ENGAGEMENT AND CONFLICT
Il conflitto negli anni del consumo totale
di Massimo Ilardi

Come dare forma alle pratiche di libertà anarchiche, individualiste, antistituzionali, violente che attraversano la metropoli contemporanea: una delle questioni centrali per la politica sembra essere questa. Ma è proprio qui, su questa incapacità che si consuma la sua crisi. Non si tratta solo di crisi delle sue forme organizzative, della deriva del suo ceto dirigente, del crollo dei suoi istituti per la rappresentanza, si tratta di qualcosa di più: di mancanza di una cultura all’altezza dei tempi che la rendono insensibile a quel mondo della pura contingenza, della intensità dei desideri, dell’eccesso di presente che sono le modalità in cui le vite di uomini e donne si danno. Nell’era del consumo totale la libertà non è un viaggio interiore. Essere liberi non vuol dire ‘pensarsi’ liberi o costruirsi una differente coscienza di sé: essere liberi è una pratica che si dispiega e si materializza immediatamente sul territorio contro ogni impedimento e contro ogni etica della responsabilità che ne vogliono ostacolare la marcia. L’idea di una libertà assoluta, collocata in un tempo e in un luogo neutro, è un’astrazione che non può valere neppure come un’idea regolativa o come principio guida. E’ a livello locale che si gioca la partita. Se dimentichiamo questo precipitiamo di nuovo dentro la città del moderno quando la mediazione politica era possibile perché erano gli ordini simbolici universali a dettare le identità. Non è sul terreno del simbolico che si innesca oggi il conflitto tra ordine e disordine, ma su quello più effimero dei segni e dei marchi che saranno pure drogati dal consumo ma rimangono, piaccia o no, il luogo dove oggi l’immaginario collude con la realtà, dove le identità scompaiono e si impongono la pluralità delle appartenenze non più legate all’ideologia ma a culture e mentalità.

A questo comportamento, che fonda la prima legge di movimento di una società del consumo, la politica non sa rispondere, si rifugia nell’ autoreferenzialità, trova più comodo accusare di antipolitica quello che si sottrae alle sue briglie e a un mondo di valori precostituiti, che prende corpo fuori della tutela non solo formale della legge e della legalità,  che rinnega il passato trasmesso come pura eredità. Questi stessi valori, questa stessa legalità, questo stesso passato che invece la politica vuole ancora usare come fattori immutabile di coesione e di ordine. La politicizzazione del sociale, che per l’agire politico è lo strumento essenziale per esercitare egemonia, non avviene più, semmai sia avvenuta, attraverso l’utopia di un altro mondo possibile ma  dentro la capacità di tradurre in conflitto il mondo che già c’é. Ma che cos’è oggi il mondo? Non è forse disegnato dalla merce e dal consumo che hanno reso anacronistico ogni valore e, dunque, ogni istanza di forma? E l’uomo non coincide forse con l’individuo consumatore che distrugge sistematicamente comunità, identità, relazioni, affettività, forme di rappresentanza? Ma si dirà: è proprio di fronte a queste condizioni che la politica deve opporre la propria specificità, perché è dentro questa opposizione che  trova il suo fondamento. E’ vero, ma è anche vero che proprio sulla misura di questo fondamento che si gioca la possibilità di un ritorno del primato della politica. Perché se si ritiene che questo fondamento debba affondare le sue radici in culture universalistiche, indifferenziate, generiche, eternamente perdenti che presto si esauriscono e inaridiscono non riuscendo mai a praticare una egemonia culturale e tanto meno a cambiare i rapporti di forza a livello sociale, mi riferisco, ad esempio, all’ideologia del pacifismo, del lavorismo, del giustizialismo fino ad arrivare oggi al movimento dei cosiddetti “beni comuni”, le possibilità di questo ritorno equivalgono a zero. Il conflitto esplode oggi non più per prefigurare o costruire il futuro ma per appropriarsi del presente e per distribuire risorse: se è così, la politica allora non può rappresentare contro l’anarchia della realtà l’idea di un tutto, ‘forma gloriosa’ di una universalità che si erge ancora una volta a totalità di un intelletto ‘separato’ dal mondo. Cosa si oppone al pensiero unico del sistema di mercato? Una forma assoluta che pretende di rappresentare il corpo mistico di un’idea che non si vuole incarnare nel mondo?

