§Ricco Patrimonio / Povera Patria
Che farcene del patrimonio culturale,
quattro scenari e una ipotesi
di Francesco Mannino

Quest’estate ero a Milazzo, in provincia di Messina, in vacanza con la mia famiglia. Lì c’è un castello spettacolare: Milazzo è una cittadina sviluppata su un istmo pianeggiante che porta ad un lunghissimo promontorio (capo Milazzo), un dito gigante che punta alle isole Eolie. Proprio in cima al promontorio c’è questo castello, o meglio una vasta cittadella fortificata aragonese con dentro il castello federiciano da cui è possibile spaziare con lo sguardo dalla costa tirrenica a ovest e a est, fino alle Eolie a nord e ai Nebrodi e all’Etna a sud. Straordinario. Mentre mi aggiravo stupito e ammaliato all’interno delle fortificazioni, mi sono affacciato da una di esse notando giù di lì un bastione difensivo, uno dei tanti di cui la cittadella è circondata. 

Si notavano i segni evidenti di un intervento recente con un ponte di collegamento con basi in cemento e pedane in legno, dei corrimani e dei restauri della parte in muratura. Ma il legno era marcito in più punti, la vegetazione spontanea dominava i camminamenti così come i fossati: insomma, il bastione era inutilizzabile, malgrado gli evidenti interventi a suo ripristino. Stavo osservando l’ennesimo caso di risorse pubbliche investite e poi vanificate a seguito di una totale assenza di continuità gestionale di quel recupero, in spregio ai principi della tutela, ma anche dell’oculato impiego delle risorse pubbliche, a maggior ragione in tempi così duri e profondamente caratterizzati da diseguaglianze e fragilità sociali.

In quel momento ho finalmente deciso di scrivere questo testo, una sintesi di quindici anni di osservazione e riflessione sugli usi (e disusi) del patrimonio culturale cosiddetto valorizzato, e una ipotesi sugli approcci possibili. Lo propongo qui sperando che abbia una qualche utilità.

Il bastione est del castello di Milazzo, foto dell’autore

Il patrimonio vale tutto uguale?

Vorrei fare però una premessa doverosa, giusto per capirci prima di proseguire. In un Paese in cui alla retorica incessante del primato patrimoniale culturale fa drammaticamente da contraltare una evidente attenzione privilegiata per il patrimonio cosiddetto “bello”, “centrale”, “attrattore”, proviamo in questa sede ad assumere per un momento che davvero non esista patrimonio di serie A e patrimonio di serie B, e che quindi in termini di rilevanza abbiano lo stesso valore il duomo di Venezia, il Colosseo, la chiesetta diruta delle campagne interne della Sicilia o il bastione abbandonato del castello di Milazzo: tutti questi patrimoni ci dicono allo stesso modo qualcosa della nostra storia, e di come l’abbiamo percorsa nel tempo fino alla contemporaneità. Se proviamo a concordare su questo assunto, il resto dei ragionamento potrebbe avere senso.

 

Un inarrestabile deterioramento

Eppure il nostro patrimonio culturale meno centrale, quello diffuso o cosiddetto minore (e non solo) si sta inesorabilmente ed esponenzialmente deteriorando: negli ultimi cento anni dipinti murali, tetti, facciate, solai e mosaici che avevano retto per secoli, stanno via via rotolando rovinosamente verso la distruzione, un po’ riscontrando l’incredulità e la rabbia di alcuni, un po’ nella rassegnazione e nell’abitudine al degrado di altri. Franco Milella, esperto di sviluppo locale e partenariati di Fondazione Fitzcarraldo, da anni ci ricorda che sono “oltre 50.000 beni culturali sui quasi 110.000 censiti nella Carta del Rischio del patrimonio culturale in condizione di abbandono o di mancata fruizione. Quasi il 60% degli immobili pubblici (stimati da ISTAT nel 2016 per un valore di circa 340 miliardi di Euro) [sono] in condizioni di grave sottoutilizzo, senza redditività economica, sociale, culturale­”.

La domanda che da tempo in molti si fanno è: che fare? Io credo che ci siano sostanzialmente quattro scenari possibili, e li riassumo qui.

