§violenza
CAS-SA
di Giovanni Ferrara

Kimpua Nsimba non è deceduto durante la traversata nel mar Mediterraneo, non è deceduto nei campi di prigionia per migranti in Libia e nemmeno mentre cercava di ricongiungersi con qualche familiare in territorio europeo. Nel 1993 Kimpua Nsimba, un uomo di 24 anni nato nell’allora Zaire, si suicidò in Gran Bretagna in un centro di detenzione per immigrati.

Esiste un confine labile e invisibile presente all’interno delle città, una linea sottile che si sposta attraverso epoche, necessità economiche e sociali, che divide l’individuo definito migrante dal tessuto sociale seguendo, con altre forme, quella conformazione urbana delle città coloniali che prevedeva una divisione netta fra zone abitate dai coloni rispetto alle aree abitate dai colonizzati.

«Mondo a scomparti, manicheo, immobile, mondo di statue: la statua del generale che ha operato la conquista, la statua dell’ingegnere che ha costruito il ponte. Mondo sicuro di sé, che schiaccia colle sue pietre scorticate dalla frusta. Ecco il mondo coloniale. L’indigeno è un essere chiuso in un recinto, l’apartheid non è che una modalità della divisione in scomparti del mondo coloniale. La prima cosa che l’indigeno impara, è a stare al suo posto, a non oltrepassare i limiti» (Fanon, 2000, p.18).

Frantz Fanon attraverso questa breve descrizione presente nei Dannati della terra definisce il senso di questo confine che possiede oggi nuove forme; “l’immigrato” è un essere chiuso in un recinto e deve imparare a restare al suo posto, a diventare un “buon immigrato” seguendo i modelli offerti. Non deve oltrepassare i limiti predisposti e costruiti attraverso una rete complessa di dispositivi che controllano e gestiscono il suo corpo, permettendo una sua “civilizzazione” e definendo quindi lo spazio in cui esso può agire.

La ricerca Cas-sa, condotta all’interno del sistema di accoglienza straordinaria in Italia, strutture definite con l’acronimo CAS, nasce come enunciazione di un contro-spazio, attraverso l’analisi di dati e numeri che classificano e catalogano il corpo del richiedente asilo in una scala precisa di valori e coefficienti. L’area di due metri e settantacinque, prevista dai bandi di gara per ogni “ospite” nei centri di accoglienza, rappresenta non solo lo spazio limite in cui poter agire, ma è l’elemento della misura corporea che rende il corpo un limite insuperabile, una sospensione spazio-temporale, che favorisce la percezione esclusiva dell’io istituzionalizzato. Nonostante la possibilità per gli “ospiti”[1] di uscire liberamente dal centro durante le ore diurne, uno degli aspetti che sembra immediatamente rilevante è il carattere di sistema sociale chiuso (Rahola, 2003). Questo elemento richiama l’organizzazione di particolari strutture sociali, definite istituzioni totali (Goffman, 2003), fondate sulla necessità di prendere in carico i bisogni soggettivi attraverso dei parametri applicabili all’intera collettività. I centri di accoglienza straordinaria, in continuità con le istituzioni totali, assumono un ruolo funzionale rispetto alle politiche attuali, spesso sono scuole di asservimento e di indottrinamento in cui i richiedenti asilo apprendono le regole del “buon immigrato” ottenendo un’identità formale che si compie considerando ogni cosa come una benevola concessione. Attivando una spoliticizzazione, l’ospite deve essere a-politico rendendo quindi l’accoglienza, e i suoi meccanismi, una questione puramente tecnico-morale. Il CAS diviene quindi il garante di una costruzione costante di corpi invisibili, oscurati lontano dai centri abitati delle nostre città.
Questo spazio costruito per gli “altri” è un luogo che si perde negli interstizi burocratici e legislativi, nascosto dall’immenso peso del sistema di accoglienza italiano. La centralità delle strutture temporanee, quali i centri di accoglienza straordinaria, all’interno di questo meccanismo evidenzia l’esistenza di un sub-sistema, di uno stato che determina le conseguenze pratiche e sociali sul territorio, una zona grigia costituita da direttive e circolari ministeriali che spesso dilatano il rapporto e le responsabilità istituzionali.

L’analisi condotta quindi si è soffermata su documenti, normative, regolamenti e programmazioni, tentando di evidenziare il ruolo di questi strumenti «preposti a dare la versione ufficiale della realtà» (Arosio, 2010); una zona in cui le parole non sono fonte di diritto, bensì segnano uno spazio di infra-diritto, costituito da tutti quegli elementi che regolano gli ambigui sistemi normativi dei centri di accoglienza.
I processi di istituzionalizzazione dello spazio e del corpo del richiedente asilo nascono soprattutto dalle pratiche quotidiane, passando attraverso le procedure descritte e con l’assegnazione di uno spazio minimo costituito da undici metri quadrati previsti per quattro persone, circa due metri e settantacinque per ciascun “ospite”.
Tale parametro strutturale e architettonico compare costantemente nei bandi ministeriali disposti per la gestione a favore di cooperative o aziende private che prenderanno in “custodia” i richiedenti asilo. I gestori dei centri, successivamente, sottoporranno il richiedente asilo a un ulteriore normativa esclusivamente intera alla struttura, giustificando tale atto come elemento di coordinazione della convivenza. La firma del contratto, fra ospiti e gestore, è la prima pratica che viene eseguita all’interno dei centri di accoglienza straordinaria.
Al suo interno, questo contratto, contiene il regolamento stilato dall’ente, il quale disciplina gli orari relativi alla distribuzione dei pasti, il rientro serale, indicando in modo arbitrario tutte le istruzioni sull’allontanamento temporaneo e la convivenza.

