LIQUID BORDERS
La pratica e l’estetica di Tim’m West: come surfare una modernità liquefatta
di Gianpaolo Chiriaco'

© William Frederking

Poeta, attivista, rapper, accademico, femminista. E poi ancora gay, nero, sieropositivo. Tim’m West, nato a Cincinnati, Ohio, e cresciuto nell’Arkansas, usa – a seconda dei casi – una, tutte o qualcuna delle categorie con cui si autodefinisce.

Ma la sua pratica – musicale, politica, e di vita – si fonda sulla disidentificazione, cioè sull’uso di categorie che possono essere continuamente ribaltate, negate, evitate, aggirate, criticate. Il tutto in base al principio da lui stesso definito come lo “scegliere di non scegliere”.

In qualità di rapper, musicista e attivista, Tim’m si inserisce in una lunga tradizione di contestatori-artisti afroamericani, ma la sua proposta si spinge ancora oltre, giacché quell’insieme di identificazione e rifiuto informa anche la sua stessa appartenenza etnica. Facendo uso di categorie che vengono sistematicamente contrastate, Tim’m lancia così la sua invettiva contro la società, la retorica e il linguaggio americani. Il suo diventa un rifiuto totale dell’idea di nazionalismo e delle sue innumerevoli implicazioni e applicazioni.

Come cittadino italiano del Sud, proverò quindi a interpretare i libri, i dischi, le performance e le interviste di Tim’m come una preziosa chiave di lettura (di apertura?) della modernità. Se è vero che i confini – quelli reali, quelli culturali, quelli psicologici, e quelli autoimposti dall’individuo – assumono oggi una consistenza liquida, è anche vero che un liquido avviluppa e affoga. L’esperienza artistica e speculativa di Tim’m suggerisce una nuova soluzione: quella di surfare la modernità liquefatta per assegnare continuamente nuovi sensi.

La sua proposta diventa quindi valida anche per tutti i confinati del Mediterraneo italiano: gay, neri, working class, accademici. Scegliere (senza scegliere) volta per volta il senso della propria voce, rovesciandone i registri, può far risuonare quell’invettiva contro la retorica, la società e il linguaggio. E può fare di questa estetica una pratica.

In principio era il nome. Quell’apostrofo e quella ripetizione nel nome di Tim’m non sono casuali. Come la maggior parte dei nomignoli poi assurti a significanti, si porta appresso una storia. Sua madre, nel tentativo di pacificare le ansie del suo secondo figlio, balbuziente, e di insegnargli l’orgoglio della libera espressione nonostante le difficoltà di articolazione, gli insegnò a scrivere il suo nome in questa maniera: con l’apostrofo e la ripetizione. Fino a quando, molti anni più tardi, Timothy non decide di prendere la strada dell’hip hop e della poesia, e si ritrova ad abbracciare quel soprannome con orgoglio. Ma quel soprannome non racconta solo la determinazione, si porta appresso un suono e una voce. Anzi, fonda il valore di quel suono e di quella voce. Nella parola, nella componente ritmica del linguaggio che quell’apostrofo richiama con forza, Tim’m riscopre il valore, la ritualità e la sacralità della comunicazione. È proprio in quella gola, da cui perfino il nome esce a fatica, che il bambino dell’Arkansas trova la forza di individuare una propria visione, una propria esperienza, una propria creatività e una propria vocazione espressiva.

Quella di Tim’m sembra, infatti, più che una pratica artistica, una vocazione espressiva. Che va compresa nella specificità del soggetto creatore, e nella realtà del suo contesto. Nella sua idea di disidentificazione non c’è spazio per il distacco; sembra invece che Tim’m scelga in ogni istante di rimanere e lottare, di affrontare la partita invece di scappare via. Per lui l’attività di mc o di poeta non mira a creare un mondo parallelo, ma descrive apertamente i percorsi psicologici determinati da precise condizioni sociali, e che pertanto non sono solo suoi, ma sono specchi in cui in molti – sebbene privi del coraggio espressivo di Tim’m – si possono identificare. E pertanto diventa apertamente politica. In un suo articolo del 2005, dal titolo Keepin’ It Real, Tim’m descrive come per lui utilizzare le rime per attaccare l’omofobia dominante nel mondo dell’hip hop diventa un modo per attaccare alle fondamenta il nazionalismo americano, in questo caso trasfigurato nella nation of hip hop. Il gioco è evidente ma incontrollabile: Tim’m dichiara un’appartenenza ma, svelando insidie e miserie insite nel principio stesso d’appartenenza, rompe le regole e allo stesso tempo si auto-scagiona, dimostrando che quell’appartenenza non è più valida.