La politica ha bisogno invece di soluzioni, di punti fermi che la inchiodino al suolo. Ha bisogno di territorializzare e di perimetrare, ha necessità di nominare i ‘luoghi’ se vuole avere qualche pur minima possibilità di governarli. E’ un problema appunto che riguarda non i valori ma la cultura, una cultura che metta al centro proprio quello che la politica ha perso di vista, e cioè il conflitto sociale. Occorre tornare a fare teoria, teoria dei conflitti e dei soggetti, teoria di parte che scavi dentro contesti materialmente determinati.

I conflitti sociali sono di conseguenza il tema centrale di questo numero. E, d’altra parte, nelle metropoli del mondo, dopo Seattle (1999) e Genova (2001), quello che sembra emergere è proprio l’esplosione di nuove forme di conflittualità. Esse sono determinate:

-dall’assenza dei movimenti e dei grandi soggetti istituzionali (partiti e sindacati). Non esiste   nulla che possa saldare i diversi conflitti verso un’unica organizzazione o un unico scopo. A scatenarli sono ora piccoli gruppi unificati da interessi immediati e privi di motivazioni ideologiche, che puntano direttamente allo scopo senza acquisire mai struttura organizzativa stabile. Il conflitto diventa autonomo dai grandi soggetti, si sottrae alla loro pensabilità, non fa riferimento ad alcuna contraddizione generale e, dunque, si dichiara insondabile agli strumenti della razionalità politica.  Non a caso, i protagonisti degli scontri non riescono mai a salire al ruolo di soggetti politici. Per questo vanno decifrati sociologicamente e non economicamente, proprio perché inadeguati a tradurre in politica la loro carica conflittuale. Incapaci di produrre soggettività politica, e cioè identità centrate, responsabili, durature, danno vita invece ad azioni, comportamenti, gesti che si esauriscono nel momento stesso del conflitto;

-dalla possibilità di individuare, nonostante questa frantumazione degli scopi e degli obiettivi, alcuni comportamenti che identificano i protagonisti delle lotte e che portano a definire una cultura in comune che distribuisce appartenenze e disegna mentalità: non il lavoro è al primo posto ma il consumo, non la democrazia ma la libertà, non la distruzione del sistema ma la violazione del suo ordine e delle sue gerarchie, non il tempo del futuro ma lo spazio del presente. Nessuna meta ideale, niente che assomigli a ‘qualcosa che non siamo e che dobbiamo essere’;

-dalla centralità che assume il territorio. Per due motivi: primo, perché la domanda di libertà, non quella astratta dei diritti ma quella materiale innescata dai desideri cresce in un luogo concreto e in un tempo preciso e risponde sempre alle domande: chi sono i soggetti che la chiedono? dove la chiedono?  come raggiungerla? quando? Secondo, perché nella metropoli dell’iperconsumo, priva di valori e di futuro e dove le utopie e i desideri si proiettano sul terreno per la loro immediata realizzazione, è solo la realtà tellurica che riconosce la ‘parte’ e individua le differenze. Il soggetto perde la sua impotenza metafisica, si definisce unicamente in base alle sue continue dislocazioni territoriali. Quello che ne viene fuori é un territorio che si struttura esclusivamente in connessione ai diversi rapporti di forza che man mano vi si esercitano;

-da una violenza incontrollata che sconfina, in molti casi, nella dimensione di una guerra civile a bassa frequenza. Questo sembra dar ragione a Hans Enzensberger quando affermava, già alcuni anni fa, che in realtà la guerra civile ha fatto il suo ingresso nelle metropoli contemporanee, una guerra civile molecolare dovuta alla perdita dei principi e dei grandi valori universali. Ogni discorso sul rifiuto o meno della violenza non può a questo punto che partire da qui: dal crollo della città del moderno che con il suo primato della politica mediava i conflitti e dall’espansione della metropoli dell’iperconsumo che ha invece il suo fondamento nell’individuo e nella sua libertà di scelta. Afferma Mike Davis che la concezione riformista dello spazio pubblico, come emolliente del conflitto sociale e come fondazione di una polis è ormai divenuta obsoleta quanto i precetti keynesiani del pieno impiego.
Se non teniamo conto di tutto questo non solo non capiremmo i conflitti ad alta intensità che hanno investito le metropoli in questi ultimi dieci anni, ma neanche quell’arcipelago spontaneo di pratiche di ribellione e di violenza senza nome che si dispiega nei territori urbani e che incarna una violenza priva di mediazioni, di spessore temporale, di una ideologia che la sostenga. Violenza come puro scontro esistenziale, senza compromessi, dove si può solo vincere o soccombere. L’altro non ha legittimità, può solo sparire. Scopo del conflitto diventa quello di provocare e di innescare il conflitto stesso. Una visione conflittuale assoluta che assegna non identità ma appartenenze, tanto lucida e consapevole da portare a ogni costo allo scontro.  “Per questo le periferie mi interessano –dichiara J.G.Ballard- perché vedi accadere il futuro. Lì ti devi svegliare al mattino e devi decidere di compiere un atto deviante o antisociale, perverso, foss’anche prendere a calci il cane, per poter affermare la tua libertà.” Violenza e libertà: un binomio difficile da separare. Ma su questo punto, la violenza rimane l’unica forza in grado di fare chiarezza: la violenza crea caos ma è il ristabilimento dell’ordine a creare violenza e questo dilemma è irrisolvibile, afferma Wolfgang Sofsky;

