Premessa
L’Arte dei Rumori, la dodecafonia e la “materia sonora”
«La vecchia convenzionale distinzione secondo la quale i rumori sarebbero prodotti da “vibrazioni irregolari” mentre quelle “regolari” produrrebbero suoni di tipo musicale, è una scappatoia facilona, priva di puntelli scientificamente validi. La stessa contrapposizione fra le idee di vibrazioni regolari e irregolari è molto nebulosa e non può trovare conferma» (Righini, 1987, p. 147-8).
Il percorso che consente alla fine del Novecento una simile definizione inizia però all’inizio di tale secolo. È l’11 gennaio 1914 quando Luigi Russolo brevetta a Milano gli intonarumori. Nel 1916 per le Edizioni Futuriste di “poesia” viene pubblicata L’Arte dei Rumori (Russolo, 1916). La parte caduca di tale saggio (e del futurismo in generale): apologia delle macchine e, aihmè, della guerra, non deve farci dimenticare l’importante contributo teorico e pratico per l’emancipazione in musica del rumore, sia per quanto riguarda l’ascolto, sia per quanto riguarda l’aspetto compositivo e la pratica strumentale.
Negli stessi anni Arnold Schönberg approda per la prima volta dall’atonalità ai primi abbozzi seriali e alla dodecafonia.
Come viene confutata la gerarchia suono/rumore che poneva quest’ultimo ai margini della musica, così accade per il sistema tonale dove non vi è più una scala con le sue gerarchie rappresentate dai gradi. Prima fu la “dissonanza” poi l’erranza atonale, o il politonalismo a viaggiare verso orizzonti sconosciuti, la dodecafonia propone invece un sistema dove “tutti” gli armonici (ancora però nell’ambito del temperamento equabile) hanno pari dignità. Sarà, detto tra parentesi, l’ultimo tentativo della musica occidentale, che durò appena circa un trentennio, di ricreare una koinè, ossia un linguaggio musicale comune, il vicolo cieco del “serialismo integrale” porterà velocemente a scardinare il sistema.
La musica (seguendo un percorso analogo a quello delle altre arti) riparte dal suo fondamento genetico: la materia sonora.
Tra le due guerre le ricerche sulle percussioni (del 1929-32 è Ionisation di Varèse, la prima opera da concerto per sole percussioni), quelle sul timbro che già era emerso come fondativo nell’opera di Debussy e «grazie all’opera soprattutto di Charles Ives, di Edgar Varèse, di Béla Bartok, le oramai logore categorie distinte del suono e del rumore […]» cessano «di essere antagonistiche […]. La musica elettronica e quella concreta, a partire dagli ultimi anni Cinquanta, accentuano l’interesse per la modificazione radicale dello spazio acustico» (Gentilucci 1991, p. 83).
La trasformazione degli strumenti tradizionali in “intonarumori”
Una diagnosi errata e una conseguente smentita profezia
Fred K. Priesberg in Musica ex machina, un testo del 1960, cita e ribadisce un passo di Ferruccio Busoni dall’Abbozzo per una nuova estetica della musica (cf. Busoni 1977; su questo prezioso saggio anticipatore torneremo più oltre):
«“Un giorno, improvvisamente, mi apparve chiaro che lo sviluppo dell’arte musicale si arresta a causa dei nostri strumenti […] Ogni libero tentativo di volo del compositore sarà vano: nelle più recenti partiture come in quelle del prossimo futuro ci imbatteremo sempre di nuovo nelle particolarità dei clarinetti, trombe, violini, che appunto non possono comportarsi in modo diverso da quel che prescrive la loro limitatezza; a ciò si aggiunge la mancanza di naturalezza degli esecutori quando suonano il loro strumento; le vibranti effusioni del violoncello, il titubante attacco del corno; la timidezza asmatica dell’oboe, la vanagloriosa scorrevolezza del clarinetto…” Oggi, dopo che più di cinquant’anni sono trascorsi da questa dichiarazione di Busoni, si può essere ancora più chiari: questi strumenti classici dovrebbero sparire nei musei. Rispetto al presente livello della perfezione tecnica essi sono delle costruzioni difettose, irrimediabilmente antiquate, un tormento per gli orchestrali, un ostacolo al raggiungimento di una buona esecuzione, miserabile mercanzia, con valvole rumorose, corde scordate, tubi dai quali scorre la saliva, goffe e rozze forme di latta, legno, filo e peli di cavallo. Ma oggi abbiamo finalmente la musica elettronica. Russolo non ne sapeva nulla» (Priesberg 1975).