Primo scenario: lasciare tutto com’è 

Lasciare che l’abbandono e l’incuria, il tempo, gli agenti atmosferici, le nuove condizioni ambientali che caratterizzano la nostra aria, le nostre acque e i nostri suoli da circa cento anni a questa parte, che tutto ciò faccia il suo e completi una tendenza ampiamente consolidata, cancellando in pochi decenni quello che in qualche modo era arrivato a noi con una apparente ostinazione e una certa resistenza: tutto questo sembra essere ciò che gli uomini, e tra loro i decisori, abbiano già scelto per il nostro patrimonio culturale diffuso, soprattutto quello considerato minore. 

Non è uno scenario distopico, ma solo una previsione di ciò che potrebbe avvenire a seguito della valutazione di un recente passato e di un evidente presente, ormai ben leggibili entrambi: anni di proclami sulla fine delle risorse pubbliche (soprattutto per il patrimonio culturale minore), di spallucce alzate, di indignazioni intermittenti, ma anche di restauri svolti solo “per non perdere il finanziamento” (europeo, ministeriale, regionale e chi più ne ha più ne metta). Le politiche pubbliche sulla tutela del patrimonio culturale degli ultimi anni hanno prodotto tre categorie: il patrimonio del tutto abbandonato (quel 40% circa di cui ci parla Milella), quello ripristinato per non perdere occasioni finanziarie (e che spesso, a visitarlo da privilegiati, è caratterizzato nei suoi ambienti inesorabilmente chiusi, umidi, salnitrici e inutilizzati da quell’inconfondibile odore di fondi europei mal spesi) e infine, quello che ha potuto godere sia degli interventi di restauro e tutela che di fruizione e valorizzazione. 

Se questo scenario può sembrare una provocazione, basta farsi un giro attento nelle città e nelle campagne italiane e contare ciò che ormai è perduto, per capire quanto questa sia la previsione più attendibile e purtroppo concreta.

 

Secondo scenario, il mito (tubulare) della valorizzazione

Come è assai noto, il Codice dei Beni Culturali del 2004 aveva introdotto l'”innovazione” della gestione indiretta delle forme di valorizzazione. Non intendo qui riportare il dibattito sugli esiti – a distanza di 17 anni – di quelle scelte normative, ma mi pare pacifico e deduttivo che i privati chiamati a farsi carico delle attività rivolte al pubblico abbiano dovuto (o voluto) considerare centrale il tema della sostenibilità e della remunerazione delle proprie attività, optando anche nei casi di assegnazioni di lotti misti (grandi attrattori e patrimonio minore) per scelte che privilegiassero i grandi attrattori a scapito del patrimonio minore. Non è sempre stato così, ma lo è stato diffusamente. 

In altri termini, se hai un’impresa culturale che deve garantire ai propri soci dividendi che valgano l’investimento, scegli di puntare laddove ci sono più ricavi possibili, e la valorizzazione assume un nuovo significato prevalentemente economico e selettivo. In alcune occasioni pubbliche consulenti della CONSIP, l’agenzia che gestisce le gare dello Stato per acquisire servizi o prodotti (anche culturali), hanno dichiarato che per le imprese culturali che gestiscono i servizi al pubblico ex art. 117 del Codice dei Beni Culturali, il pareggio tra costi e benefici si raggiunge solo quando si supera la soglia dei 200-250mila visitatori paganti l’anno: è facile immaginare che, alla luce di un parametro simile, solo alcuni dei beni culturali del nostro territorio siano appetibili per investimenti del genere, lasciando fuori tutto il resto, secondo un approccio tipico del nostro presente, caratterizzato da politiche e strategie che sembrano vedere solo il “centro” del tutto, tanto i patrimoni culturali “maggiori” o “grandi attrattori” che i “centri storici” o le forme culturali “alte”, sfocando fino all’esclusione e al disinteresse tutto ciò che sta fuori da quei “centri”, ovvero il patrimonio culturale “minore”, le cosiddette periferie, le forme culturali “altre”. 

Se mi è consentita una metafora clinica, è proprio come se questo nostro presente soffrisse di quella patologia detta visione tubulare che rende chiaro solo il centro dello sguardo, sfocando tutto il resto ed eliminandolo dalla percezione visiva. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un interesse prevalente da parte dei grandi e medi player della valorizzazione e dei servizi al pubblico verso i grandi attrattori, il fallimento di gare di affidamento riguardanti il patrimonio minore o addirittura la totale assenza di politiche di tutela e valorizzazione per questi ultimi.

