i non detti del museo
The Scattered Colonial Body
il diario
di Leone Contini

21 marzo 2016
Visita al museo di Antropologia e Etnologia di Firenze con Arnd Schneider, in una fase esplorativa della nostra collaborazione per TRACES*.
“Statua lignea raffigurante un guerriero Dervish a cavallo […] completa di armi. […] tutti i materiali esposti provengono dal campo di Agordat […] dove […] i Dervish furono sconfitti dalle truppe italiane. Tutti i materiali dei Dervish rimasti sul campo furono raccolti da Peleo Bacci, pistoiese […]”. La vecchia didascalia racconta con candore che gli oggetti esposti furono sottratti a dei cadaveri. Il guerriero ucciso mi fissa feroce, dall’abisso di esotismo in cui lo confinarono gli artisti-artigiani italiani che lo modellarono nella forma di manichino da museo.
Poco lontano le “maschere facciali”, calchi in gesso di volti umani: collezioni analoghe sono presenti in tutti i musei antropologici, e sono un dilemma per i loro curatori. Commenta Arnd.
I calchi sono dipinti con cura e intercalati con primi piani fotografici in bianco e nero, per un totale di 28 volti, tutti non europei tranne forse uno, collocati all’interno di un espositore a muro azzurrino. Al centro campeggia la scritta “la diversità è un valore” e poco sotto “diverso… come te!”. Tra i due testi tre specchi deformanti. Attraverso la percezione di un sé “alterato” il visitatore (occidentale?) dovrebbe (suppongo) riconoscersi come parte di una comune umanità fondata sul valore della differenza. La componente ludico-conciliante del dispositivo mi innervosisce, immagino i bambini in visita al museo giocare con la loro immagine sformata e i turisti farsi i selfie. Un volto in gesso di donna è contratto in un’espressione di dolore e angoscia, i suoi occhi sono serrati.
Il pannello informativo mostra due fotografie dell’antropologo fisico Lidio Cipriani ricurvo su un uomo disteso a terra. Gli stivali in pelle dell’italiano incombono sul corpo nudo e immobile del “soggetto”, come viene definito nella didascalia subito sotto. Nella prima immagine Cipriani ha l’impasto di gesso ancora in mano e sorride al fotografo, nella seconda l’espressione dello scienziato è invece concentrata: insieme al suo assistente tiene ferma la testa dell’uomo in apnea mentre il calco si asciuga sul suo volto. Il testo accenna solo brevemente alla sofferenza implicita in questo tipo di pratica, definita “molto fastidiosa” per il “soggetto”.
Sul pavimento in basso noto una sagoma trapezoidale, la traccia di un espositore rimosso dopo molti anni. Immagino che le maschere fossero un tempo in bella mostra al suo interno, prima del tentativo di problematizzare questa immensa, terribile collezione di fattezze umane estorte all’interno di quel rapporto di potere ineguale che legava colonizzato e colonizzatore. Eppure niente, all’interno del nuovo display, racconta la violenza – sia fisica che teoretica – intrinseca alla maschera facciale: il visitatore deformato si riconosce imparentato con il diverso nel segno della bizzarria e di un generico appello umanistico al valore della diversità.
Tra le tante omissioni: nella didascalia non viene menzionata l’adesione di Cipriani al “manifesto della razza” del 1938.

Tarda mattinata, visita all’“Istituto Agronomico per l’Oltremare”. Semi di cereali dalla Tripolitania e dalla Somalia italiana sono esposti in cilindri di vetro, all’interno di vecchie teche. A 70 anni dalla fine del colonialismo il loro tasso di germinabilità sarà prossimo allo 0%, semi sottratti al proprio ciclo vitale e lasciati morire dentro un museo.
PS: In questi giorni sto facendo germogliare i semi che sono arrivati in Italia secondo forze opposte rispetto a quelle dell’appropriazione coloniale: sono semi che i contadini cinesi hanno trasportato informalmente attraverso le frontiere e che coltivano nei loro orti tra Prato e Firenze. Queste piccole fattorie a conduzione familiare che producono ortaggi mai visti a km0 sono oggetto di violente campagne mediatiche di delegittimazione e vengono sottoposte a continui controlli da parte delle forze dell’ordine.
Pomeriggio, casa dei miei. Mia mamma e sua sorella sono intente a preparare le polpette per la cuscussata di dopo domani. La ricetta è una re-interpretazione del couscous tripolino dei nonni-bisnonni, che negli anni ha integrato elementi ebraico-tripolini e arabi. Mia mamma non ha mai apprezzato il cus cus al ragù (siciliano) di mia nonna, troppo “italianizzato”.

27 maggio 2016, Roma
Prima visita al “Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini”.
Loretta ci guida tra le sale espositive: l’oggetto che apre la sezione delle Americhe evidenzia da subito la centralità di una dimensione transculturativa e un posizionamento anti-essenzialista dei curatori: si tratta di una statuetta che rappresenta un essere sovrannaturale, costruita da un artista Taino che utilizzò materiali sia locali che di provenienza Europea e Africana. L’oggetto è emblematico del meticciato caraibico tra europei, schiavi e nativi, e allo stesso tempo è manifesto delle migliori intenzioni della museografia contemporanea. Tuttavia il dispositivo etnografico-museale non può sfuggire al suo peccato originale della rapina coloniale dell’Altro a uso (non dichiarato) dell’edificazione del Sé Occidentale. Dalle sale dedicate al primitivo etnografico si passa del resto senza soluzione di continuità al primitivo preistorico: l’altrove e l’allora di cui è segretamente impastata la nostra identità (ciò che eravamo, ciò che non siamo). La stessa mescolanza è presente anche negli ambienti non accessibili al pubblico, dove il laboratorio paleo-antropologico con le sue copie 3D di crani di Homo erectus è contiguo agli uffici dei curatori delle collezioni etnografiche.
Dopo la collezione visitiamo i magazzini, la mole e la varietà di artefatti accumulati è impressionante, tra questi un enorme, meraviglioso vaso cinese, saccheggiato dalle truppe italiane a Beijing nel 1900, durante la spedizione punitiva organizzata in risposta alla rivolta dei Boxer. In collezione c’è anche un cuscino, sottratto da un ufficiale italiano a dei sodati russi che lo avevano rubato nel palazzo imperiale e ci giocavano usandolo come una palla.
Dai sotterranei coibentati dove l’azione trasformatrice del tempo è sospesa (o rimandata) riemergiamo alla superficie in una calda e luminosa giornata di maggio, le geometrie dell’Eur riverberano i raggi del sole, io e Arnd vaghiamo abbagliati in questo strano quartiere, che incredibilmente visito per la prima volta. Sul travertino scritte in romeno “La mulţi ani Mary” e manifesti elettorali con slogan identitari e xenofobi: “Sei disoccupato? Diventa immigrato / patria / Iorio sindaco / basta umiliazioni per i romani”, altre scritte per me incomprensibili: “Lazialità è libertà”. E poi, in cima al “palazzo della Civiltà Italiana”: “Un popolo di […] trasmigratori”, dove l’esodo di emigranti poveri verso paesi ricchi viene ribaltato in una vocazione quasi etologica, una tensione “naturale” verso lidi africani dove svernare-prosperare. Ma il quartiere EUR non fu mai finito a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale e quel breve impero, costruito in fretta e con ferocia, si dissolse.
La silhouette di un grande uccello si staglia nell’azzurro del cielo, ma è solo un gabbiano.
Nel giardino antistante la stazione della metro un allegro bivacco filippino: è ora di pranzo e due signore hanno improvvisato una trattoria di strada all’ombra di un cedro. Il riso è tiepido e profumato, servito con uno spezzatino succulento di maiale speziato. Dolce primavera romana.

28 maggio 2016. Riflessioni
Il museo ha già coinvolto varie comunità migranti a Roma. L’assioma implicito che io e Arnd ereditiamo dal precedente lavoro dei curatori è proseguire in questa direzione. Ma sembra esserci un’incongruenza tra gli oggetti in collezione e le comunità migranti presenti a EUR. […]
Il museo ha la pretesa di raccogliere in modo esaustivo la varietà antropologica umana ma non ha presa sul proprio contesto immediato, un vicinato interculturale e poietico: i manufatti filippini, potenziale espediente per “forzare” il dispositivo museale, sono infatti attualmente conservati nel Museo Nazionale d’Arte Orientale, a 10 chilometri da qui.
La fragranza speziata di “adobo” si spande nel quartiere e assedia il Pigorini, ignorandolo.
[…] Nessuno degli oggetti in collezione proviene dalle ex colonie italiane!

31 ottobre – 5 novembre 2016, Roma
A maggio avevamo intravisto, in un corridoio degli uffici del Pigorini, la riproduzione di una struttura architettonica classica sotto un telo di plastica trasparente: “plastico in miniatura del teatro di Sabratha”, scritto a penna su un foglietto. Sabratha… mio nonno materno, ne diresse gli scavi e l’anastilosi. Una finestra aperta e subito richiusa sul rimosso coloniale. Del resto eravamo molto concentrati sulle collezioni del museo e sulla problematicità della loro incongruenza con la realtà migratoria presente. In questi mesi però un tarlo libico ha lavorato silenziosamente nel mio subconscio, generando desideri e timori come attorno alla voragine di un’amnesia. Stamattina quello spazio negativo si è finalmente rivelato, incalzato da piccole epifanie concatenate, fino all’informazione prima: il plastico di Sabratha proviene da un museo estinto, il Museo Africano (già Museo coloniale) fondato nel 1923 e chiuso definitivamente nel 1972 (ma di fatto già chiuso durante la guerra). Il grande corpo delle sue collezioni è attualmente smembrato e temporaneamente ospitato in varie sedi sparse per la capitale. Tra queste il Pigorini: sopra la miniatura di Sabratha un convenzionale quadro a olio di Giuseppe Rondini: motociclisti e un’autoblindo Fiat sfrecciano tra fichi d’india, palme e case arabe. Il corridoio adiacente ospita invece il plastico del sito archeologico di Leptis Magna (altro tema ricorrente nei racconti libici del ramo materno della mia famiglia), mentre nel sottoscala sono custodite riproduzioni di villaggi etiopi e di una chiesa copta.
Non sono che gli affioramenti di una grande collezione sommersa.