La diagnosi di Busoni nei primi anni del Novecento prima delle esperienze di Russolo poteva essere corretta (anche se assai poco profetica), quella di Prieberg fu, invece, completamente sbagliata. Nella dedica al suo libro Nuovi suoni per i legni Bartolozzi infatti ricorda: «Il professor Penazzi – primo fagotto dell’Orchestra del Teatro della Scala e insegnante al Conservatorio G. Verdi di Milano – mi dimostrò già nel 1960 come era possibile ottenere con il suo strumento nuovi risultati sonori (omofoni e polifoni), dandomi poi la sua piena collaborazione nello sviluppare una nuova tecnica» (Bartolozzi 1973) 1960: lo stesso anno in cui Prieberg pubblicava il suo volume.

Nel secondo dopoguerra proprio insieme e nel confronto (e in quasi virtuoso certamen) con la musica concreta e poi elettronica, strumentisti e compositori esplorano nuovi orizzonti sonori negli strumenti acustici tradizionali.
Si aprì una fertile stagione di ricerca tanto nell’ambito “colto” quanto in quello della tradizione jazz.
Così come aveva fatto l’uso (quantitativamente e qualitativamente) integrale delle percussioni e la ricerca non più decorativa ma sempre più strutturale del timbro, l’elettronica e gli strumenti elettrici aprirono nuovi orizzonti sonori. Spesso i risultati finali tanto della musica concreta quanto di quella propriamente elettronica erano deludenti, ma grande fu lo stimolo dato all’esplorazione di nuovi approcci alle fonti tradizionali della musica, tanto riguardo ai singoli strumenti, quanto all’intera compagine orchestrale, compreso il ripensamento di famiglie strumentali e registri.
Era quello, per altro, che aveva immaginato proprio Busoni e in modo più empirico (ma efficace) Russolo. In particolare il saggio citato di Busoni presenta squarci e prospettive rivoluzionarie che solo nel secondo dopoguerra inizieranno a diventare tangibili. Lo stesso Cage ne terrà conto (Guanti 1999, pp. 29-35).
Questo ampliamento delle risorse degli strumenti risponde pienamente alle nuove ricerche acustiche e compositive. Esso avviene sia dal punto di vista sistemico e strutturale: uso dei terzi, dei quarti di tono o dei sesti di tono (come aveva auspicato Busoni mezzo secolo prima), in ambito seriale o genericamente atonale (e più avanti anche neotonale), procedimenti nell’uso orchestrale di campiture timbriche, saturazione materica delle altezze; sia nell’ambito espressivo o decisamente “espressionistico”. Come cambia la concezione dello spazio sonoro così cambiano la scrittura musicale, la semiografia e i modelli euristici di approccio strumentale.

È scoperto, analizzato e meticolosamente studiato dagli strumentisti-compositori- improvvisatori il vasto universo delle tecniche estese (extended techniques), come verranno chiamate più avanti. In proposito il compositore “puro” (per così dire) collabora fattivamente con l’interprete virtuoso e ne viene totalmente condizionato.
Questo nuovo approccio allo strumento tradizionale è nello stesso tempo destrutturante e riconfigurante. Entreremo qui nel laboratorio della pratica strumentale cercando, con un esempio, di rendere tangibili i processi anche ai non addetti ai lavori.
Prendiamo il clarinetto.
