Con il regio decreto del 26 aprile 1923, per la prima volta si parla in maniera esplicita e istituzionale dell’istituzione del “saluto romano”, che il fascismo aveva adottato come forma di riconoscimento e di saluto rispettoso tra fascisti. In questa prima formulazione si fa riferimento, fondamentalmente, ai militari, ma è già abbastanza chiaro che, di lì a poco, sarebbe diventato un modo per salutarsi in generale nelle situazioni pubbliche, in riferimento a istituzioni dello Stato e persino alla bandiera. Il decreto non si limitava a spiegare le modalità, ma indicava quali fossero le motivazioni morali che avevano spinto il fascismo ad adottare il saluto romano nel paragrafo intitolato “saluto del milite isolato”, nel quale si legge: «il saluto è un segno di rispetto dovuto dall’inferiore al superiore ed è la più palese manifestazione esteriore della subordinazione» e poi poco oltre «il saluto del milite disarmato è quello romano, può essere eseguito con il braccio destro o col sinistro». Poco oltre, il testo introduceva l’idea che il saluto non era solo una forma di sottomissione ma anche una forma di condivisione, dicendo: «il saluto fra gli appartenenti alla milizia volontaria per la sicurezza nazionale ed i militari del regio Esercito, della regia Marina e della regia Guardia di Finanza, è obbligo di cameratismo e di cortesia tra italiani che hanno una stessa idealità tendente al bene e dalla grandezza della patria» (Gazzetta Ufficiale, 1923, pp.3306-3307). Infine, il testo dava precise indicazioni fisiche su come eseguire il saluto, nominando il numero di passi, la distanza e una serie di norme rituali perché venisse realizzato in maniera corretta.
Va precisato che il cosiddetto “saluto romano”, in realtà, non è affatto romano, visto che nessuna fonte imperiale o del periodo repubblicano romano mostra un gesto simile a quello proposto dal regime, il saluto militare dell’epoca assomigliava molto più al normale saluto della mano all’altezza del berretto. Fu proprio il fascismo, e molto probabilmente Mussolini in persona, che volle dare la connotazione di romano a questo tipo di saluto, per designare un segno, un gesto pubblico che richiamasse quotidianamente il legame tra l’impero fascista e l’antica Roma. In un piccolo libro molto interessante, lo studioso tedesco Allert Tilman ha analizzato l’utilizzo in Germania dello stesso saluto in periodo hitleriano, raccontando come questo sia stato definito in Germania al tempo “saluto tedesco” perché potesse sostituirsi alle numerose forme di saluto che ciascuna regione del paese aveva tradizionalmente. Non mi soffermo sui numerosi significati che il saggio attribuisce al gesto nazista, ma appare quanto mai interessante rilevare che Hitler che, come ormai si dice da molte fonti storiche, aveva una grande ammirazione per Mussolini e tendeva ad imitarlo in tutto e per tutto, si sia voluto appropriare anche del saluto romano, ma non lo abbia potuto chiamare così proprio perché il riferimento all’antica Roma era già più che chiaro nella cultura del suo grande amico e alleato. Riferisce Tilman: «In un articolo intitolato Il saluto ‘fascista’, pubblicato nel supplemento mensile del Völkischer Beobachter nel giugno 1928, Hess sosteneva che: “L’introduzione del saluto a braccio alzato da parte del NSDAP, avvenuta circa due anni fa, fa ancora ribollire il sangue di alcuni. I suoi oppositori sospettano che il saluto sia poco germanico. Lo accusano di aver semplicemente scimmiottato i fascisti e sostengono che sarebbe stato meglio attenersi all’usanza militare di alzare la mano sul cappello e altre sciocchezze del genere. Osserviamo più da vicino il saluto e le obiezioni che gli vengono mosse. Alzare il braccio è il modo più naturale di salutare. Per esempio, quando bambini e adulti salutano le persone che sfrecciano davanti a loro in auto, la loro risposta riflessa è proprio il gesto appena descritto. Già nel 1921, molto prima che si sentisse parlare dei fascisti e del loro saluto, i nostri leader venivano salutati» (T. Allert, 2008, p.23).