Stanza 236, deposito dell’estinto Museo africano, a metà della scala monumentale che termina con la grande vetrata policroma e il busto di Pigorini. Entriamo. Sullo scaffale la testa di una bambina in scala 1:1 sgrana gli occhi da dietro un velo, ha gli occhi grandi, la bocca grande semi chiusa, i denti bianchi, sembra attonita. Altri soggetti femminili sono accumulati con cura sulla stessa mensola: Mario Murro, “Ragazza Dancala al pozzo, 1937, Bronzo”. La statuina è ancora venata di geometrie avanguardiste, ma già asservita alle tipizzazioni del razzismo scientifico e pervasa di erotismo coloniale. Così il volto di donna in bronzo dello stesso autore: sembra mediare tra l’esotismo primitivista degli inizi del secolo e il ritorno all’ordine formale tipico del ventennio. Il ritorno all’ordine è invece conclamato nel busto realista di una donna africana nuda e senza braccia, ha gli occhi bassi e un’etichetta al collo. Prede estetiche di artisti uomini in residenza temporanea nella colonia, ma anche archeologiche: in mezzo ai volti bruniti della donne-bambine etiopi anche quello in gesso bianco di una loro coetanea nord-africana di molti secoli prima. L’appropriazione dei corpi viventi dei colonizzati attraverso la loro rappresentazione artistica sessualizzata si confonde con l’appropriazione dei simulacri di un passato remoto per legittimare il progetto imperialista presente, raccontato come ritorno (dell’impero romano) e non come invasione. Bottino artistico-erotico, collezione archeologica, impossessamento antropologico dell’Altro inferiorizzato: Ogni rapina ha il suo materiale elettivo, ma qui sulle mensole i riflessi bronzei del moderno primitivista (seppur indocilito) coabitano e si confondono con il bianco mistificante imposto agli antichi e con il gesso dipinto color pelle dei ladri scientifici di fattezze umane: gli antropologi fisici. Il magazzino contiene infatti anche le maschere facciali, prede antropometriche, volti rubati e avvolti in sacchetti di plastica. Dormono? Sono morti? Soffrono? Le gambe cedono (non come a Firenze).
In questo antro dei briganti dove tutto è stato razziato il principio classificatorio dei “tipi umani”, delle civiltà, delle stesse geografie è sospeso, i simulacri di donne e uomini giacciono in promiscuità, antichi e moderni, libici, etiopi, sudditi dell’impero romano. Nel caos temporaneo del museo revocato, nascosti alla coscienza collettiva, questi fantasmi solidi, beni inalienabili dello Stato italiano, si fondono segretamente in un corpo unico. E il gladio delle leggi razziali, che sulla copertina della “Difesa della razza” separava il classico dal primitivo/semita, non potrà più dividerli.

PS: c’è un’altra stanza del bottino, speculare alla 236, dove sono stipati con cura quadri realizzati da pittori etiopi fino all’invasione del 1935. La maggior parte raffigurano battaglie, racconti epico-storiografici (che per me sono indecifrabili) di vittorie sui colonizzatori europei, suppongo italiani (penso alle sconfitte di Dogali e Adua).
La sera sono esausto, pasteggio nel mio albergo di EUR, da solo. Di fronte a me la nuvola di luce fredda [di Fuksas, n.d.r.]  pulsa per un malfunzionamento e sembra un grande fantasma.
Conforto: uno spezzatino filippino con verdure acidule e riso in bianco.

3 novembre
visita in un altro deposito dell’ex museo coloniale, ai piani alti del Pigorini: spade di nemici sconfitti, pellame e tessuti, vessilli imperiali in bronzo, fuoriescono da scatole e scaffali per mischiarsi subito dopo nella mia mente in un unico groviglio di cose, pelli, corpi umani e animali, metallo. A galleggiare su quel marasma 3 paia di scarpette con tacco, costruire da stilisti italiani utilizzando le materie prime della colonia: pelli di cammello, coccodrillo, forse varano, ricombinate in forme agili e compiute, gentilmente esotiche, elegantissime. Il raw material razziato in Africa è sublimato dall’alta manifattura italiana e trasformato in oggetti di lusso.
Esco da questa stanza delle meraviglie e degli orrori dove il tempo sembra essersi ingolfato e cammino in cerca di aria fino alla chiesa in travertino dell’Eur che sembra un osservatorio astronomico, poi verso il “Colosseo quadrato”: ma un guardiano tamarro mi informa che non posso accedere perché la struttura è in affitto al gruppo di alta moda Fendi fino al 2028.

16 dicembre 2016, Pigorini
La stanza delle facce rubate – video appunti

17 dicembre 2016, Roma. Prima visita al museo della fanteria (iprite).
Anche il museo della fanteria ospita alcuni brandelli del grande corpo coloniale dismesso. Entrando dal cancello si accede a un giardino interno, sulla sinistra un mosaico di un soldato che sta per lanciare una bomba a mano: le fattezze del volto sono quelle di Mussolini. Procedo inquieto verso l’ingresso del museo dove un militare in divisa mi chiede di lasciare i miei dati e mostrare un documento. Gli oggetti della collezione coloniale sono momentaneamente installati in due corridoi laterali, ma non visibili al pubblico. Il soldato è gentile e apre per qualche secondo la porta, intravedo un ascaro.
Al secondo piano dell’edificio una mostra temporanea sulla Prima Guerra Mondiale, l’ingresso è gratuito: reperti bellici e documenti originali sono disposti lungo una linea del tempo graficizzata a muro e coadiuvata di una scarna cronologia testuale. In una delle ultime stanze, in corrispondenza del 1916, sono esposti volti in cera iper-realisti coperti di arrossamenti e pustole, ottenuti da calchi negativi in gesso e appartenenti alla collezione della Sanità Militare di Firenze. Illustrano i danni da armi chimiche sul corpo dei soldati: “Lesioni oculari da vapori di iprite”, “Lesioni cutanee da iprite liquida”. Il primo dei due volti ha gli occhi semi aperti, immagino che il calco sia stato fatto su un cadavere. Nella teca successiva la riproduzione di due polmoni in parte sezionati: “Fosgene = edema polmonare acuto”, quindi mani scarnificate o coperte di pustole: “Lesioni cutanee da iprite liquida. Stadio della suppurazione avanzata e dell’emorragia vasali”. Ho la nausea. Braccia: “Les. cut. ipr. liquida. Stadio della suppurazione, in seguito ad infezioni secondarie, interessante gli strati sotto cutanei della cute. Numerosi focolai emorragici e tendenza alla diffusione nelle zone periferiche sane della ferita”. Mani: “Lesioni cutanee da iprite liquida, gruppi di flittene confluenti”. La nausea sale, esco.
La mostra racconta in modo efficace come cento anni fa i popoli europei oggi affratellati fossero intenti a massacrarsi barbaramente l’un l’altro, ma è solo sul corpo bianco che mi è dato inorridire e riflettere. Per immaginare gli effetti dell’iprite sui corpi dei soldati e dei civili etiopi venti anni dopo devo ricombinare mentalmente queste lesioni su pelle bianca con le informazioni storiografiche relative all’uso degli stessi veleni nell’invasione italiana del 1935.
Certamente non ci sono tracce di iprite nella collezione fascista delle guerre coloniali, al piano terra di questo stesso edificio (che comunque non è visitabile).

Fine dicembre. Riflessioni.
Su questo materiale rimosso grava una condizione di orfanaggio istituzionale: gli oggetti fanno parte di un museo dismesso che a sua volta dipendeva dall’estinto Ministero delle Colonie e, a partire dal suo scioglimento, dal Ministero degli Esteri, attualmente per tramite dell’ISIAO. Le opzioni relative al loro futuro (alla loro liquidazione) sono per adesso incerte. Sono oggetti appartenenti allo Stato, ma il loro statuto è, almeno in questa fase di transizione, paradossale: si tratta infatti di oggetti pubblici, ma la collettività non può fruirli. Inoltre sono oggetti di una collezione dispersa, ospitati in diverse sedi in base a vaghi criteri tematici e a più concrete questioni inerenti la loro conservazione, inclusa la loro potenziale pericolosità, come nel caso delle armi: i supposti oggetti etnografici sono custoditi al Pigorini, quelli artistici negli archivi della Galleria Nazionale, quelli militari nel Museo della fanteria, i libri nella Biblioteca nazionale, quelli relativi al mondo animale nel Museo zoologico, mentre qualcosa pare sia ancora rimasto nella sede chiusa dell’ex Museo africano, in via Aldrovandi…
[…]
Forse questo corpo disperso può essere restituito alla coscienza della collettività in forma simulacrale? La copia 3D di alcune delle sue parti sembrerebbe una strategia capace di aggirare le problematiche inerenti i permessi/diritti di utilizzo che invece gravano sulle riproduzioni fotografiche di oggetti che in questo momento sono sospesi in un limbo istituzionale [la loro piena acquisizione da parte del Pigorini avverrà in un momento successivo, n.d.r.].
[…]
I simulacri sarebbero trasportabili oltre la barriera del museo non-fruibile, finalmente visibili, tangibili. La copia 3D è un “furto” al museo, una strategia di un accesso alla zona rimossa, l’occasione per un laboratorio permanente dove un pubblico-partecipante riattivi una narrazione critica attorno all’oggetto.
[…]
Urgenze: portare fuori dai depositi i volti delle prede antropometriche, le teste razziate di bambine antiche o giovani donne etiopi, le scarpette con tacco in pelle di coccodrillo, le braccia lesionate dall’iprite, gli occhiali di Omar Al-Mokhtar, che dopo la sua impiccagione entrarono a far parte della collezione africana; rileggere la storia coloniale a partire da questi oggetti, per quanto brutali, in quanto brutali.