Come gli altri legni, il clarinetto è uno strumento omofono, produce cioè un solo suono per volta (ad esempio, tra i fiati, polifonica è la cornamusa che ha più canne, ognuna con ancia vibrante incapsulata). Non produce dunque accordi: due o più suoni contemporaneamente, come il pianoforte o, in generale, gli strumenti a corda. Ecco, ad esempio, il primo paradossale travalicamento: lo scoprire e indagare una dimensione polifonica negli strumenti omofoni. Certo non avremo un accordo simile a quello del pianoforte con delle note della scala temperata suonate insieme con la stessa dinamica: più martelletti colpiscono più corde che danno vita ad altrettante onde sonore. La ben diversa produzione fisica di questi accordi – dove una stessa onda sonora viene, per così dire, costretta a moltiplicarsi – ne determina l’esito acustico. Il nome dato a questo risultato polifonico di uno stesso suono è multifonico o suono multiplo (multiphonic). Quest’ultimo, presenta caratteri diversi a seconda della diversa intensità degli armonici affioranti che lo compongono. Questo suono multiplo può avere la brusca ruvidezza di un “rumore”, con suoni di altezza ravvicinata, come un violento cluster o, al contrario, presentarsi come un raffinato percorso di due o tre suoni ad altezze fra loro distanti che si sovrappongono con delicata giuntura timbrica.
I multifonici stessi suggeriscono dei campi sonori, alimentano l’invenzione melodico-armonica oltre che, naturalmente, dinamico/timbrica. E così come i multifonici (nei legni) li provoca l’ampio spettro delle altre tecniche: negli archi, negli ottoni, nella voce.
Due esempi.
Krzysztof Penderecki, Polymorphia (1961) per 48 strumenti ad arco
Il brano fu commissionato da Radio Namburg ed è dedicato a Hermann Moeck, primo editore di Penderecki in Europa Occidentale.
Polymorphia per 24 violini, 8 viole, 8 violoncelli, 8 contrabbassi fu preceduto da Anaklasis (per archi e percussioni) del ’59 e, insieme a Trenody to the victims of Hiroshima (per 52 archi) del ’60 rappresenta l’esito compiuto, non più sperimentale dell’applicazione delle nuove tecniche alla famiglia degli strumenti ad arco.

La composizione si colloca (come quelle sopra citate) nel periodo cosiddetto sonoristico di Penderecki. Il sonorismo entra nel cuore della materia acustica e del suono e prevede l’organizzazione sistematica dei timbri: «Sonoristic regulation consist in an exploration of the pure sound values of the sound material» (Chominski citato da Mirka 1997, p. 7)
Gli studi di organologia e acustica di Mieczyslaw Drobner (di cui Pendereski fu per breve periodo allievo, cf. Drobner 1960) diedero dei suggerimenti importanti per il trattamento del materiale sonoro. I corpi vengono anzitutto semplicemente divisi in sorgenti sonore e stimolatori della sorgente sonora, la scelta dei materiali che determinano il timbro è presto data per gli strumenti ad arco: metallo, legno, feltro, crini a cu si aggiunge la pelle dello strumentista (dita, mani). Ognuno di questi materiali può essere a sua volta sia sorgente sonora che stimolatore.
Torniamo adesso all’aspetto formale e strutturale del sonorismo. Esso mette al centro il suono nella sua complessità; la classificazione tradizionale dei parametri musicali: altezza, intensità, timbro, durate, risulta una semplificazione utile solo sino a quando il dominio delle altezze e la loro organizzazione dirige e determina la struttura compositiva, ma diventa arbitrario e fuorviante quando si vuole entrare “nel cuore del suono”; essa separa ciò che è organicamente unito e pone sullo stesso piano elementi letti in modo unidimensionale (e matematico), come altezza, intensità e durata con un elemento polidimensionale e irriducibile alla unidimensionalità, ossia il timbro, che in buona parte li comprende. E qui siamo appunto nella grande svolta della musica occidentale postdodecafonica.
In quanto all’aspetto pratico e materiale vengono applicati con maestria le classificazioni del citato Drobner.
Lo strumento ad arco diventa a tutti gli effetti anzitutto uno strumento duplice: a corda (sfregata e pizzicata) e a percussione. Ma a questa basilare divisione si aggiunge la moltiplicazione delle sue possibilità: sia come strumento a corda sia come strumento a percussione. La corda è sfregata, pizzicata, colpita con le dita o con la mano e in ogni parte dello strumento – poiché in ogni diversa parte diversamente risuona – Lo strumento viene altresì sfiorato, carezzato, percosso in ogni sua sezione: la cassa, il ponte, la cordiera, tra ponte e cordiera ecc.. L’archetto viene usato nel crine, ma anche nel legno, nel metallo del tallone. Le mani o le dita diventano un altro corpo versatile di eccitazione della fonte sonora.