 

Terzo scenario, partenariati speciali per la valorizzazione, croci e delizie

A seguito della polarizzazione evidente che il sistema di affidamento dei servizi al pubblico produce ormai tra i diversi patrimoni sul piano della valorizzazione, dal 2016 circa si sta via via affermando la tendenza a nuove forme di collaborazione tra enti pubblici e soggetti diversi dalle grandi e medie imprese culturali più note e consolidate: un approccio che confida nel fatto che forme di partenariato speciale tra pubblico e privati, non dominato dalla prevalenza del vantaggio economico di questi ultimi, possa imprimere una nuova vita alla valorizzazione del patrimonio con il coinvolgimento attivo di attori del territorio interessati alla tutela e all’utilizzo sociale e culturale del patrimonio in disuso o sottoutilizzato. 

Tra i più noti, precoci e virtuosi casi è noto quello del Teatro Tascabile di Bergamo (Milella; Macdonald) che con il Comune ha sottoscritto un accordo ventennale rinnovabile per il recupero e l’utilizzo dell’ex Monastero del Carmine. Anche chi scrive, con la associazione Officine Culturali impresa sociale ETS di cui è presidente, ha sottoscritto nel 2020 un accordo simile con l’Università di Catania per la valorizzazione del patrimonio culturale dell’ente, e in particolare per il Monastero dei Benedettini, vasto complesso architettonico parte del sito Unesco del sudest siciliano e sede universitaria dal 1977, animata dal 2010 da una iniziativa permanente di cura da parte di una comunità di riferimento interessata alla tutela e allo stimolo alla maggiore e migliore partecipazione culturale. 

L’innovazione del sistema dei partenariati speciali, introdotti dal Codice del Lavori Pubblici (DLGS 50/2016) con il suo Art. 151 c. 3, sta a mio avviso nel passaggio da un modello di concessione basato su capitolati redatti ex ante da enti che per il motivo stesso di esternalizzare i servizi culturali dichiarano di non avere competenze e risorse interne, a una governance della valorizzazione in itinere, strada facendo. Una governance che la norma e le note integrative seguenti rendono molto flessibile e adattabile a un tipo di attività, quella della partecipazione culturale, assai cangiante e con pubblici (forti o potenziali) alle cui diverse esigenze è sempre più necessario rispondere in maniera dinamica e diversificata, senza i vincoli di un capitolato magari stilato anni prima nel chiuso di un ufficio.

È una forma di co-gestione che mantiene saldo il ruolo centrale dell’ente pubblico detentore del bene e deputato a imprimere la strategia generale, che trova nel privato flessibilità gestionale e rapporti con il territorio impensabili per la PA. Dal canto suo il privato può elaborare – forte del suo capitale umano e relazionale – strategie di efficacia culturale e sociale e al contempo modelli di sostenibilità che rispettino la traiettoria del partenariato e soprattutto che mettano al centro la valorizzazione del bene pubblico e non solo e principalmente il profitto di una azienda concessionaria. 

Questo è, in estrema sintesi, la personale valutazione dei punti di forza dei partenariati speciali pubblico privati per la valorizzazione del patrimonio culturale; ma va anche detto che questi partenariati stentano ancora a diventare una pratica diffusa, innanzitutto per un forte scetticismo degli amministratori pubblici, dirigenti e burocrati in testa, che in assenza di giurisprudenza consolidata tendono a considerare deboli le innovazioni normative e preferiscono ricorrere a strumenti più longevi, anche se producono spesso gli effetti summenzionati o vere e proprie gare deserte. 

Un altra debolezza dei partenariati è che possano essere interpretati dagli enti pubblici come possibili “ultime spiagge” per evitare all’amministrazione di doversi sobbarcare costi di recupero e soprattutto di gestione di beni in disuso o sottoutilizzo, scaricando al privato tutti gli oneri e i rischi nel nome di una innovazione di facciata riguardo porzioni di patrimonio su cui i grandi e medi player connotati dall’approccio del ritorno di investimento non punterebbero mai. Si tratta di un rischio molto concreto, reso ancor più possibile da una consolidata pratica di scaricabarile nei confronti di cittadini e organizzazioni sensibili e generose, prevalentemente del terzo settore, a cui – in nome di una retorica della partecipazione – si affidano luoghi (monumenti, edifici storici, parchi, aiuole) o attività ritenute un peso da parte delle amministrazioni, ma rilevanti per la comunità di riferimento, che però è pronta a organizzarsi e farsi carico di tutto, in un profluvio di abnegazione e risorse finanziarie e umane, conoscenze e competenze. 