31 gennaio 2017, Milano, MUDEC. Il corno mancante
Yamantaka. La grande scultura in metallo scuro è stata recentemente restaurata e luccica di nuovissima patina antica. Da dentro la teca la testa irata di toro con denti da carnivoro guarda i visitatori, indifferente come una divinità di culti tramontanti (suppongo erroneamente al tempo). Ha un solo corno, l’altro è andato perduto durante uno dei bombardamenti alleati che devastarono Milano nell’estate del 1943: nella notte tra il 13 e il 14 agosto uno spezzone al fosforo lanciato da un aereo inglese colpì la sede delle collezioni etnografiche a Castello Sforzesco. L’incendio e il seguente crollo della struttura determinarono la distruzione quasi totale della sezione africana, la cui messa in sicurezza non era stata considerata prioritaria dai conservatori del tempo. Solo alcune armi da taglio furono recuperate tra le macerie: quelle superstiti sono oggi esposte a fianco di Yamantaka: il fuoco divorò il legno dei loro manici e ne scurì il metallo, determinando in poche ore trasformazioni che avrebbero richiesto secoli. Il loro aspetto fa pensare all’età del bronzo e non alla gioventù dei nostri nonni, quando quegli oggetti furono variamente trafficati e accumulati in collezioni, pubbliche e private.
Yamantaka fu recuperato tra le macerie privo di numerose componenti: oltre al corno mancano infatti due teste, originariamente impilate sopra quella del toro, oltre a numerosi elementi minuti. Il dispositivo museale universalista ha tradito la sua promessa di preservare e proteggere gli oggetti provenienti dalle culture colonizzate: dopo averli patrimonializzati e sottratti al proprio divenire storico li ha lasciati bruciare in un bombardamento al fosforo, durante un litigio su scala globale tra potenze imperialiste, al culmine della parabola auto-distruttiva dell’ideologia fascista.

10 Febbraio, uffici del Pigorini (coincidenze).
Ritorno a Roma con i “sensi libici” pienamente risvegliati, al crocevia tra le vicende private della mia famiglia materna e la collezione del Museo africano, smembrata e dispersa in giro per la capitale, come un immenso cadavere che non si riesce a far sparire.
Gli oggetti della collezione, evocati, si sono risvegliati dal loro torpore di corridoi polverosi e come ruote di un ingranaggio rimasto fermo per molto tempo ricominciano a girare l’uno sull’altro, cigolando, fino a riattivare le ultime rondelle del grande macchinario: i viventi. È così che veniamo a sapere che Calandra, grafico del Pigorini, è nato a Tripoli come mia madre. È quasi ora di pranzo e inevitabilmente la conversazione vira sul cibo e sulla pietanza centrale in tutte le famiglie italo-libiche (compresa quella di mia madre): il “cuscus tripolino”, all’italiana. La discussione si fa animata, perché le ricette sono discrepanti, e presto coinvolge altri impiegati. È così che Tina si unisce al dibattito, anche lei è nata a Tripoli! La ricetta si complica di varianti, tra cui quella ebraica, con verdure e forse polpette piccole e quadrate, che però si materializzano sfocate nei ricordi di Calandra, oltre chiaramente a quella araba, con l’agnello. Interrompo momentaneamente la discussione che si è arenata nella ricerca dell’autenticità del couscous tripolino e mostro alcune palme in latta, fatte fare a Tripoli da mia nonna, per il presepe (anche loro si sono svegliate, in un cassetto di case dei miei a Firenze). Tina dice che anche suo padre aveva costruito palme simili per il presepe, forse di cartone. Ma il dibattito sulla vera natura del cuscus riattecchisce spontaneamente. Le varianti di Tina e Calandra sono diverse, però in entrambe emerge la costante della salsa di pomodoro, che nella ricetta di mia mamma è assente. Nella pausa di quest’ennesima incongruenza Tina evoca nuovamente suo papà: era mosaicista, aveva restaurato i mosaici di Sabratha e Leptis Magna, e indica il corridoio dove i plastici stanno cigolando da settimane. Pronuncio il nome di mio nonno: “forse lo ricordi? Giacomo Caputo”, Tina sgrana gli occhi: suo padre e mio nonno lavoravano insieme e il ricordo di Caputo era sempre presente in casa, anche dopo il rientro in Italia dei miei nonni. Chiedo sulla chat di famiglia se qualcuno abbia mai sentito parlare della famiglia di Tina Gaudino. La reazione di mia mamma e dei suoi fratelli è immediata: i fratelli Gaudino sono ricordati con precisione e affetto, soprattutto Santo, il padre di Tina, mosaicista, restauratore e collaboratore di mio nonno. In pochi minuti arrivano in chat delle foto con i fratelli Gaudino. Un messaggio di mia zia chiude il cerchio: le palme le dobbiamo a lui, le realizzò su indicazioni della nonna.

Sabratha
Tina Gaudino, fotografie di suo padre Sante, mosaicista e restauratore.

Fine febbraio, dubbi
Sono sempre più scettico rispetto alla realizzazione delle copie 3D di alcuni dei volti presenti nella stanza 236, ma ormai il meccanismo sembra essersi messo in moto, il giorno per le scannerizzazioni è già fissato.

2 marzo 2017, Pigorini
Quando arrivo al laboratorio le teste sono già disposte su un carrello metallico, come prima di un intervento chirurgico: la copia in gesso dell’antica bambina di Cirene, la giovane donna etiope ritratta in bronzo, la maschera facciale dell’uomo, forse libico, forse etiope.
Il set di questa ri-acquisizione di fattezze umane, già una volta rubate, è inquietante. Le teste vengono lentamente fatte roteare sul tavolo appoggiate a una soffice struttura di poliestere mentre un dispositivo impugnabile che sembra un ferro da stiro emette luci intermittenti che rimbalzano sulla loro superficie acquisendone la forma. Sul monitor del portatile i simulacri dell’uomo, della donna e della bambina si ri-materializzano digitalmente, piano piano. È il volto dell’uomo al centro delle mie perplessità, ma anche della nostra attenzione: si aggrega progressivamente, galleggiando nel vuoto digitale, rotea su se stesso. La copia in gesso sul tavolo sembra una testa tagliata, invece il simulacro fa pensare a un concepimento. Osserviamo in silenzio, come raccolti. Sto destrutturando la macchina poietica del razzismo scientifico, ripercorrendola in senso opposto. Penso, mentre filmo. No, sto reiterando un’acquisizione delle fattezze di quest’uomo: anche se con intenti opposti rispetto a Cirpiani, mi sto prendendo di nuovo la sua faccia, e non ho il suo permesso. Continuo a filmare.

2-4 mazo, Napoli
Scopro che la costruzione della copia 3D è un processo lungo e fallibile.
Ci vogliono un centinaio di ore per avere una stampa definitiva e priva di errori. Le ragazze del laboratorio sono devote quanto me a questo progetto e per 3 giorni orbitiamo attorno alla teca di cristallo del laboratorio, anche di notte. Una di loro ha origini familiari “libiche” e nelle lunghe ore di attesa parliamo anche di cuscus. All’interno della teca prendono lentamente forma i tentativi di stampa, grumi di materia tenuti insieme da una struttura portante interna, ad alveare.
La formazione materiale del volto è altrettanto intensa di quella digitale, anche per via del costante rischio di fallimento del processo di stampa. Finalmente l’ago “tessitore” deposita l’ultimo filamento di medium sulla punta del naso dell’uomo e si ritrae verso l’alto. Percepiamo la nascita di questo ennesimo simulacro come un riscatto dalla violenza originaria rappresentata della maschera facciale. Ma siamo tutti europei, e ben due di noi hanno vicende familiare legate al colonialismo (improvviso senso di vergogna).

6 marzo 17, La palma
Uffici del Pigorini. Due telecamere stanno documentando uno strano momento d’intimità tra me, Tina, il fantasma di suo padre e quello di mia nonna. Le foglie di latta dipinte in verde si fissano una dopo l’altra sul tubino centrale del tronco: la palma rotta di Ersilia e Santo sta tornando intera. Una videocamera filma discretamente, l’altra emette suoni meccanici e proietta una luce rossastra durante la messa a fuoco. In sede di editing non sarà facile rimuovere le tracce del contesto etnografico, penso, mentre l’ultima goccia di stagno si solidifica. Tina ha la mano ferma, come suo padre. La palma è pronta.

La palma, frame dal video "A Tripoli"

L’uovo nel cuscus
Biblioteca del Pigorini. Incontro con il padre di Calandra e tre dei suoi amici “libici”.
In questo ritrovo al maschile si tiene banco a turno su argomenti come guerra, politica, economia. La colpa per tutti i mali sofferti dagli italiani di Libia è sempre degli inglesi. Arnd lancia finalmente il cuscus al centro del discorso e un nuovo pathos ravviva la discussione. Ci sono almeno 4 interpretazioni culinarie, una per ogni libico, che si riassumono in due posizioni inconciliabili: 1) l’uovo nel couscous è una variante italiana, dunque non autentica 2) anche gli arabi ce lo mettono, quindi l’uovo c’è.