Non è il luogo per entrare nell’analisi della composizione, ma in sintesi e molto grossolanamente: cluster (attraverso l’uso dei quarti di tono vengono saturate le altezze di ambito di registro creando compatte fasce sonore), acutissimi (ad altezza indeterminata, l’indicazione è: il più acuto possibile), glissandi (non con note precise ma con indicazioni aleatorie all’interno di un ambito di registro) caratterizzano la prima e la terza parte, mentre quella centrale è appannaggio delle tecniche percussive.
La sapiente manipolazione totalizzante delle risorse acustiche di questi 48 archi travolge i sensi come solo i grandi fenomeni acustici naturali sanno fare. Nel finale, dopo un silenzio di due secondi gli archi chiudono in un maestoso e inaspettato accordo di DO maggiore (che, come disse l’autore: “è il seme da cui nasce l’intera composizione”).
Diretta dall’autore si ascolta e si vede (magnifica regia) in:
Ascension
«Il 28 giugno 1965 si può considerare una data fondamentale nella storia non solo del free jazz, ma di tutta la musica afro-americana. È il giorno in cui John Coltrane riunì nella sala di registrazione della Impulse, oltre i componenti del suo abituale quartetto (cioè il pianista McCoy Tyner, il contrabbassista Jimmy Garrison e il batterista Elvin Jones) e l’altro contrabbassista Art Davis […] altri sei musicisti, noti e meno noti dell’avanguardia di New York, per registrare quello che poi risultò, per dirla col critico Frank Tenot, “una delle più pazzesche orge sonore del secolo”: […]. Il disco uscì poco tempo dopo con il titolo Ascension.» (Gianolio A. e P., 1978).
Oltre al quartetto citato e ad Art Davis, figuravano i trombettisti Dewey Johnson e Freddie Hubbard, gli altosassofonisti John Tchicai e Marion Brown, i tenorsassofonisti Farrell “Pharoah” Sanders e Archie Shepp.

Il denso articolo citato esamina in modo esauriente sia armonico che storico e politico-culturale il capolavoro di Coltrane (sono gli anni delle grandi rivolte nere, pochi mesi prima era stato assassinato Malcom X: sul jazz e le lotte di liberazione degli afroamericani imprescindibile: Carles – Comolli, 1973), ad esso perciò rimandiamo, qui ci concentreremo solo sul nostro tema. L’uso eterodosso degli strumenti, in questo caso a fiato. In particolare ci occuperemo soltanto di due dei cinque assoli di sassofono.
Il brano alterna improvvisazioni collettive ad assoli. La forma è quella responsoriale, dove al solista si alterna il coro, caratteristica della musica africana e poi ripresa dal gospel, Anche l’improvvisazione collettiva è un’antica splendida concezione del jazz delle origini che il free jazz riporterà alla luce dandone una nuova spericolata dimensione.
Il primo assolo è quello di Coltrane: il sax emerge dal collettivo, quasi strappandosi dal suo gorgo furioso, con i sovracuti gridati: al suono dello strumento si unisce la voce, un urlo che sdoppia il suono, lo moltiplica: usando la voce (in modo più o meno gutturale) l’onda sonora non si sdoppia solo ma si lacera alternando o mischiando al bicordo un suono frantumato e quasi disperato. A questi acuti si alterna poi un fraseggio caratteristico dell’ultimo Coltrane che salta drasticamente dagli acuti alle ultime note del registro grave. La tensione espressiva esplode: il sax tenore sembra lacerarsi: gli estremi registri, i suoi limiti frequenziali vengono quasi a sovrapporsi allacciati talvolta da furiosi labirintici percorsi modali.