Il contratto all’interno della logica dei centri di accoglienza quindi diviene, in modo paradossale, una forma di annullamento della responsabilità statale e sociale; una promessa mancata in cui non esiste l’anima dell’accordo, non esiste alcun “elemento non contrattuale del contratto”[2], cioè quella parte «senza il quale un contratto non è in grado di funzionare, un elemento difficilmente definibile» (Taussig, 2008).
Il rapporto di forza che coinvolge tutte le parti, e direttamente “ospiti” e operatori, è un continuo ricatto. Non è assolutamente la promessa implicita fra le parti a sostenere il contratto e la convivenza bensì la continua pressione.
Il centro di accoglienza straordinaria è eterotopia diffusa, visibile solo attraverso la condizione giuridica di sospensione del richiedente asilo, che rappresenta anche l’unica possibilità di accesso a questo spazio.
Lo spazio eterotopico del CAS rappresenta quel processo di naturalizzazione del migrante, la sua purificazione istituzionale che deve avvenire costantemente in uno spazio altro. Due metri e settantacinque centimetri, rappresentano quindi lo spazio virtuale a disposizione di ogni individuo “ospitato” nei centri, restando il luogo in cui non è il corpo a risiedere ma solo la figura giuridica che lo rappresenta, lo status di richiedente asilo. Costantemente altrove, il corpo è collocato in uno spazio paradossale fra visibile e invisibile, fra estensione e costrizione (Foucault, 2006).

Il lavoro si presenta attraverso l’analisi di parametri e regolamenti stabiliti per la realizzazione dei centri di accoglienza straordinaria, rispettando le condizioni strutturali e abitative stabilite dai bandi di gara. All’interno delle normative che caratterizzano la struttura istituzionale, il corpo è “misurato”, schedato, collocato in uno spazio preciso, scorporato attraverso la sua condizione giuridica e amministrativa.
Marcel Mauss definisce l’Habitus «le modalità attraverso cui le persone ‘abitano’ i loro corpi, così che questi si ‘abituino’», in questo caso l’uso del corpo subisce le disposizioni sociali e i regolamenti amministrativi che diventano quindi elementi condizionanti di comportamenti che appaiono come processi naturali, favoriti spesso dal racconto istituzionale a cui siamo sottoposti.
Il lavoro, quindi tenta di uscire da quella zona sicura e morbida costituita dagli atti ministeriali, scomponendo l’ordine imposto dagli schemi normativi e disciplinari, ragionando attraverso quel «potere invisibile dell’addomesticamento alienante capace di un’efficienza straordinaria» utile ad attuare la «burocratizzazione della mente» (Mauss, 1965).
Ed è proprio l’assetto burocratico, e soprattutto i suoi interstizi, a diventare non solo parte processuale di ricerca ma strumento di analisi di quegli atti che segnano un nuovo livellamento, un nuovo ordine di abitare lo spazio.
Quando risuona nell’aria il termine accoglienza, rifletto sul senso stesso della parola, penso a Kimpa Nsimbua che giunto in Europa aveva creduto nel senso dell’accoglienza, ma quell’Europa «che non la finisce di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle sue stesse strade, a tutti gli angoli del mondo» (Fanon, 2000, p.261), lo ha tradito.

Giovanni Ferrara, Cas-sa, 2019. Metallo, carta 267x181x202cm

Note
[1] Definizione presente su circolari ministeriali di individui in attesa della propria richiesta di asilo.
[2] Emile Durkheim all’inizio del Novecento definiva tale elemento difficilmente definibile, ma senza il quale il contratto non sarebbe stato in grado di funzionare.

Bibliografia
Arosio L., L’uso dei documenti, in A. De Lillo, (a cura di), Il mondo della ricerca qualitativa, Torino, Utet, 2010.
Cèsaire A., Discorso sul colonialismo, Ombre corte, 2014.
Fanon F., I dannati della terra, Einaudi 2000. Prim.Ed Les damnes de la terre, Francois Maspero editeur, 1961.
Foucault M., Utopie eterotopie, Cronopio, 2006.
Goffman E., Asylum, Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza , traduzione di Franca Ongaro Basaglia, collana «Biblioteca», Einaudi, 2003.
Mauss M.Le tecniche del corpo, in Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965.
Rahola F., Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Verona, Ombre corte, 2003.
Scheper-Hughes N., Il sapere incorporato: pensare con il corpo attraverso un’antropologia medica critica, in Borofsky R., L’antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma 2000.
Taussig M., Leggerezza e promesse di piuma, Camere #7 Ram radioartemobile, Roma 2008.

Giovanni Ferrara, nasce a Napoli nel 1991. Si diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Il personale lavoro di ricerca si sviluppa attraverso l’analisi e l’indagine sul rapporto dell’uomo con gli accadimenti storici, utilizzando mezzi disciplinari vari in cui gli elementi prelevati dalla realtà vengono riconfigurati, tentando di azionare meccanismi minimi utili a fornire una nuova lettura del reale.