In ambedue le dittature il saluto perde il valore di scambio, abbandona il ruolo di gesto di cortesia e di augurio, per diventare simbolo di sottomissione, di adesione e di unità incondizionata, al di là delle singole volontà. Appare ancora una volta importante notare come Mussolini, anche molto prima che nascesse il nazismo, avesse costruito un sistema di comunicazione estremamente raffinato, che non era indirizzato solo alle grandi strutture del potere, ma si insinuava nella vita quotidiana di tutti i cittadini e le cittadine, producendo immagini che ancora oggi hanno un enorme potenza. Non a caso in Italia il saluto romano è stato vietato quando è stata stilata la famosa legge Mancino, che condanna l’apologia di fascismo, confermando così che il gesto semplice di un saluto, ha sempre avuto un valore simbolico e iconico fortemente significante e, proprio mentre finisco di scrivere questo libro, nasce di nuovo una polemica, ormai quasi comica, sull’uso del saluto in pubblico da parte di frange della destra, nemmeno più tanto estrema in Italia.
Giovanni Morbin, realizza un lavoro esemplare sul saluto fascista, in cui lo ha analizzato da più punti di vista, producendo diverse forme di rilettura di quel segno. In Istria, a Rijeka (Fiume), l’artista ha allestito una mostra personale tutta incentrata sul saluto romano, scegliendo non a caso questa città e ricollegandosi alla sua storia più recente. Fiume fu l’oggetto di scontri tra gli italiani, i cosiddetti «Legionari d’Italia», capitanati da Gabriele D’Annunzio, che volevano prenderne possesso e annetterla al regno d’Italia, in opposizione con i governi croato, sloveno e serbo (la futura Jugoslavia), che ne rivendicavano ugualmente l’annessione. Nel 1920 Gabriele D’Annunzio occupò Fiume e la trasformò in uno Stato indipendente, proclamando la nota reggenza italiana del Carnaro, che altro non fu che una dittatura che, appellandosi al fatto che molti dei cittadini di Rijeca parlavano italiano, pretendeva di trasformare la città in un possedimento italiano, allargando così i confini della penisola ad est. Sforza, ministro degli esteri del governo Giolitti, firmò, con i governi serbo, croato e sloveno, il cosiddetto «trattato di Rapallo», in cui si dava effettiva indipendenza a Fiume, da cui tutti i governi si sarebbero ritirati. D’Annunzio, con i suoi legionari, si oppose e si asserragliò in città, ma le truppe italiane, nel Natale del 1920, li costrinsero alla resa. Durante l’occupazione di Fiume, D’annunzio, fece un famoso discorso affacciato al Palazzo del Governo della città dove, per la prima volta, utilizzò proprio il saluto romano, subito dopo ripreso da Mussolini, accorso in aiuto e sostegno. Per Morbin, dunque, realizzare una mostra proprio nel luogo dove, di fatto, quel gesto era stato compiuto per la prima volta, ha avuto un particolare significato simbolico, anche perché la cosiddetta “impresa di Fiume” viene considerata da molti una sorta di prova generale per la dittatura fascista in Italia.