Il terzo assolo (che segue quello di Johnson e il quarto collettivo) è quello di Pharoah Sanders. Già emerge nelle ultime fasi del collettivo il suono frullato del tenore, il frullato è una pratica non nuova nei fiati (sin da prima del 1850 secondo il DEUMM, 1985, ad v.), ma Sanders la esaspera usando sia il frullato di gola che di lingua, coniugandolo con il multifonico prodotto dalla voce, franandolo nei salti di registro. I sovracuti di Sanders, quasi sempre fuori registro (coadiuvati forse dalla tecnica dei denti direttamente sull’ancia), delle vere e proprie grida, sono le uniche linee acuminate di un percorso altrimenti materico fatto di cluster fluttuanti dal medio al grave registro, torrenti di lava, suoni squarciati e lancinanti che si concludono in un gemito straziante da animale ferito.
Non avevano torto Platone e Aristotele, custodi dell’ordine di allora, a considerare moralmente – e dunque politicamente! – pericolosi e diseducativi gli auli (antenati degli odierni strumenti ad ancia), salvo che, Aristotele, non poteva nel contempo non sottolinearne l’aspetto catartico osservando: «L’aulo non serve a esprimere le qualità morali dell’uomo ma è piuttosto orgiastico sicché bisogna usarlo in quelle determinate occasioni in cui lo spettacolo mira più alla catarsi che all’istruzione» (Aristotele, 1972, p. 412-3 e 1957, p. 264). Mai orgia sonora, urlo di rabbia, invocazione ed evocazione di utopica liberazione erano stati lanciati – e da allora mai più saranno – con tanta veemenza e insieme sapienza.
Nuovi suoni per i “legni”
Così titolava il suo libro Bruno Bartolozzi (Bartolozzi, 1974), la prima edizione, in inglese, uscì a Londra nel 1967. Diplomato in violino e per la composizione allievo di Paolo Fragapane e Dallapiccola, dal 1960 fu tra i primi a interessarsi in modo organico e sistematico delle risorse dei legni grazie alla guida di Sergio Penazzi per il fagotto e di Lawrence Singer per l’oboe, i quali insieme a Giuseppe Garbarino per il clarinetto e a Pierluigi Mencarelli per il flauto diedero vita ad altrettanti metodi.
Distinte le possibilità in omofone e polifone e divisa l’ottava per quarti di tono, “Nuovi suoni” esplora le risorse timbriche con tavole di diteggiature alternative per ogni quarto di tono, le trasformazioni del suono, distinguendo gli armonici in naturali e “artificiali”; classificando i multifonici in “omogenei” e “con differente timbro”, combinando insieme le possibilità omofone e polifone.
Molti altri studi e altri metodi vedranno la luce in quegli anni, come, ad esempio, nel 1975, il pregevolissimo: El clarinete y sus possibilidades. Estudio de nuevos procedimientos di Jesus Villa Rojo (Villa Rojo, 1984).
Ora le cosiddette extended tecniques, dai fiati agli archi ecc., fanno parte del bagaglio di ogni strumentista che voglia cimentarsi con la musica contemporanea.

Ecatorf: un’esperienza personale
Che cosa succede ad uno strumento acustico quando si accosta o supera i cosiddetti limiti di udibilità dell’orecchio? Parliamo della soglia umana, dato che elefanti e balene superano tale soglia in basso e i pipistrelli, ad esempio, in alto. Generalmente nella musica l’ambito è quello della tastiera di un pianoforte normale, ossia da 27.5 hz. a 3.520 hz.: sette ottave. Il nostro orecchio può arrivare a contemplarne dieci: almeno un’altra ottava in basso e due in alto.
Dato che parleremo di uno strumento a fiato mi limito a portare esempi di quest’ultima compagine. Ma urge una breve precisazione tecnica. La terminologia dei registri con cui sono definiti i diversi membri degli strumenti a fiato tende a creare una certa confusione, poiché ogni famiglia ha ereditato una propria nomenclatura indipendente da una classificazione generale. Così, ad esempio, il sax subcontrabbasso ha la stessa tessitura del controfagotto che viene considerato – ed è – uno strumento contrabbasso (non subcontrabbasso). Si può dire che ogni singola famiglia della vasta compagine dei legni (clarinetti, sassofoni, oboi, fagotti, flauti) così come ogni singola famiglia di quella degli ottoni (trombe, tromboni, corni, flicorni) possiede una propria nomenclatura indipendente. Quindi sarà la frequenza a darci la cognizione dell’ambito di registro acustico in cui ci troviamo.