Il meccanismo, che non fatico a definire perverso, è completato dal vantaggio per l’amministrazione in caso di successo dell’operazione e quindi, dalla possibile richiesta di maggiori entrate per le casse pubbliche (a scapito dei faticosi modelli di sostenibilità del soggetto gestore), o altrimenti di accusa di inefficienza e incapacità in caso di fallimento, pur di trovare un responsabile da esporre al pubblico ludibrio.

Sia chiaro: questo quadro non è una caratteristica precipua dei partenariati speciali pubblico privati, quanto una dinamica molto consolidata dei rapporti – a vario titolo – tra enti pubblici e soggetti privati, soprattutto se questi ultimi non sono soggetti “forti”. Ritengo che ancora le PA siano troppo intrise da un opportunismo spietato, un po’ frutto di una legittima tendenza a proteggere l’ente da rischi di eccessivo peso di soggetti privati, un po’ invece della comodità in cui certuni funzionari pubblici si trovano nella loro posizione garantita, fatto che gli permette una certa leggerezza nello scaricare oneri e rischi ad altri, soprattutto se non altrettanto garantiti.

In sintesi, credo che ad oggi gli enti pubblici non siano mediamente pronti ad affrontare con serietà e consapevolezza i vantaggi dei partenariati (con alcune significative eccezioni, ovviamente), se non prima si saprà agire anche top-down sul rafforzamento delle loro competenze, se non addirittura su un profondo rinnovamento della classe dirigente in tal senso. Il Ministero della Cultura è ufficialmente soggetto in campo nei partenariati, dovendone far parte ufficialmente: qualche anno fa si cominciò ad attrezzare per svolgere questo suo ruolo attivamente, ma concretamente ad oggi sembrerebbe non esserci neanche una unità operativa addetta al settore. E sono certo che se una amministrazione locale trovasse degli interlocutori ministeriali pronti ad accompagnarla nel percorso di istituzione di un partenariato, il processo sarebbe molto più fluido e probabilmente i risultati più efficaci. Ma ad oggi non è così, e spero di poter essere smentito.

 

Quarto scenario, le comunità patrimoniali e il valore d’uso dei luoghi

I tre scenari precedenti pongono diversi interrogativi e, trattandosi di ipotesi basate sulle esperienze italiane degli ultimi decenni, dimostrano l’evidenza di non poche criticità. Va ribadita l’eccezione dei partenariati che, lì dove sono partiti, sono in piena fase sperimentale, ma con grande fatica come si diceva, e in un ecosistema della pubblica amministrazione molto diffidente e a tratti opportunista. Viene da pensare che, se riuscissimo davvero ad evitare che la tendenza al totale deterioramento del patrimonio possa essere l’unico scenario che ci aspetta, non saranno certamente gli affidamenti dei servizi al pubblico ad invertire la rotta, e i partenariati sono ancora un campo di piena sperimentazione.

Pur correndo il rischio di sembrare assai ingenuo ritengo che, a fronte di tale pericolo irreversibile, lo Stato e le sue emanazioni debbano assumere un nuovo e imponente protagonismo, ma certamente la strada non può essere quella della asimmetrica distribuzione di risorse per la ristrutturazione dei grandi attrattori e poco altro, soprattutto se poi non si sa cosa farsene di un edificio ristrutturato perché non c’era un progetto d’uso preliminare. Anche qui mi si perdonerà la metafora tecnologica, anche se ormai largamente adottata: quando si pensa esclusivamente all’hardware e non al software, le macchine poi non lavorano, non funzionano, restano ferme perché nulla le anima. Il valore d’uso del patrimonio culturale diventa, nel nostro presente, un perno irrinunciabile se a questo patrimonio vogliamo garantire un futuro diverso dal deterioramento e se, allo stesso tempo, vogliamo che questo patrimonio non sia solo testimonianza di ciò che fu, ma anche luogo di ciò che è e piattaforma di ciò che potrebbero essere le nostre società e i nostri rapporti sociali (Venturi, Zandonai, 2019).