L'uovo nel cus cus, dal video "A Tripoli"

14 marzo 2017. Movimentazione dell’ex Museo africano.
Varchiamo la soglia dell’ex Museo africano: la grande porta rossa chiusa al pubblico dal 72 è aperta per i suoi ultimi visitatori. Entriamo.
I facchini sono intenti a imballare due cannoncini: stampati nel bronzo il motto “Honi soit qui mal y pense 1866” e la corona inglese. Sono probabili prede di guerra, come anche le artiglierie con scritte in arabo. Altri cannoni sono invece italiani, catturati dagli etiopi dopo Adua e ri-catturati durante l’invasione dell’Etiopia del 35. Imponenti sculture in pietra forse provenienti dall’ex Africa Orientale Italiana sono poggiate accanto a una grande mappa della Tripolitania e della Cirenaica dipinta a mano con rilievi e strade ma anche miniature di rovine romane, scene folcloristiche come “la pesca del tonno” e “la pesca della spugne”, cammelli e palme nell’interno, architetture arabe. Le tratte nautiche sono tratteggiate e coadiuvate da piccoli traghetti dipinti con cura: Siracusa-Tripoli, Bengasi-Tripoli, Bengasi-Siracusa. La tratta Roma-Tripoli è invece affiancata da un aereo a elica.
Sette ritratti in bronzo degli uomini che furono i pilastri dell’Impero: rimossi dai loro piedistalli e poggiati sul pavimento impolverato dell’ex museo, in un corridoio ai piedi di una grande mappa dell’Africa Orientale Italiana.
La prima testa sulla destra, tra la legenda dell’A.O.I. e un estintore, è quella di Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, Imperatore d’Etiopia, Primo Maresciallo dell’Impero e Re d’Albania. È ritratto a collo nudo, ieratico, ringiovanito di qualche decennio e assorto in imperscrutabili doveri cosmico-storici. Accanto a lui il busto del viceré d’Etiopia dal 1937 al 1941, Amedeo di Savoia-Aosta, detto Duca di Ferro” e “eroe dell’Amba Alagi”, è alto, nobilissimo e fissa risoluto l’avvenire – ma la fronte corrugata tradisce forse il presagio per la miserabile fine che lo attende di lì a pochi anni, in un ospedale per prigionieri di guerra a Nairobi. Segue il busto di un giovane baffuto dall’aria scapigliata e un po’ garibaldina, forse un esploratore, quindi De Bono che con il suo grande cappello sembra un fungo, poi di nuovo il Re, in una variante in divisa militare, e un signore a me sconosciuto in abiti ecclesiastici. L’ultima testa è quella di Rodolfo Graziani, Governatore della Libia, Viceré d’Etiopia, Governatore della Somalia, Vice Governatore in Cirenaica, Vicegovernatore della Tripolitana e Ministro della guerra della Repubblica Sociale. Ha i capelli impomatati all’indietro e un’espressione rabbiosa, sprezzante, rapace, da imperatore pazzo. Condannato per collaborazionismo in Italia, della condanna a 19 anni non scontò che pochi mesi, non fu mai processato per i crimini commessi in Libia ed Etiopia: fu trai pochi di questa comitiva di eroi detronizzati a morire di vecchiaia nel proprio letto, da uomo libero. Nel comune di Affile hanno perfino costruito un mausoleo in suo onore.
I facchini procedono rapidi, per primo imballano il re, per ultimo Graziani.
Esterno: I trasportatori stanno issando uno dei cannoncini a bordo del camion, un obice ben più grande e arrugginito dorme ancora, nel giardino inselvatichito trai richiami della fauna tropicale provenienti dall’adiacente zoo. È l’ultima rêverie coloniale per questi oggetti in transizione verso i depositi del Pigorini.
Graziani è sul montacarichi, legato a un pallet insieme a De Bono già completamente imballato, il suo volto feroce scompare gradualmente nella pellicola in cui il facchino lo sta avvolgendo.
Gerarchi, reggenti, criminali di guerra, Re e Vicerè variamente deposti lasciano questa sede dopo 84 anni, insieme a steli rubate, mappe e cannoni. Filmo l’interno del camion prima che si chiuda lo sportello, mi accorgo che la pellicola ha lasciato liberi gli occhi di Graziani, è sveglio e continua a fissarmi.

Materiale rimosso. Frame dal video "A Tripoli"

5 aprile 2017. Couscous dal 1967
Piazzale della Farnesina, con Arnd. Appuntamento con l’ambasciatore e liquidatore Pallini. Attraversiamo i grandi ambienti di questo soverchiante edificio fascista.
Pallini è contemporaneo, gentile, progressista. Per quanto riguarda il Pigorini, dice, la direzione in cui andare è quella del MUDEC di Milano.
Ci metterà in contatto con i responsabili delle altre sedi in cui è disperso il museo africano: Biblioteca nazionale, Museo della fanteria, Galleria d’arte moderna, Istituto zoologico.
Pranzo con Arnd e i “libici” al ristorante ebraico-tripolino “Alfonso – Couscous dal 1967”, vicino al Macro. Il proprietario è nato a Tripoli nei primi anni 30 dove ha vissuto fino a dopo la guerra. Ha lasciato la Libia con la famiglia dopo il pogrom del 67 e da allora vive a Roma.
Partiamo con antipasti in generico stile mediorientale: brik di patate, humus, babaganush e purea di zucca gialla.
Tutti i convitati italiani sono ex allievi della scuola Lasalliana di Tripoli. Ricordo vagamente che anche mio zio Francesco l’aveva frequentata e in effetti Loffredo ricorda un Caputo, mi chiede l’anno. Richiedo dettagli sulla chat di famiglia e subito mio zio mi invia una foto di classe: “Loffredo in prima elementare in alto primo da sinistra. Io il terzo della fila più bassa”. Poco dopo accenno alle origini agrigentine di mia nonna: Vaccarini ricorda una signora di Cammarata, assomigliava a Tina Pica e con il marito soggiornava spesso a casa sua a Tripoli, avevano un’azienda a Tarhuna. Era la mia bisnonna!
Finalmente arriva il cuscus: la semola è “incocciata” a mano e cotta al vapore, ben sgranata e fragrante. Come condimento brodo denso di verdure, spezzatino di manzo con fagioli e una salsa oleosa e verde ottenuta dagli spinaci, harissa. La carne è tenerissima, si sfalda, ma è succosa e compatta. Un’apoteosi di sapienza culinaria ebraico-tripolina che gli ex allievi della scuola cattolica Lasalliana apprezzano ma con una riserva: “questo couscous non è quello autentico!”. Il proprietario Alfonso, che si è seduto con noi, ribatte che il suo è couscous ebraico tripolino, legittimamente diverso dal loro. Capodieci concorda, è vero couscous ebraico tripolino. Capodieci e Alfonso sono amici d’infanzia.
Questo piatto succulento è però intriso di trauma e forse la sua perfetta realizzazione è anche un tributo a una storia di esilio e violenza. Il nome stesso del ristorante porta inscritta la data insanguinata del 1967. Alfonso accenna brevemente al pogrom del ’48, quando era bambino, ma queste cose vanno dimenticate, aggiunge, e conclude sarcastico: «tu capisci l’arabo al 90 per cento, io al 100 per cento! perché sono semita come lui». «L’italiano fregava l’arabo, l’ebreo fregava l’arabo e l’italiano!», ribattono gli italiani. L’aneddotica tripolina riattecchisce allegra, tra gli ultimi bocconi del cus cus.

6 Aprile. Fantasmi, strade
Piazzale dei 500. Il monumento è costituito da una base in pietra con placche in bronzo con incisi i nomi dei militari italiani uccisi a Dogali. Sopra questa struttura un obelisco portato a Roma da Domiziano. Dei ragazzi, molto giovani, sono accampati ai suoi piedi. Si innervosiscono perché pensano che li stia fotografando, uno di loro mi urla qualcosa in arabo. Mi avvicino e gli spiego che sono interessato al monumento, mentre cerco invano tra i martiri italiani i nomi dei basci-buzuk (militari irregolari reclutati per affiancare a basso costo l’esercito italiano, spesso definiti come “orda”. Il nome di questi combattenti è stato cancellato dalla storia). Il ragazzo mi dice che l’obelisco viene dal suo paese, l’Egitto. In qual momento appare un distinto signore sulla trentina, anche lui sembra interessato al monumento. Il mio nuovo conoscente lo indica ridendo: “gli italiani li ha ammazzati lui!”. “Semmai suo nonno”, gli rispondo. Ma le date comunque non tornano. Il signore è molto colto e mi parla della scultura del Leone di Giuda, posizionata alla base del monumento da Mussolini e che fu restituita all’Etiopia nel 1960. Prima di salutarci ci facciamo un selfie sotto il monumento agli “Eroi di Dogali”, vincitori e vinti, lealmente affratellati. Mentre scatto penso però che dopo Dogali ci fu l’invasione del 1935: sono il discendente degli invasori sconfitti di Dogali ma soprattutto dei fascisti perpetratori impuniti di crimini contro l’umanità. Riguardando il selfie noto che il forbito signore assomiglia a Zerai Deres, morto in un ospedale psichiatrico nel 1945, 7 anni dopo aver aggredito dei pubblici ufficiali italiani proprio di fronte a questo monumento, all’indomani dell’occupazione italiana dell’Etiopia, in segno di protesta. Alcuni fantasmi si aggirano per Roma anche di giorno. In pochi minuti raggiungo Arnd vicino a Termini, dove imprenditori wenzhounesi hanno aperto un piccolo ristornante, il menù è un capolavoro di meticciato. Accanto al riso alla cantonese e ad analoghe ricette pseudo-cinesi ci sono piatti tradizionali regionali wenzhounesi. Ma non solo, il menù comprende piatti di altre zone della Cina, per soddisfare i tanti turisti cinesi. Ci sono anche piatti vietnamiti, come l’insalata di mango, e filippini. Inoltre il cuoco (cinese) si è anche specializzato in cucina sud americana, specialmente peruviana. La proprietaria mi spiega che la clientela è varia e così l’offerta deve essere ampia. In questi giorni pieni di passato è bello mangiare un cibo che muta continuamente proiettandosi nel futuro.