Il controfagotto: il più noto degli strumenti contrabbassi ad ancia in uso nelle orchestre, giunge al SIb a 29.1 hz., così come il clarinetto contrabbasso discendente. Il controfagotto discendente giunge mezzo tono sotto, al LA a 27.5 hz. Il tubax subcontrabbasso in SIb della Eppelsheim (che riuscì per primo, grazie ad una conicità meno estrema a scendere sotto il sax contrabbasso in MIb) giunge al LAb a 25.9 hz., così come il più recente sax subcontrabbasso.
La tuba contrabbassa in SIb può arrivare al SOL a 24.5 hz., così come il raro trombone contrabbasso.
Che cosa succede, dicevamo, quando sentiamo un controfagotto o un clarinetto contrabbasso scendere alle ultime note del suo registro grave? Il suono non sembra più un continuum, è come se fosse increspato, ciò che l’orecchio inizia a percepire è una realtà presente in ogni suono, ossia le periodiche oscillazioni dell’onda. Il suono percepito come continuo è tale a causa della velocità dell’onda, più quest’ultima è lenta più si avvertirà la scansione da un periodo di oscillazione all’altro. Ed è per questo che molti cominciano ad avvertire il suono come ruvido, sgradevole, scostante. Se andiamo ancora più giù, ciò sarà sempre più evidente e il suono sarà percepito come rumore (come quello di una moto con lo scarico aperto o di un trattore: dove la scansione è data però non dalla frequenza ma dal movimento percussivo del pistone).

L’ecatorf è uno strumento ad ancia semplice a doppia coulisse che giunge al FA-1 a 10.9 hz. (quindi ben sotto la convenzionale soglia dell’udibile, posta arbitrariamente sui 20/16 hz.; i grandi organi da chiesa – privi degli ultimi semitoni ‒ giungono a 16 hz.), ma possiede 5 ottave: si può dunque passare in modo graduale ed enarmonico (essendo a coulisse) dal FA4 del primo spazio in chiave di violino (349.2 hz.) al FA-1, una 22a sotto il primo FA sotto il pentagramma della chiave di basso (11a linea sotto il pentagramma della suddetta chiave).
Qui abbiamo l’esempio, se volessimo ancora mantenere tali termini, da un lato della trasformazione percettiva dell’onda acustica da suono a rumore, dall’altro della completa inconsistenza di tale distinzione da un punto di vista puramente fisico e acustico. È d’altronde evidente, per quanto riguarda la percezione che il suo, chiamiamolo così, turbamento è dovuto essenzialmente alla mancanza di consuetudine a certi spazi e tempi acustici, non diversamente da come accadde per la dissonanza (si ricordi che l’ultimo Beethoven era da molti considerato un “rumorista”).
Esperienza soprattutto acustica (ma non solo!) per l’ascoltatore, esperienza olisticamente organica per l’esecutore: vengono coinvolti l’intera cassa toracica, il diaframma e lo stomaco. Man mano che si scende ciò che vibra ‒ insieme ai lunghi tubi dello strumento ‒ è l’intero organismo.
Come nacque
L’idea dello strumento nasce da un interessante esperimento acustico e organologico: suonare con il bocchino del clarinetto soprano un trombone a tiro. La trasformazione di questo primo rozzo connubio in uno strumento completo in grado di articolare cinque ottave e di avere un’escursione di suoni fondamentali superiore a quella del clarinetto contrabbasso, è stato un lungo lavoro di tentativi, esperimenti, teoria e logica. Dopo undici anni dalla fine della progettazione e dai disegni (che richiese tre anni) si riuscì a realizzarne un primo prototipo.
L’ecatorf non completa una gamma in basso di uno strumento già esistente e neppure, come il sax, coniuga due caratteristiche di due diversi strumenti di una stessa famiglia, i legni: tubo conico dell’oboe ma con l’ancia semplice del clarinetto; esso azzarda l’innesto tra due famiglie distinte e dalle caratteristiche organologiche apparentemente inconciliabili: i legni e gli ottoni. Dai legni prende il bocchino del clarinetto (contrabbasso) e il sistema del portavoce per l’ottenimento degli armonici; dagli ottoni: il sistema a coulisse dal trombone, quello delle valvole a rotore da diversi tipi di ottone (dal corno alle trombe).