Nella ormai ratificata Convenzione di Faro, oggetto di dibattito da anni, il noto Art. 2 cita: «una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future». Mi sembra evidente che il tema dell’attribuzione di valore sia il primo degli aspetti interessanti di questa sintesi prodotta ormai nel 2005 dal Consiglio d’Europa: non è scontato che le persone lo facciano, e potrebbero farlo in modi e forme inedite, anche conflittuali. Ma il farlo, l’attribuire un valore a un determinato patrimonio culturale materiale, a un paesaggio urbano o extraurbano, a un’opera prodotta dall’uomo, significa attribuirgli una qualche rilevanza e quindi metterla da qualche parte nelle proprie dinamiche della vita e dell’agire.

Questo accade molto più spesso di quanto non si pensi, e non solo con il patrimonio centrale più noto, ma tanto anche con quello minore o secondario. Piazze, chiesette, paesaggi, edifici contemporanei: tutti spazi e luoghi che il Memorandum di Vienna di Unesco sui cosiddetti paesaggi urbani storici considera rilevanti perché hanno «un grande valore per la nostra comprensione di come viviamo».

_luca_kc, parkour al Monastero dei Benedettini di Catania (da Instagram)

È molto frequente per esempio che una piazza storica, circondata da beni culturali eccellenti, sia per gruppi di ragazzi e ragazze un luogo di socializzazione ad alto valore relazionale, in cui il valore culturale del patrimonio è secondario ma presente, ed entra in connessione con fenomeni culturali contemporanei con cui si intreccia e si fonde. Alcuni social network ci consentono di osservare forme di autoproduzione performativa, come la danza di strada o il parkour, in spazi urbani noti in quanto beni culturali ma ritenuti rilevanti dai/dalle performer, non solo nella qualità di quinta scenica della propria performance, ma anche come luogo in cui dare forma alle proprie relazioni sociali. 

Ciò accade anche in molti altri casi come piccole aree archeologiche animate da cittadini e associazioni, botteghe storiche trasformate in luoghi di confronto, edifici monumentali rifunzionalizzati per usi universitari, dove alla ricerca e alla didattica si intreccia la costruzione delle essenziali relazioni di giovani adulti e adulte che per la prima volta muovono i loro passi fuori da scuola e famiglia.

Infine, una ipotesi

Ecco che viene da pensare a uno scenario nuovo, forse in parte integrabile con le forme di partenariato speciale ma superandone i nodi più duri: e se i beni culturali divenissero non solo luoghi di conoscenza di ciò che è stato, ma anche luoghi di consapevolezza di ciò che è il presente e non di meno luoghi generativi di ciò che potrebbe essere il domani, allo stesso modo di qualsiasi altro luogo di socialità? E se il nostro patrimonio culturale divenisse, per una azione strategica dello Stato in sintonia con i suoi cittadini, non solo oggetto di conoscenza ma anche luogo per esercitarla quella socialità, in modo che diventi anche cittadinanza attiva? 

Se i musei, i monumenti, le piazze storiche, le zone archeologiche, i teatri, gli edifici pubblici come biblioteche e archivi, stanti le ovvie condizioni di tutela previste per legge e assolutamente necessarie, si trasformassero in luoghi di aggregazione, dove non sia sempre imposto di tacere o sussurrare, vietato discutere e confrontarsi, e svolgere tutte le attività consone alla costruzione di relazioni sociali civiche? 

Antonella Agnoli lo dice da anni riguardo le biblioteche, adducendo copiosi esempi nazionali e internazionali in tal senso. Sono quasi sempre biblioteche pubbliche che hanno saputo costruire i propri spazi non solo intorno al libro come bene da tutelare e prestare, ma anche attorno all’umanità del contesto di cui quelle biblioteche erano parte, consentendo quindi allo stesso modo sia al lettore di entrare, prendere in prestito o consultare e leggere, ma anche al viandante di riposarsi, al bambino di giocare, al ragazzo di passare un pomeriggio spensierato anche ballandoci dentro. Sala Borsa di Bologna è un evidente esempio in questo senso, ed è – come è noto – una biblioteca civica.