Il lavoro di Morbin, Something Else [2], prevedeva, prima di tutto, una performance per le strade della città in cui l’artista girava con il braccio alzato, come nel saluto romano, ma con sotto una impalcatura in gesso che lasciava nell’ambiguità la lettura della sua situazione. Il gesto riprodotto era palesemente quello che faceva riferimento agli appena raccontati episodi dannunziani ma, d’altra parte, mostrava anche qualcuno ferito o comunque in uno stato di infermità. Morbin inizia a girare per la città, scatta sue foto e osserva la reazione dei cittadini: ancora una volta il suo lavoro non è una rievocazione univoca, né una lettura rigida del passato, ma ci pone davanti alla riemersione di immagini e iconografie, che continuano a vivere quotidianamente intorno a noi, ma come camuffate, mai rese evidenti, eppure sempre parlanti. Morbin ripete un gesto fondamentale per Rijeka, un episodio che ne ha cambiato la storia per sempre ma che, in qualche modo, è stato poi pacificato e reso di nuovo innocuo dalle false narrazioni, specie da parte italiana. Il fatto di apparire con un gesso fa pensare subito a due tipi diversi di situazioni: da un lato la malattia, la rottura, qualcosa che ha a che vedere con un atto violento subìto; dall’altro, il tentativo di curare, di guarire, di riparare.


G. Morbin, “Something Else”, 2014. Performance. Rijeka.
Nel gesto di Morbin per le strade di Rijeka c’è, nello stesso tempo, il dolore e la violenza della frattura e il tentativo goffo e mal riuscito di curarla, magari semplicemente in una sorta di scomoda e rigida struttura, che lascia nel più totale discomfort. L’artista cammina per le strade di una città che, per molto tempo, è stata considerata una sconfitta italiana, cosa su cui si è costruito un vero e proprio mito culturale, che è proseguito anche durante il periodo fascista e durante la Seconda guerra mondiale. L’attraversamento dell’artista, quindi, non è affatto innocente, al contrario appare come una sorta di fantasma della storia che, improvvisamente, si materializza e torna a confrontarsi con un passato complesso.
Morbin realizza poi, sullo stesso tema, una serie di sculture e di interventi che, semplicemente, riprendono l’angolo di inclinazione del saluto romano considerando la superficie che si sviluppa partendo dal braccio inclinato, immaginando il corpo come un lato dritto che, con la linea di terra come base, produce un trapezio rettangolo posto in verticale. L’artista parla proprio di un solido che raffigura la porzione di aria che si crea sotto il braccio teso al momento del gesto. Il primo lavoro è ottenuto tagliando un libro in due parti, utilizzando una sezione trapezoidale uguale a quella derivata dal saluto romano: il taglio divide la figura di Benito Mussolini da quella della folla che lo acclama e, la parte in cui resta la figura del dittatore, riporta in rosso il titolo Monaco 1938, mentre l’altra parte, quella con la folla, ha la frase discorsi di prima e di dopo, sempre stampata in rosso. La metà con la figura di Mussolini è adagiata sul tavolo, mentre l’altra resta in piedi per formare, nello spazio, la figura geometrica del saluto, come una sorta di piccolo monumento. Il riferimento a monaco 1938 richiama evidentemente la conferenza svoltasi in quell’anno nella città tedesca, intorno alla questione dell’annessione della Cecoslovacchia alla Germania nazista e a cui parteciparono, da un lato, gli alleati inglesi e francesi e, dall’altro lato, Hitler e Mussolini. Episodio, considerato di fatto la prova generale della Seconda guerra mondiale e il più grande errore strategico degli alleati, che diedero così il via all’espansione hitleriana in Europa. La conferenza vide la mediazione diplomatica di Benito Mussolini a cui, da ambedue le parti, fu data molta importanza, e che segnò anche un punto di svolta nella politica fascista, che da quel momento in poi rinsaldò ancora di più l’alleanza con la Germania e iniziò anche ad allargare le sue mire espansionistiche, guardando verso l’Albania. Morbin separa il duce dalla folla perché questo è anche l’inizio della fine del consenso, è anche il momento in cui Mussolini inizia una politica belligerante, che lo separerà dal suo paese e creerà la prima vera forma di opposizione. Il libro riporta il titolo discorsi del prima e del dopo proprio perché il 1938 è il vero anno di svolta, della via di non ritorno, della fascistizzazione di tutta l’Europa — con l’annessione dell’Austria da parte di Hitler, con la vittoria di Franco in Spagna, aiutato anche dalla dittatura fascista instaurata in Portogallo da Salaazar nel 1932 — ed è l’anno dell’espansione imperiale dell’Italia che, non a caso, proprio nel ‘38 deciderà di uscire dalla Lega delle nazioni.