L’estensione grave dello strumento supera di due toni e mezzo lo strumento ad ancia più basso di cui si abbia oggi conoscenza: il clarinetto octocontrabasso costruito in unico esemplare da Leblanc, e di una decima (o più) le ance più gravi attualmente in commercio (e sopra citate).
Il nome Ecatorf congiunge insieme una divinità e un personaggio mitico greci, due che di discese agli Inferi e di avventurose risalite se ne intendevano: la triforme Ècate e il leggendario Orfeo.
Ecatorf Trio Benthos (dal cd Benthos)
Elenco apologetico (ne sono il padre) delle sue caratteristiche
1) È lo strumento a fiato più grave al mondo (per quanto mi risulta, non solo attualmente, da sempre): FA -1 a 10.9 herz. E non solo a fiato, i grandi organi da chiesa (privi di semitoni per quanto riguarda le note più gravi) raggiungono il DO a 16.3 herz (32 piedi). Lo stesso riguarda il raro pianoforte a tastiera estesa: 16.3 herz. Che io sappia esiste un solo organo attualmente funzionante, in Australia, che raggiunge gli 8 herz.
2) È altresì lo strumento a fiato con la più grande estensione ordinaria. 5 ottave (escluse dunque le note eccezionali: un’altra ottava e mezza). E con la più grande estensione di fondamentali (2 ottave e una quinta giusta).
3) E l’unico strumento ad ancia (che non sia un giocattolo) a coulisse, il che comporta infinite possibilità enarmoniche.
4) L’unico strumento ad ancia i cui suoni escano tutti dalle campane (con ciò che questo comporta riguardo al timbro e alla potenza di suono).
5) A proposito delle campane: la sottigliezza e la varietà timbrica, sono amplificate dal fatto che ne possiede tre: a seconda delle valvole e dei registri usati, e il loro diverso posizionamento aumenta la “spazialità” del suono.
6) Per quanto riguarda il trattamento dell’onda acustica: ricchissima è la gamma di nuances timbriche, di bicordi, tricordi e multifonici di ogni tipo, ciò che ci porta ai confini del rumore.
7) L’Arte dei rumori, appunto, di Russolo ritrova qui un sostituto di ben 5 (su 6) dei suoi “intonarumori”: «1) Rombi, tuoni, scoppi, scrosci, tonfi, boati; 2) fischi, sibili, sbuffi; 3) bisbiglii, mormorii, borbottii, brusii, gorgoglii; 4) stridori, scricchiolii, fruscii, ronzii, crepitii, stropiccii, […] 6) gridi, strilli, gemiti, urla, ululati, risate, rantoli, singhiozzi» (Russolo 1916, p. 15).
Morfologia e sintassi
La morfologia ricorda quella del clarinetto contrabbasso ma spesso i suoni, certi armonici soprattutto, viste le caratteristiche di cui sopra, sembrano quelli di un trombone o di un flicorno. Vastissime (come accennato più sopra) le possibilità di trattamento dell’onda acustica (omofono e polifono).
La sintassi è fatta per far impazzire il suonatore di legni poiché ha la coulisse (ma combinata strutturalmente con le valvole), e anche i rudimenti del trombone non servono molto ottenendosi gli armonici attraverso i portavoce (che sono quattro) e non come negli ottoni, di imboccatura. Dunque richiede la costruzione e di conseguenza la memorizzazione di una mappa delle posizioni che non è meno complicata (e astrusa) di quanto lo sia lo strumento stesso. L’azionamento dei rotori delle valvole, essendo enormi, richiedono una certa accortezza nell’escursione e non sempre consente passaggi veloci.

L’ecatorf e la tecnica
Uno strumento assolutamente nuovo con degli accostamenti strutturali sinora mai tentati e che procede su una strada organologica inesplorata, con quali procedimenti tecnologici è stato costruito?