Pomeriggio nel quartiere Africano, a circa un’ora da Termini. A partire da corso Trieste i nomi delle strade procedono da un’orbita geograficamente contigua all’Italia e ancora in parte risorgimentale verso l’imperialismo conclamato in Africa: Via Dalmazia, vie delle isole, via Malta, Traù, Corsica, Gorizia, Gradisca, Bellinzona, Cattaro (Kotor in montenegrino), via Sirte, viale Eritrea, Libia, via Tripoli, Mogadiscio, via del Giuba (?), Asmara, Barce (?), Senafé (?), Makallé (?), Cirene, Homs, Benadir (?), Assab, Chisimaio (?), Cheren (?), Fezzan, Tembien (?), Dessié (?), viale Etiopia, via Endertà (?), Adua, piazza Amba Alagi, via Sciré, Tripolitania, via dei Galla e Sidama (?), via Migiurtina (?), Ogaden (?), Girabub (cfr. La sagra di Giarabub, canzone + Giarabub, film di guerra del 1942), Cirenaica, Tigré, Bengasi, via del Giuba (?), Dancalia (?), Gadames (?), via di s. Maria Goretti già via degli Amara (?).

8 aprile, Galleria Nazionale
Il lascito della collezione africana alla Galleria Nazionale consiste in alcuni disegni su carta che artisti italiani realizzarono al seguito di spedizioni militari in Africa Orientale. Un altro frammento del corpo smembrato dell’ex museo, anche se piccolo e artisticamente trascurabile, è stato mappato, sottratto per un attimo alla sua invisibilità.
Il celebre quadro di Michele Cammarano è invece parte della collezione permanente fruibile dal pubblico: soldati italiani in immacolate divise bianche lottano e muoiono fieramente, sopraffatti da un’orda infinita di indigeni seminudi. I cani in bronzo di Liliana Moro si sbranano davanti al grande quadro. Ma la loro forza estetica è insufficiente a rivelare l’implicito ideologico di questa rappresentazione intrisa di razzismo, anzi la loro ferocia de-problematicizza la violenza coloniale naturalizzandola in un generico archetipo ferino.

Domenica 9 aprile, Roma. Italian studies
Sono ospite di un ritrovo pasquale degli ex studenti delle scuole Lasalliane di Tripoli. L’atmosfera è familiare ma melanconica, la maggior parte dei partecipanti sono anziani. La piccola corte di Tripoli (come la definiva sarcasticamente mia nonna, socialista) germogliò e crebbe sul ramo fallito del colonialismo italiano, e ancora vive nutrendosi di ricordi di un mondo svanito.
[…] Le procedure dell’espulsione furono traumatiche: dopo una confisca totale dei beni e pratiche burocratiche umilianti i deportati venivano imbarcati per un paese, l’Italia, che non conoscevano. Alcuni, come il vecchio Calandra, non c’erano mai stati. L’arrivo tra i connazionali torinesi fu per lui amaro: era discriminato perché povero, profugo e meridionale, non riusciva a trovare casa né lavoro e visse alcuni mesi “come un disgraziato”. Ancora li odia i torinesi. Per lui l’Italia era una terra straniera, e allo stesso tempo una patria traditrice.
La signora D. era di Breviglieri, vicino a Tarhuna, dove vivevano i miei bisnonni. Lei li ricorda bene perché frangevano le olive nel frantoio della sua famiglia. Mi racconta della perdita del loro impero economico e delle umiliazioni, ma anche del “rispetto” degli amici arabi che li aiutarono fino alla fine, quando ormai erano in procinto di essere espulsi, privi di beni. Lei fu fatta partorire da un medico Libico in piena rivoluzione, e protetta dagli arabi fino all’imbarco. «C’era solo rispetto ed armonia tra arabi e cristiani», mi ripete. Il suo risentimento è tutto per Aldo Moro e per l’Italia che li ha abbandonati. «La stessa Italia che oggi va a prendersi i migranti sotto le coste della Libia», mentre noi “dovemmo addirittura pagarci il biglietto della nave». Nel pieno del suo sfogo arriva un messaggio sulla chat di famiglia, dove avevo condiviso un mio selfie con la signora, chiedendo se la ricordassero. L’informazione in arrivo è leggermente imbarazzante: tra le nostre famiglie non correva buon sangue e il mio bisnonno fu in causa con suo padre.
I fantasmi di antiche relazioni, incluse come in questo caso le inimicizie, continuano a manifestarsi intensamente, fili di una ragnatela che ancora connette i frammenti di quel mondo oggi disperso.
Mi chiedo che senso abbia indugiare qui, nella scomoda e imbarazzante post-colonialità italiana, mentre Roma e l’Italia ribollono di razzismo e nel Canale di Sicilia si annega ogni giorno. Ma forse la cifra di questa mia ricerca è proprio la commistione tra l’affettività familiare e la tossicità coloniale, dunque il fatto di non potermi ergere al di sopra degli eventi, giudicandoli come se io fossi innocente, come se riguardassero altri. Del resto tutti noi oggi galleggiamo trai naufraghi.

Lunedi 10 aprile, la cucina italiana
Pranzo da Elena Bucelli, amica italo-libica di famiglia, interessanti gli aneddoti e toccanti le ricette di mia nonna, scritte a mano per lei due anni prima che morisse. Sono reminiscenze africane, piatti che sua madre (mia bisnonna), cucinava per Elena e suo fratello a Tarhuna. Ma si tratta di ricette “neutre”, perlopiù tratte dalla rivista “La cucina italiana”, una bibbia culinaria anche per altri italo-libici. Questi italiani d’Africa sembrano il prototipo sperimentale di una nazione ben amalgamata, al tempo di fatto non ancora esistente: come la cadenza della loro parlata non è del tutto riconducibile al dialetto d’origine così la loro cucina è un melting pot inter-regionale italiano.
[…]
Elena mi racconta che loro studiavano arabo a scuola, ma per finta, e che nessuno aveva neppure mai imparato l’alfabeto. Secondo lei solo chi apparteneva alla classe lavoratrice imparava l’arabo, per necessità. Fu la perdita di un’occasione, mi dice, una forma di miopia e stupidità, retaggio di un senso di superiorità del tutto immotivato, come se gli italiani fossero ancora padroni in un paese dove in realtà, come la storia ha poi dimostrato, non erano che ospiti temporanei.


12 aprile, il ghepardo
I magazzini del museo di zoologia di via Aldrovandi sono affollati di animali impagliati confiscati a collezionisti e bracconieri. Un primate ci mostra i denti da dietro un velo di plastica semi-trasparente mentre accediamo alla collezione coloniale: Il bottino è costituito perlopiù di avorio, pelli di rettili, ovini o antilopi, oltre alla triste pelliccia di un ghepardo. Prove di conciatura a uso dell’industria manifatturiera italiana. Della colonia doveva essere messa a frutto anche la materia animale.
La rapina coloniale non interessò solo le popolazioni umane ma anche gli ecosistemi e tutte le forme viventi che li abitavano.
[…]
Il materiale grezzo animale viene processato per rivestire corpi europei, secondo i canoni della moda del tempo. Questa appropriazione racconta una passaggio di stato, una metamorfosi e un divoramento: dove l’Africa, materia prima inerte, nutre l’Europa, che invece è attiva, imprenditoriale, predatoria (allora come oggi).

21 aprile, Firenze, pranzo di famiglia
Mia zia Annarita racconta del lutto da lei vissuto quando la famiglia si trasferì da Tripoli a Firenze nei primi anni 50. Ricorda nitidamente l’arrivo all’alba con la freccia del sud: una fila di cipressi immersi nella nebbia, due linee cimiteriali in prospettiva convergente verso il buio: «è lo spazio rinascimentale fiorentino, chiuso tra le colline, misurabile. Mentre lo spazio libico e immisurabile, come il deserto, la costa, il lungomare di Tripoli. La luce della Sicilia si avvicina forse a quella speciale di Tripoli, con il suo orizzonte aperto … E poi eravamo terroni, e in più venivamo dalle colonie. Se nostro padre non avesse avuto quella posizione sociale saremmo stati trattati ancora peggio, saremmo stati feccia». Le mancarono la lingua araba, l’inglese, il canto dei muezzin, le moschee, la festa degli ebrei e il venerdì santo in chiesa. Mia madre la interrompe con l’aneddoto di una conversazione tra uno zio siciliano e il bisnonno Catarella, entrambi socialisti: che l’avvocato Catarella stesse attento, perché tra un po’ sarebbe stato invitato a tornarsene a casa “cui tappini in manu”, come dire, mandato via solo con un paio di pantofole (tappini) in mano, cioè perdendo tutto. Ma il bisnonno, da vecchio socialista, era già in ascolto dei segnali che provenivano dal “mondo arabo”, delle istanze che Nasser catalizzava e diffondeva tra le masse. Per lui era evidente che il clima stava cambiando, e che il “tardo” colonialismo italiano era alle corde. «Quando Nasser parla alla radio non c’è un arabo in strada», diceva. Riuscì a vendere appena in tempo. Ma la maggior parte degli italiani vissero nella loro piccola corte spensierati e ignari, fino agli ultimi mesi.