Biblioteca Sala Borsa di Bologna, dal sito ufficiale

Sì, perché realtà come quelle di Sala Borsa non potrebbero esistere se non ci fossero stati ingenti investimenti pubblici animati da una visione della funzione sociale della biblioteca e di tutto l’edificio: ecco che Sala Borsa diventa un punto di riferimento non solo per come è stata articolata e per le diverse funzioni che ospita, ma anche per il modo in cui il soggetto pubblico ha deciso di svolgere il suo ruolo, trasformando un patrimonio monumentale e bibliotecario in un luogo di socializzazione che svolge un’importante funzione di interesse generale. 

Sento già risuonare il mantra assordante della assenza di risorse pubbliche: ma questa riflessione avviene nel 2021, l’anno di quel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza parte del programma europeo Next Generation EU (NGEU) che prevede tra l’altro l’impiego di 22,6 miliardi di euro per la missione “Inclusione e Coesione”, 31,9 miliardi di euro per “Istruzione e Ricerca” e 31,5 miliardi di euro per “Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica”, in cui sono previsti interventi ogni anno su 50.000 edifici privati e pubblici da rendere più efficienti. Insomma, alle risorse ordinarie si aggiungono altre risorse straordinarie che, in aggiunta alla missione “Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura” a cui sono stati assegnati 49 miliardi, costituiscono una base molto concreta per nuovi investimenti pubblici su quel possibile connubio che è cultura e sociale.

Se è vero come sembra che l’incrocio tra una tendente crisi del neoliberismo e gli esiti devastanti della pandemia stanno definitivamente portando diversi decisori pubblici verso un cosiddetto neostatalismo (Gerbaudo, 2021) credo che una nuova visione del patrimonio culturale come strumento (e luogo) di coesione sociale possa trovare spazio e applicazione, risalire fino alla visione generale e farsi strategia. Una strategia che sappia risemantizzare il patrimonio diffuso recuperato (l’hardware culturale), portandolo dalla sua essenza di “oggetto” a quella innovata di “luogo” di pratiche collettive (il software coesivo). In altri termini, una “azione pubblica” (come dice Faro) che faccia sì che i beni pubblici (la maggior parte, ma non solo) siano accompagnati a trasformarsi in beni comuni, vissuti e in alcuni casi (ma non necessariamente) co-gestiti da persone accomunate da bisogni simili, dalla necessità di usufruire di spazi all’aperto o al chiuso per svolgervi attività sociali e socializzanti.

Se davvero la coesione sociale è un obiettivo irrinunciabile come la salute pubblica, il contrasto alle diseguaglianze e al disastro ambientale (anzi forse ne costituisce un prerequisito) ecco che forse il patrimonio culturale può svolgere un ruolo nella sua difficile costruzione, mettendo a disposizione di questo difficile processo generativo il proprio carico valoriale ma anche più pragmaticamente i suoi spazi e le sue strutture materiali. E lo stesso patrimonio d’altro canto ne gioverebbe, diventando non più appendice di improbabili interventi (quando attuati) sporadici e asimmetrici, e assolutamente temporanei e destinati al deterioramento, ma luogo di relazioni sociali capaci di generare per il bene materiale anche maggiore rilevanza, attenzione e interesse di chi li anima e li frequenta. Un mutuo beneficio possibile solo da un cambio radicale di approccio da parte dello Stato, che oggi ha la possibilità di scrivere il futuro come poche altre volte nella storia, ma deve decidere cosa davvero gli interessa prioritariamente.

Bibliografia

Consiglio D’Europa, Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, Faro 2005. LINK
Gerbaudo P., Dopo la pandemia, il neo-statalismo prende il posto del neo-liberismo, Le Grand Continent 2021. LINK
Macdonald G., L’innovativo istituto del partenariato speciale con il Teatro Tascabile di Bergamo, LABSUS – Laboratorio per la sussidiarietà 2020. LINK
Milella F., Il destino dei luoghi, in «Il Giornale delle Fondazioni», 10.2018, Fondazione Venezia 2000. LINK
Ministero Economia e Finanze, Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), 5.2021 LINK
Venturi P., Zandonai F., Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società, Egea 2019

Francesco Mannino (1973), PhD in storia urbana, lavora a Catania con lo staff di Officine Culturali, l’associazione impresa sociale di cui è co-fondatore, presidente e project manager: con il suo gruppo lavora all’ampliamento sostenibile della partecipazione culturale. Dal 2018 è membro del direttivo Federculture e nel 2020 è stato eletto coordinatore Sicilia di ICOM Italia. È consulente culturale per diversi enti pubblici e privati.