L’ecatorf è stato costruito senza alcuna struttura specialistica alle spalle. Solo le curve vengono da una ditta specializzata che rifornisce la Eppelsheim (per i clarinetti contrabbassi). I tubi usati sono comuni tubi di ottone comprati a peso che non sono stati rettificati (come fanno le ditte di strumenti) se non dalla pietra pomice, dal rodaggio (infaticabile) e dall’uso. La coulisse (doppia) ha richiesto infiniti aggiustamenti e la nichelatura dei tubi interni è stata fatta insieme a un nichelatore – che trattava tutt’altri oggetti – sul posto e un po’ alla volta senza alcun strumento di controllo.
Le campane sono quello che si era conservato di vecchi strumenti. La grande campana finale, la più grande, proviene probabilmente da un cimbasso ottocentesco, le altre da resti di flicorni.
Tutto il laborioso sistema delle chiavi (dei portavoce e delle valvole) è fatto con avanzi e rimasugli di vecchi strumenti (sassofono, flicorni, cimbasso, tuba, flauto…), tondini e viteria di comuni ferramenta, molle di ottone (per applicare i piatti al muro).
Le valvole, anch’esse prototipi, mai prima tentate di tale dimensione, sono state costruite (dopo diversi frustranti fallimenti) da artigiani tornitori, mentre i rotori sono finalmente riusciti perfetti grazie a un rettificatore di motori, lavorando pazientemente su un enorme tornio meccanico.
E così sarà curioso elencare altri particolari: la ruotina che sostiene e fa correre la coulisse (lungo un asse di mogano) è quella di un aeromodello, l’impugnatura che consente lo scorrimento del canneggio-pompa “cromatico” è costruita con tubi di rame idraulici destinati alla rottamazione. Le guide che consentono a tale canneggio di restare in assetto sono cerchi di ottone per tende ottocenteschi recuperati da una soffitta.
Tutto fatto a mano: sega, lima, tornio manuale o meccanico (non a controllo numerico), frese, carta abrasiva, pietra pomice, e così le saldature a stagno, a Castolin, ad argento.
Una magnifica esperienza che ha coinvolto almeno sette artigiani (non sempre, è vero, altrettanto entusiasti dell’impresa).
Insomma, come diceva Prieberg, una di quelle «costruzioni difettose, irrimediabilmente antiquate, […] miserabile mercanzia, con valvole rumorose, […] tubi dai quali scorre la saliva, goffe e rozze forme di latta, legno, filo e peli di cavallo» (Prieberg 1975).
Ecatorf ,Villa Rossi, Santorso (VI), ottobre 2021
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Penderecki K., Polymorphia, for 48 stringed instruments, score, Edition Moeck, Celle – Krakow, s.d.
Prieberg F.K., Musica ex machina, Einaudi, Torino, 1975 (1a ed. or. 1960)
Righini P., Lessico di acustica e tecnica musicale, terminologia e commento musicologico; Edizioni Zanibon, Padova, 2a ed. riveduta 1987 (1a ed. 1980)
Russolo L., L’Arte dei Rumori, Edizioni Futuriste di “poesia”, Milano 1916, ristampa anastatica Carucci, s.l., s.d.
Villa Rojo J., El clarinete y sus possibilidades. Estudio de nuevos procedimientos, 2a ed. 1984 (1a ed. 1975)
Sergio Fedele dagli anni ’70 studia il clarinetto e la musica da autodidatta e da insegnanti privati. Approfondisce la conoscenza con ascolti e letture della musica colta e del jazz. Dopo alcune esperienze in altri gruppi costituisce nel ’93 un insieme acustico: Klang, che diventa anche un laboratorio di ricerca, dove si sperimentano vari tipi di partitura aleatoria e l’improvvisazione radicale con varie formazioni dal solo al quartetto.
Nel 2015-2016 fonda l’Ensemble di sole percussioni Kwatz! con Enrico Caimi, Roberto Dani e Davide Negrini. Nel 2022 inizia il progetto Ecatorf Trio con Francesco Bucci (trombone e tuba) e Piero Bittolo Bon (clarinetti, flauti). Nel 2025 vengono pubblicati i cd: 251 del Quartetto Psicogeografico, Benthos dell’Ecatorf Trio, Iskra del Duo Psicogeografico tutti per Setola di Maiale.