27 aprile. Roma, Museo della fanteria.
Tra i frammenti del cadavere indistruttibile dell’ex Museo africano, questo è il più cupo e angosciante.
I cimeli delle guerre coloniali italiane sono custoditi in un corridoio al piano terra. La sezione è chiusa al pubblico ma adesso, grazie al paziente lavoro “diplomatico” di Arnd, che è riuscito a risalire la gerarchia militare fino a un generale responsabile per la NATO dell’Italia centrale, siamo addirittura accolti da un graduato.
Un altro militare è a nostra piena disposizione per la visita, siamo autorizzati a filmare e fotografare e non abbiamo limiti di tempo.
L’imponente silhouette di un Ascaro in scala naturale domina questo antro gremito di presenze. Gli occhi si adattano alla penombra e sulla destra si materializzano dei piccoli obelischi, sono lugubri miniature di monumenti funebri costruiti in Africa orientale per i militari italiani caduti nelle tante battaglie da Dogali in poi. Poco oltre una sculturina in bronzo: un soldato italiano si staglia al di sopra della mischia, colpito a morte: la battaglia è perduta ma da sotto le sue braccia aperte un Ascaro fuoriesce con slancio rabbioso e colpisce un atterrito Etiope con il calcio del fucile. Quelli che in un qualunque museo sarebbero banali espositori qui sono veri e propri reliquiari: dentro la teca un ricamo giallo su stoffa blu “Dogali, 25 gennaio 1887”. Mani pazienti hanno cucito su quel tessuto anche brandelli di divisa e un frammento di osso umano. Il militare solleva con cura il vetro di una teca e ci mostra una cosa per lui sacra: all’interno di una scatola di legno, tra fazzoletti che un tempo furono tricolore, è custodita una mandibola. Apparteneva a un soldato ucciso ad Adua, sua madre la donò a Mussolini.
La visita procede attraverso riproduzioni in scale diverse di truppe cammellate, ascari, carabinieri libici e militari italiani in divisa coloniale, mappe e ogni altro genere di cimelio militare. Il soldato è molto orgoglioso di questa collezione “segreta”, verso la quale ha una devozione che va chiaramente oltre i doveri standard del pubblico ufficiale.

28 aprile. Pomeriggio a EUR con Nicola H
Nicola è nato a Tripoli da madre Toscana e padre greco, ha una parlata che sembra un misto di umbro, abruzzese e calabrese, ma ogni tanto scappa fuori una parola in dialetto siciliano. Se esiste una parlata italo-tripolina allora lui ne è un esempio cristallino.
Inoltre Nicola parla arabo fluentemente, con un forte accento che lui dice essere beduino. Quando parla arabo la sua voce, già bassa, scende di tono. Pronuncia Tahruna, dove vivevano i miei bisnonni, con un’enfasi gorgheggiante sulla “hr”, che sembra uscire dal fondo della trachea. In casa mia è sempre stata nominata “Taruna”, all’italiana.
[…]
Scorci sulla Libia italo-araba degli anni 50: lui con i suoi amici in moto, sfrecciano al tramonto verso i “villaggi” nell’entroterra, a 80, 100 km da Tripoli, per andare a ballare con le ragazze. Nei villaggi ci sono tanti gruppi musicali, si suonano i Beatles, che “arrivavano prima da noi che in Italia”. Gioventù spensierata, internazionale, benestante.
[…]
La Libia del dopoguerra come accesso privilegiato alla contemporaneità globalizzata e bolla di benessere, che però stava per scoppiare, nella generale incapacità di analizzare il divenire politico di quel paese che, sotto la patina di un’eterna primavera italiana era in piena ebollizione ideologica.
[…]
Anche Nicola, come altri libici romani, ci racconta della chiave consegnata alle autorità libiche, prima di abbandonare tutto. Il suo racconto prosegue con la visita a Tripoli nel 2009, quando i distesi rapporti tra Gheddafi e l’Italia permisero ai nati in Libia di rientrare nel paese da turisti (cosa che gli era impedita per legge dal 1970). Ci racconta della visita alla sua vecchia casa, del balcone murato, «perché le donne non devono essere viste da fuori», dice. Altri aneddoti: «Lì viveva una famiglia di greci, c’era Nicolino», gli dice un arabo. «Sono io», risponde Nicola in siciliano, l’arabo lo riconosce, lo abbraccia in lacrime – da bambini giocavano insieme, ma Nicola non si ricorda di lui – e lo invita a casa – però Nicola non ha tempo e si congeda, la comitiva deve proseguire. Ci racconta dei villaggi italiani abbandonati, delle coloniche trasformate in stalle, con baracche in lamiera costruite accanto, per le persone. «Gli ulivi non potati da decenni sono diventati giganti, gli agrumeti sono in rovina».
Sono infastidito da questo senso di superiorità, ma soprattutto turbato.
La stessa notte faccio un sogno: siamo in Libia, su una montagna desertica vedo case distrutte, sono le rovine di Tarhuna, che allora arrivava fino qui sulla strada, dove si congiungeva con un altro villaggio, forse Breviglieri, o forse addirittura Tripoli. Era tutto interconnesso, faccio notare a qualcuno. Un unico agglomerato abitativo. Oggi è deserto. Più avanti nel sogno mi infervoro, parlando della colonizzazione come qualcosa di sinistra, forse garibaldina. Le mie interlocutrici sono scandalizzate. Poi cambio ancora il punto di vista: si tratta di poveri che hanno soggiogato altri poveri, per loro la cacciata dalla Libia è il ritorno alla condizione di povertà da cui erano partiti i loro genitori migranti-colonizzatori, la brutale rivelazione di ciò che ancora, culturalmente o inconsciamente sono: poveri. Ancora più avanti nel sogno formulo un concetto di questo tipo: gli italiani del dopo guerra in Libia erano ospiti degli arabi, ma si credevano ancora i loro padroni, erano ospiti che si comportavano da padroni.
Mi sveglio: nel mio sogno c’erano tante voci diverse, ma tutte italiane.

Valentino Parlato (Tripoli, 7 febbraio 1931 – Roma, 2 maggio 2017)
Muore a Roma Valentino Parlato, italo-libico, fondatore de “il Manifesto” e amico intimo di mia nonna Ersilia. Lo conobbi da bambino.
Purtroppo in questi mesi romani non l’ho incontrato. Serendipità mancate. O forse no: pochi giorni fa frugando nella libreria di mio nonno a Firenze ho trovato un libricino “Associazione politica per il progresso della Libia”, una sconosciuta organizzazione inter-etnica per l’indipendenza della Libia, che fu fondata nel dopoguerra e di cui Valentino fu affiliato.

Emblema dell’”Associazione politica per il progresso della Libia”

3 maggio, visita al mausoleo di Graziani ad Affile
Dal mausoleo si gode una dolce vista su Affile e la campagna circostante. Un tricolore strappato sventola sulla struttura in tufo tra le lettere cubitali di “PATRIA” e “ONORE”, altri brandelli danzano per terra in mulinelli di vento. Nello spiazzo antistante il manufatto due cipressi secchi e un ulivo scheletrito. L’acqua non manca, anzi gorgheggia da una polla a monte del piccolo parcheggio, e il sole brilla nell’aria pulita, ma introno al mausoleo nessun essere vivente sembra riuscire a sopravvivere, come se questo posto fosse intriso di veleno.
[…]
Il cimitero, ai margini del paese, è deserto, le ossa del criminale di guerra sono qui, in una sobria ma signorile tomba di famiglia. Fiori di stoffa dentro bossoli di ottone della prima guerra. è solo dopo aver borbottato tra me e me le parole “macellaio del Fezzan” (credo di averle sentite da mia nonna), che visualizzo negli interstizi del travertino le minuscole tracce di vernice rossa con cui il sepolcro è stato imbrattato. Deve essere stato un lavoraccio lavare via tutto quel sangue.

Ulivo morto. Mausoleo di Graziani, Affile.
Cipresso morto. Mausoleo di Graziani, Affile.

15 maggio 2017, Firenze
Ritrovate le videocassette con le interviste fatte a mia nonna nel 2009 e nel 2002. La maggior parte dei suoi racconti riguardano la Libia tra il 1932 e il 1952, quando la famiglia rientrò in Italia (mentre i bisnonni restarono fino al 67).

16 Maggio 2017, Prato
Visita all’archivio Cipriani presso l’Archivio fotografico Toscano di Prato.
“Tipo borodda”, “tipo di musulmano”, “prete copto”, “tipi amhara”, “tipi tébu”, “tamàra”, “tuàreg”, ma anche “tipo slavo”, “tipo dinarico”, “tipo alpino”… passo alcune ore immerso nei deliri frenologici di uno dei firmatari del manifesto della razza. Sono tanti i volti che assomigliano all’uomo la cui faccia in gesso giace nei magazzini del pigorini. Forse l’antropologo era interessato a determinati tratti somatici, inseguendo chissà quale linea di ricerca sulla filogenesi delle razze umane.
Esco dagli archivi nauseato e mi immergo in un rigenerante brodo con lamian tirati a mano alla maniera wenzhounese.

