
Sitografia
Giuliana Schiavone è storica dell’arte e curatrice, articola la sua attività tra ricerca, insegnamento e progettazione culturale. La sua ricerca dottorale alla Universidad de Alcalá (Spagna) indaga pratiche artistiche intermediali in prospettiva femminista. Pubblica saggi e cura cataloghi per progetti espositivi. È coordinatrice dei progetti europei della Fondazione Pino Pascali e fa parte della rete Mexicanistas, Académicos & Investigadores dell’Ambasciata del Messico in Italia.