Ancora una volta Morbin non esplicita nulla, non cita fatti in senso letterale, non sceglie una strada didascalica, ma traccia dei segni che ricordano ed evocano accadimenti molto spesso dimenticati nella storia recente, che hanno determinato l’ascesa dei regimi dittatoriali in Europa occidentale. La scelta di usare la forma del saluto romano serve nuovamente ad affermare che il dato essenziale è nella scelta dei gesti, intesi sia come atti fisici sia, più in generale, come atti performativi, come in questo caso.
Asti, Senza titolo. Collage su foto vintage, 2010. 18,3 x 24,1 cm.
Centuria autonoma universitaria, Senza titolo. Collage su foto vintage, 2006 – 2008. 18 x 23.6 cm
L’angolo del saluto, Senza titolo. Collage su foto vintage, 2007. 12,9 X 18,4 cm.
Legionari, Senza titolo. Collage su foto vintage, 2006-2008. 13 x 18.2 cm.
Olimpiade, 2011. Collage su foto originale 16,5X23 cm.
Parata Firenze. Collage su foto vintage, 2008. 13 X 17,8 cm.
Parata, Senza titolo, 2007. Collage su foto vintage. 12 X 18,3 cm.
San Giusto, Senza titolo. Collage su foto vintage, 2006. 15,9 X 22,7 cm.
Stadio Berlino, 2008. 10,2 x 14,5 cm.
Stadio, 2010. Collage su foto originale. 17,8 X 23,3 cm.
Morbin produce un’ampia serie di foto collage in cui, lo spazio d’aria sotto il saluto romano, diviene un volume di carta burro, semi trasparente, che si sovrappone alle fotografie per rendere concreto, tridimensionale e praticabile con lo sguardo quello spazio, rigido e geometrico, che irreggimenta il corpo nel saluto. Le immagini sono di vario tipo, tutte dell’epoca e rappresentano militari, notabili del regime, atleti, persone comuni, tutte nell’atto di compiere il famoso gesto. La carta sovrapposta rende bene l’idea dello spazio concreto, seppure nella realtà invisibile, che sostiene il braccio, lo costringe ad incrinarsi con gradazione precisa, gli fa disegnare una geometria che con la sua esattezza contribuisce all’edificio del potere. I trapezi di carta a volte vengono giustapposti creando una sorta di piccoli edifici, non a caso simili a obelischi, che si intromettono nei corpi, in qualche modo li violano in maniera evidente, costringendoli in una rigidità che li immobilizza.
Note
[1] Testo estratto dal libro V. Gravano, Di-scordare. Ricerche artistiche in Italia sulle eredità del fascismo, DeriveApprodi, Bologna 2004
[2] Giovanni Morbin, Something Else, MMSU Museum of Modern and Contemporary Art, Rijeka (HR), ottobre-novembre 2014.
Bibliografia
Allert T., The Hitler salute. On the meaning of the gesture, Metropolitan Book, New York 2008; (trad. it.) Heil Hitler! Storia di un saluto infausto, Il Mulino, Bologna 2008.
Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, 26 aprile 1923, n.98, pp.3306-3307.
Giovanni Morbin nasce a Valdagno (VI) il 9 agosto 1956. Vive e lavora a Cornedo Vicentino. Nel 1982 si diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia dopo aver seguito il corso di pittura nel laboratorio di Emilio Vedova. Insegnate di Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico “U. Boccioni” di Valdagno (VI). Dal 1978 la sua ricerca è legata ai comportamenti e la performance è il mezzo ideale per esprimere le sue idee.