27 maggio. Digitalizzazione + conversazione con X.
Passate molte ore nel tentativo di digitalizzare le interviste di mia nonna. Bello incontrarla di nuovo a 7 anni dalla sua morte e rileggere questo dramma storico dal punto di vista di una giovane donna intelligente e sensibile, e la cui visione del mondo era informata da un background socialista. Il suo sguardo dissacrante incrina l’idillio italo-libico e alcuni dei suoi ricordi sono veri e propri tasselli mancanti nella storia coloniale italiana: le teste tagliate portate da Piscopello, un “sicario di Graziani”, in trionfo per Tarhuna; il Pogrom del 1948 e le responsabilità degli inglesi che non lo impedirono; i pescatori arabi, siciliani e maltesi che si dividevano il pesce sulla spiaggia dopo aver pregato ciascuno il suo Dio; Mario Schifano bambino, figlio del guardiano del museo diretto da mio nonno, che molti anni dopo le copiò l’idea delle palme di metallo (ma le fece in argento e alte due metri); il lido “The Beach” ancora proibito agli arabi nel dopoguerra; l’arroganza di chi “metteva un piede, anche solo un piede sulla terra di Libia, e già diventava Conte, Marchese, Principe”.

L’artista e amica Anike Joyce Sadiq via chat da Berlino, mi suggerisce un tipo di display per disinnescare la trappola coloniale insita nell’aver riprodotto la maschera facciale: la copia 3D è scavata, trasformata in una vera maschera e attraverso i suoi occhi aperti una telecamera filma il visitatore, proiettando la sua immagine ingigantita sul muro, tanto più a fuoco quanto più si avvicina agli occhi vuoti della faccia. Mi manda anche una fotografia con un disegno dell’istallazione, dandomi il permesso di utilizzarla liberamente. [Giugno 2019. Rileggo i miei appunti a distanza di 2 anni. Al tempo considerai questa opzione brillante ma forse non abbastanza “aggressiva”, e optai per la ri-messa in scena di un’appropriazione violenta del volto del visitatore (supposto italiano), che veniva acquisito senza il suo consenso da una trappola fotografica collegata alla maschera con dei sensori di movimento. Chiamai questo dispositivo “Restolen”. Oggi penso che l’idea di Anike debba essere, in ogni caso, finalmente messa in atto. PS: nel frattempo però (luglio 2019) Anike ha cambiato idea: dell’installazione non resterà dunque altra traccia se non questa scarna descrizione all’interno di un processo dialogico ancora in divenire.

24 giugno 2017, inaugurazione della mostra Bel Suol d’amore – The Scattered Colonial Body, Museo delle Civiltà, Roma

1 Libia interiore. Oggetti e documenti dalle raccolte private delle famiglie: Caputo-Catarella, Calandra, Contini e Gambale.
2 A Tripoli. Video 28’41’’
3 L’uovo nel cus cus. Ricette di cus cus provenienti da famiglie tripoline.
4 Intervista a mia nonna Ersilia. Video 55’33’’, con filmati digitalizzati da miniDV e Hi8, girati nel 2002 e nel 2009 a Firenze.
5 Intervento performativo.
6 Palme anemiche, omaggio a Schifano e Gaudino, da un’idea di Ersilia Caputo-Catarella. Sculture in carta.
7 Materiale Rimosso. Busti imballati e cannoni provenienti dall’ex Museo coloniale di Roma.
8 Restolen#1. Trappola fotografica.
9 Restolen#2. Video 13’52’’

Palme anemiche, video “A Tripoli”
Materiale Rimosso

Appunti per la mostra, giugno 2017.
Una prima serie di video-interviste a mia nonna, su argomenti prevalentemente libici, risale al 2002 [cfr. il video: “Interviste alla nonna, Firenze, 2002 e 2009”].
La mia intenzione era, in un momento critico per la salute di mia nonna, di preservarne i racconti ad “uso” familiare. Avevo 25 anni e solo una vaga idea che esistessero i post-colonial studies, o che avrei, un giorno, potuto utilizzare quei materiali in una “mostra”.

I racconti libici della nonna mi affascinavano sin dall’infanzia, ma durante quelle interviste cominciai a intuire la portata esistenziale ed identitaria di quell’esperienza africana, che aveva plasmato la vita sua, dei suoi genitori e in qualche modo dei suoi figli. Ci sono voluti anni per mettere a fuoco questa “Libia interiore”. Da bambino tendevo del resto a sovrapporre l’aneddotica Libica a quella Siciliana: in casa dei nonni tutto rimandava a queste due terre lontane, in qualche modo perdute, e facevo fatica a collocare ogni elemento nell’uno o nell’altro di questi due meridioni. Ersilia e Giacomo erano entrambi nati in Sicilia, nell’agrigentino, ma avevano passato gli anni cruciali della loro vita in Tripolitania, a cavallo della Seconda guerra mondiale. Da qui si erano poi trasferiti a Firenze nei primi anni 50, mantenendo però, fino al 1966 (pochi anni prima della cacciata degli Italiani dalla Libia), un legame assiduo con la Tripolitania dove, in un’azienda agricola a Tarhuna, vivevano i coniugi Catarella (miei bisnonni, genitori di Ersilia, nonni di mia mamma Giuseppina).

Gli oggetti dei nonni esercitavano su di me il fascino della wunderkammer: il cristallo di zolfo siciliano, il corallo libico (o agrigentino?), la trinacria e il tuareg di porcellana erano infatti affastellati insieme in quella che inconsapevolmente chiamavo “stanza delle meraviglie”. Quegli oggetti per me pulsavano di una vita propria, emanando bagliori di mondi lontani, nella quiete borghese di una casa a Firenze.

Nelle mie fantasie infantili, Tarhuna era da qualche parte in Sicilia e le pendici del monte Cammarata (in provincia di Agrigento) erano popolate di jene e gazzelle. Ricordo anche però che negli anni 80 il luogo di nascita di mia madre, Tripoli, suscitava un leggero scompiglio negli aeroporti, specialmente inglesi, e ricordo il suo disagio nel sentirsi esposta al sospetto delle autorità. Fu la prima volta che percepii una qualche problematicità in questo altrove familiare. Un altro episodio che mi turbò fu la visione notturna di mia zia Annarita, che la notte del 15 Aprile 1986, durante il bombardamento americano su Tripoli, vide come su un velo la città che bruciava, e donne arabe con bambini che fuggivano gridando da un palazzo in fiamme. La sua visione avvenne in tempo reale, prima che i media dessero la notizia [cfr. Video “A Tripoli”].
Con le interviste volevo salvare questo patrimonio familiare.

Si faceva inoltre strada in me la comprensione dell’ingiustizia storica rappresentata dal colonialismo Europeo. Quell’ingiustizia, costellata di crimini, sottendeva però la storia della mia famiglia, implicando la mia stessa esistenza: i miei nonni si erano conosciuti a Tripoli durante il fascismo, qui si erano sposati (il giorno del primo bombardamento su Tripoli) e qui era nata mia mamma, quando la Libia non era più una colonia italiana.

La storia pubblica è intessuta di vicende private che non possono essere a questa ridotte, ma che da questa non possono prescindere. Ho scelto quindi per me, nella sala delle scienze del Museo Pigorini a Eur, una posizione impossibile, creando una collisone tra “oggetti” tra loro inconciliabili: è ad esempio paradossale che il busto di Graziani, odiato da mia nonna, possa essere mostrato in presenza dei suoi oggetti privati e dei suoi racconti, nonché della ricetta del cous cous che, tramandata da lei a mia mamma (trasformandosi), ha segnato momenti importanti della mia vita. Questa contraddizione ha tuttavia innegabilmente segnato l’esistenza della mia famiglia ed è quindi significativa. Del resto questa “innegabilità delle cose” ha imposto alla mia ricerca percorsi quasi forzati, guidandomi dentro il rimosso coloniale alla luce fioca delle collezioni e dei racconti privati, dalle interviste del 2002 a mia nonna a quelle del 2009, passando dai souvenir che la bisnonna portava negli anni 60 a mia madre e ai suoi fratelli dalla Libia, fino alle ricette del cous cous, alle storie e ai ricordi degli altri “italo-libici” che ho conosciuto negli ultimi mesi qui a Roma.

Libia interiore

Alcuni degli oggetti esposti all’interno dell’installazione-vetrina “Libia interiore”:

Statua Tuareg in ceramica (collezione privata Caputo-Catarella).
Il Tuareg, acquistato a Tripoli quando c’erano le MAL per moneta, proviene dalla Scuola artigiana di ceramica impiantata dall’artista sardo Melckiorre Melis (1880-1982, anche pittore, grafico ecc.) cui Balbo aveva affidato nel 1932 la riorganizzazione dell’antica Scuola musulmana di arti e mestieri di Tripoli. Meli stette a Tripoli fino al 1942.

kaftano arabo + babbucce di Annarita + borsa hippy

Regali che la mia bisnonna portava a mia mamma e sua sorella negli anni ’60. L’esotismo coloniale si adattava bene alla moda hyppie di quegli anni, anche se le matrici ideologiche di queste due estetiche erano antitetiche.

Piastrella ceramica. “Solo chi ha attraversato il deserto può raggiungere l’oasi”. Mia nonna lo regalò a mio cugino quando, dopo una serie di bocciature, riuscì finalmente a passare un esame di Giurisprudenza.

La Tripolina. Canzone propagandista della guerra “Italo-Turca” del 1911-1912. La vittoria del giovane regno sul decadente Impero Ottomano segnò l’inizio della colonizzazione italiana della Libia.

Il testo sembra un’anticipazione di “Faccetta Nera”.