-dal passaggio dal conflitto come forma di relazione politica alla rivolta “come pratica di sottrazione e liberazione di spazi (anche immateriali) dal controllo e dalla gerarchia del comando politico, pratiche in cui i processi di appartenenza e soggettivazione passano spesso da dimensioni culturali e territoriali piuttosto che da ambiti economici.” (F.Tomasello). Nella rivolta niente é rimandato al futuro, conta il momento del conflitto in cui la stessa realtà si esaurisce. Ogni rivolta ha dunque i suoi soggetti e i suoi obiettivi. Il sociale si frantuma in tante minoranze quante sono le culture che lo attraversano e la conflittualità endemica che ne consegue impedisce la formazione di una sfera pubblica. La lotta diventa anarchica, non rappresentabile dai partiti o dalle altre forme della politica. Ha ragione Alain Bertho quando afferma che esiste un filo rosso che accomuna queste rivolte nonostante la differenza delle latitudini e delle condizioni di vita. E questo filo rosso è tracciato da una violenza improvvisa e irriducibile, da un’assenza di coordinamento delle lotte, dalla giovane età dei rivoltosi, dal chiamarsi fuori da parte degli stessi giovani da qualsiasi rapporto con la politica e lo Stato, dall’obiettivo di  abbattere e non di prendere il potere. Sono  conflitti extraeconomici proprio perché gli unici in grado oggi, di fronte alla caduta di centralità e di legittimità del lavoro e della politica perché non più riconosciute a livello sociale, a mettere in crisi la governabilità del mercato che sul territorio vuole ridurre tutto a rapporto economico che é il terreno dove si stabiliscono le gerarchie e i diversi livelli del potere dentro la società. Quando non sono più l’ideologia della lotta di classe o l’utopia di un nuovo mondo liberato dal profitto a politicizzarsi, ma il desiderio di libertà come diritto di foggiare liberamente la propria vita a proprio piacimento é proprio il conflitto extraeconomico a determinare gli scenari della vita metropolitana. E in un’economia che a questo punto è messa fuori controllo dal desiderio “il sociale non può più far comunicare l’economico e il politico, il quale a sua volta non può più fabbricare sociale a partire dall’economico. Tutto quello che era sociale è oggi un campo di rovine […]” (A.Touraine);

-dal fatto incontrovertibile che sicurezza, controllo e libertà non vanno d’accordo, come non vanno d’accordo la costruzione di una società artificiale disegnata dal mercato e la cultura del consumo che innesca invece un vero e proprio processo di desocializzazione. Scrive Giovanni Sartori: “Il mercato é cieco di fronte agli individui, é individualisticamente daltonico; é invece una spietata macchina al servizio dell’insieme, della società.” Non solo. Nella metropoli del consumo totale, voler bloccare i processi di distruzione attraverso i quali una moltitudine di individui consuma e dissolve quotidianamente e incessantemente non solo oggetti ed eventi, ma affettività, valori, interessi generali, forme di rappresentanza, istituzioni rischia di far crescere in maniera anomala e mostruosa una interiorità che alla prima occasione che le se presenta per tracimare non può che farlo in modo violento e devastante. E dove può tracimare se non sulle strade della metropoli?

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Massimo Ilardi Massimo Ilardi insegna Sociologia Urbana presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, Università di Camerino. E’ stato direttore della rivista ‘Gomorra’ e ha fatto parte della direzione delle riviste Laboratorio politico e Luogo comune.  Attualmente dirige la rivista ‘Outlet’. Le sue ultime pubblicazioni sono: Il tramonto dei non luoghi. Fronti e frontiere dello spazio metropolitano (Meltemi 2007), Il potere delle minoranze (Mimesis 2010).