Elenco telefonico della Tripolitania, risalente al 1959: nomi e cognomi degli abitanti di Tripoli, soprattuto arabi e italiani, alcuni ebrei, pochi inglesi. Apro alla B, mi casca l’occhio su un Braha, digito su internet “Braha Tripoli” e salta fuori un’intervista a un signore ebreo, nato a Tripoli nel 1938. Giro la pagina: “Bucelli Dr. Alberto”, suppongo il padre di Elena, I Bucelli erano amici intimi dei miei nonni [cfr. le ricette di Elena]. E poi le inserzioni pubblicitarie: “Casa della Luce”, l’annuncio, per materiale elettrico, è bilingue in arabo e italiano; “Industrie Riunite Pompeo Gherandi”; “Dunlop – Tyres & Rubber Goods Batteries – Leone Habih & F.llo” in un misto di italiano e inglese; “Alberto Magiar – Import-Export”, incuriosito dal cognome indago, e ricostruisco che i Magiar erano ebrei che abbandonarono Tripoli in seguito al pogrom del 1967, appena otto anni dopo. Gli Italiani saranno invece espulsi con un decreto nel 1970. Questo elenco è l’istantanea di un’età di mezzo, tra la fine del protettorato inglese e l’indipendenza della Libia. La segregazione, di fatto ancora coloniale, è dissimulata nell’apparenza di una città multiculturale del futuro, dove coabitano ristoranti italiani, loghi di brand internazionali e imprese arabe.

Al di sotto di quell’effervescenza di concordia e prosperità erano del resto in azione tensioni politiche e sociali sul punto di rottura.

“Il giornale di Tripoli” del 23 agosto 1963 (Collezione Caputo-Catarella).

Ricetta di “Cus Cus” di mia nonna Ersilia, trascritta da mia mamma Giuseppina negli anni ’70.

Lunario per l’anno 5708 (1947-48). Due copie.

Etichetta per vino “Cantina Catarella – Tarhuna”, 1940. Posso difficilmente immaginare il sapore di questo vino africano, imbottigliato dal mio bisnonno nell’anno dell’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale e di cui ignoro tutto, a partire dall’uvaggio. 

Lista di parole in arabo tripolino ricordate dalla mia nonna materna Ersilia nel 2009 + uno schizzo-promemoria di un suo racconto: ogni sera, poco lontano dalle rovine di Sabratha, i pescatori arabi, tripolini, bengasini, maltesi, italiani, siciliani e tunisini francesi tornavano a terra dopo una giornata di lavoro. Dopo aver pregato “ognuno il suo dio” ed essersi abbracciati lanciavano un unico grido ad Allah, forse in Maltese, quindi si dividevano il pesce (“ma non le aragoste”.).

Cartolina che rappresenta una forca di arabi impiccati dalle autorità italiane a Tripoli. Fu spedita da Gargaresh, in Tripolitania, a Padula (Carrara), il 21 marzo del 1912. L’immagine non è mostrata al pubblico. Descrizione: “14 traditori impiccati”, una scritta ai piedi della forca, e un’altra, più piccola: “Prop. Ris. Elia Nhaisi – Tripoli”. Gli uccisi pendono da una grande struttura di legno. La fotografia è stata scattata da una posizione rialzata dietro il patibolo. Oltre la struttura ingombrante della forca una piccola folla: donne avvolte in abiti tradizionali, due soldati italiani con casco coloniale, soldati in divisa ordinaria, un civile baffuto che osserva i cadaveri e alla sua destra la silhouette di un ascaro, armato di moschetto. Una fila di cammelli divide in due la folla, dietro i cammelli altri soldati, sempre più piccoli, donne e bambini. Agli antipodi del patibolo, sotto una tettoria in fondo alla piazza, si intravedono gli uomini. Un giovane in abiti tradizionali osserva invece da vicino, accanto a lui un signore in abiti occidentali e cappello sta per uscire dall’inquadratura, sembra di fretta. Appena visibili nell’ombra della forca, ma molto vicini, due ragazzini arabi guardano intensamente gli assassinati, o forse il fotografo.
Il testo della cartolina, destinata al “signorino Binelli Carlino” di Carrara è scarno e gentile:
“Ringraziamenti ed affettuosissimi, Deluisa”

“Panorama dalla Chiesa Cattolica”. Cartolina panoramica spedita il 10 agosto 1913 dalla Tripolitania a Netro, Biella.

Cartolina fotografica scattata dalla chiesa cattolica, con vista sulla Moschea.

Cartolina fotografica scattata dalla moschea, con vista sulla Chiesa Cattolica.
La data della cartolina è sconosciuta, ma la palma appare identica rispetto all’analoga fotografia, datata 1913 – e presumibilmente scattata in quell’anno. In altre cartoline-fotografiche della Moschea, scattate sotto lo stesso angolo prospettico (che suppongo essere quello del campanile della Cattedrale), la palma appare notevolmente più alta. Sono degli anni 30. Il punto di vista “forzato” sull’Altro appare costretto nelle strutture architettoniche della città. Lo spazio, entro cui lo sguardo del colonizzatore esercita il proprio dominio, sembra congelato, ma il tempo scorre, e la palma cresce inesorabilmente.

Corriere della Sera Illustrato, 15 settembre 1979. Copertina: “La Libia si vendica di Graziani: con un film”.

“Atlante, Genti – Natura – Civiltà”, 29 settembre 1961, p. 510-511 “Ultime scoperte a Sabratha”.

“Associazione Politica per il progresso della Libia – Statuto”
Questo documento mi conduce, attraverso una piccola ricerca, a Valentino Parlato, italo-libico e amico fraterno di mia nonna Ersilia.
Lo statuto è imperniato sulla solidarietà interconfessionale e l’unità nell’interesse della Libia. Queste ragionevoli idee costarono a Valentino e a molti altri l’espulsione dal paese da parte delle autorità inglesi. Fu la prima deportazione di italo-libici, con molti anni di anticipo rispetto a quella voluta da Gheddafi. Leggendo lo Statuto immagino una contro-Liba, interculturale, prospera e pacifica.

Fotografia di classe di mio zio, Tripoli, 1950. Francesco è il terzo da sinistra, in basso. Attraverso una catena di coincidenze ho ricostruito, a partire da gennaio di quest’anno, una frammento dell’infanzia tripolina di mio zio Francesco Caputo, fratello di mia madre, e della sua rete sociale. Almeno altre due copie della stessa fotografia sono infatti a Roma, negli archivi privati di Nicola e Umberto, che ho conosciuto grazie a Gianfranco Calandra (grafico del Pigorini) e a suo padre Mario, grande animatore della comunità romana di “ex-libici”.

3 palme di latta commissionate da mia nonna Ersilia a Gaudino (padre di Tina impiegata al Pigorini) e risalenti ai primi ’50.

La Domenica del Corriere, 21 – 28 gennaio 1912 + 30 Giugno -7 Luglio 2012

Italiani d’Africa, Marzo-Aprile 1991 + Maggio-Giugno 1992

Negli anni ’80 mio nonno materno, Giacomo Caputo, porto a termine, ormai vecchio, il suo ultimo libro: Monografie di Archeologia Libica – III – Il teatro Augusteo di Leptis Magna – scavo e restauro 1937-1951.

Il tavolino fu acquistato dalla mia bisnonna a Tripoli ma è in realtà “made in India”, arrivato nell’ex colonia italiana attraverso i canali di mercato attivati dai nuovi padroni. Un orientalismo diffuso caratterizzò infatti il periodo post bellico del mandato inglese. Agli esotismi dell’impero fascista naufragato si aggiungevano quelli di un impero ancora (per poco) in piedi. Per questo alcuni dei ricordi degli oggetti che gli italiani espulsi dalla Libia portarono in Italia sono in realtà prodotti nelle colonie inglesi, soprattutto in India.

Una pagella “libica” dell’anno scolastico 1947-1948, era del suocero di Roberto, impiegato dalla ditta di trasporti e imballaggio che ha trasferito parte della collezione dell’ex Museo africano dalla sua sede storica in via Aldrovandi (da decenni chiusa al pubblico), ai magazzini del Pigorini.
Nella Libia sotto protettorato inglese le pagelle sono ancora quelle del tempo del fascismo. Ma alcune significative correzioni – a mano – le hanno adattate ai tempi nuovi. L’editing più significativo: “nozioni varie e cultura fascista”, è sbarrato a matita, al suo posto, scritto a mano: “lingua Araba”.
Ma Elena Bucelli, amica di famiglia ex-libica e residente a Roma, mi ha raccontato che lo studio della lingua araba era solo “sulla carta” e che alla fine del ciclo scolastico nessuno aveva imparato neppure l’alfabeto.

Album fotografico di mia madre, aperto su un’immagine degli anni 50, che ho ri-nominato l’intruso. La fotografia ritrae mia nonna sul lungomare di Tripoli con i suoi tre figli – mia mamma è la più piccola. Un bambino libico si è intromesso nell’inquadratura e osserva, la foto è rovinata. Il ragazzino si allontana e si scatta ancora, l’idillio del bel suol d’amore è temporaneamente ripristinato (il vero intruso è l’Italiano, ma ancora non lo sa).

*Il lavoro sul campo a Roma, svolto insieme all’antropologo Arnd Schneider, è parte di TRACES, che ha ricevuto il finanziamento dal programma di ricerca e innovazione di Horizon 2020, dell’Unione Europea, sotto il grant agreement No. 693857. L’autore, Leone Contini, è l’unico responsabile dei punti di vista espressi in questo testo che non necessariamente riflettono il punto di vista della Commissione Europea.

Bibliografia
Contini L., The palm, the couscous, the face, in Arnd Schneider (a cura di) Art, Anthropology, and Contested Heritage, Bloomsbury, London (2019)
Schneider A., The Scattered Colonial Body: Serendipity and Neglected Heritage in the Heart of Rome, in Arnd Schneider (a cura di) Art, Anthropology, and Contested Heritage, Bloomsbury, London (2019).
Grechi G., The scattered colonial body. Di musei infestati, archivi alterati e sopravvivenze coloniali, in Daniele Salerno e Patrizia Violi (a cura di), Migranti, Archivi, Patrimonio. Memorie pubbliche delle migrazioni, Il Mulino, in corso di pubblicazione.