Il gioco gli è possibile in quanto rompe le regole d’etichetta ma conosce e rispetta le regole dell’artigianato. Da un lato c’è l’attenzione al flow, al flusso verbale – frutto degli sforzi fatti per superare la balbuzie –, dall’altro un grande talento per il ritmo, per la capacità di cucire immagini, rime, sottotesti e accenti sia nei suoi scritti sia nelle sue melodie. L’abilità gli permette di essere autorevole: è conoscendo la materia che Tim’m si concede la possibilità di trasformare i sensi. E nel far questo dimostra di conoscere anche i trucchi tipici della cultura afro-americana: ad sempio, il signifying, quello stratagemma retorico svelato dai critici letterari e di cui il rap è pieno, così come il blues e il jazz. Keep it real è un’espressione, infatti, tipica tanto del contesto afroamericano (in particolare nel linguaggio dei predicatori) quanto della retorica americana tout court. Un’espressione tutto sommato priva di senso reale, che Tim’m utilizza per trasformarne il senso, per spingere a vedere i confini di genere in maniera più aperta, per riconoscere la natura politica dell’amore, per guardare alla malattia e al successo come due categorie assai mutabili. In questa maniera, la critica al nazionalismo diventa critica a qualsiasi attaccamento morboso al principio di comunità, sia essa una famiglia, una chiesa, una razza, uno stato. Anche la comunità nera diventa oggetto di critiche: l’omofobia, la separazione interna tra le varie comunità, la rassegnazione nei confronti degli stereotipi sessuali e culturali. L’arte di Tim’m West è un continuo corto circuito, che attacca come un virus, costantemente, qualsiasi automatismo mentale, distruggendolo con la forza di un ragionamento ferreo. E di una squisita dominanza verbale.

“I have a background in academia, and I was working on my PhD in 1999, when I discovered that I had AIDS”, racconta. Questo aspetto tragico della sua esperienza umana si rivela un passaggio cruciale nella sua attività artistica. Nella Bay Area (era studente di Stanford) fonda così il Deep Dickollective. Il DDC rappresenta un passaggio determinante nella sua carriera: il collettivo fa strada, diventa un emblema della Bay, grazie a versi densi di consapevolezza intellettuale, approccio ironico e dissacrante, a cui si aggiunge l’abilità nel promuoversi all’interno dei circuiti queers della California. Gay nel mondo omofobico dell’hip hop. Ma anche quell’esperienza giunge al termine, per via soprattutto di incomprensioni personali, e così Tim’m riversa il suo entusiasmo, il suo impegno, e la sua ansia espressiva nel lavoro da solista. Di lì a breve pubblicherà un disco, il primo a suo nome, dal titolo Songs from Red Dirt (http://timmwest.bandcamp.com/album/songs-from-red-dirt).

L’immagine che viene sviluppata nel disco solista è quella del Sud, dell’Arkansas da cui Tim’m proviene. Ma non è un Sud nostalgico, idilliaco, mieloso e ribelle al governo federale. È, al contrario, un punto di riferimento – forse l’unico, o il più ovvio – che a Tim’m serve proprio per allontanarsi più facilmente, nel continuo processo di disidentificazione. Come se il principio dello “scegliere di non scegliere” non possa essere applicato al luogo d’origine, che infatti non è scelto, ma accettato. Nel brano omonimo (Red Dirt), in cui si intrecciano quattro voci, a creare un fondo vocale che ricorda un classico spiritual (Tim’m è, tra le altre cose, cresciuto nel coro della chiesa in cui il padre era pastore), il ritornello spiega bene il concetto: “Of all the places where I’ve been in these great earth / I always remember where I come from / Red Dirt.” Con lo stesso nome, “Red Dirt Revival: A Poetic Memoir in 6 Breaths,” e nello stesso anno (2003), esce anche il suo primo libro. Raccolta di poesie, ma anche diario di una nuova vita, in cui l’ossigeno di ogni respiro è da succhiare fino in fondo. Il tema dell’attivismo, della necessità di affermare una vitalità che è protesta e che ha un portato rivoluzionario se si unisce ai temi della libertà dai confini di genere, al rifiuto della differenziazione tra malattia e sanità. Tra gli altri temi preponderanti nel libro, il rapporto con il padre (nei versi di Negation e di Asskisser), un tema che rimane una costante nella poetica di Tim’m, ripreso ad esempio in Forgiven, brano che chiude il suo ultimo album, Snapshot (2013, http://timmwest.bandcamp.com/album/snapshots-the-he-art-and-experience-of-timm-t-west). Affianco al rapporto con il padre, che diventa simbolo dei vecchi principi, da cui si distacca provando a non odiare, l’autoanalisi delle sue radici affronta tutti i temi correlati: l’essere nero negli Stati Uniti, l’essere working class, l’essere un uomo con tutte le ansie (sociali, legali, razziali) che fanno parte del tessuto sociale americano.

Lasciata la ricerca universitaria prima e il Deep Dickollective poi, West inizia a girare per la nazione, lavorando come docente nei college, e all’interno di programmi destinati a ragazzi in difficoltà (queers neri e latini, sieropositivi). E’ in quest’ambito che matura la passione per l’insegnamento e la diffusione della consapevolezza. Tim’m promuove il raggiungimento di quello stadio mentale a cui è giunto applicando la teoria alla poesia, e viceversa, e che gli ha permesso di superare la depressione seguita alla scoperta di essere sieropositivo. L’abilità nel mobilitare i talenti lo porta a istituire un circuito di serate denominate Front Porches, che da dieci anni porta in giro per gli Stati Uniti. Front Porches è un altro prestito dal Sud: sono le verande, in cui ci si incontra per comunicare, rilassati, di argomenti a volte profondi a volte giocosi. Le serate si fondano sulla combinazione di Open Mic e artisti in programma, ogni volta diversi, valorizzando i talenti locali, tra cantanti, musicisti, poeti, spoken word performer, rapper.

Il carisma di trascinatore, certamente ereditato dal padre, lo ha portato infine a Chicago, come direttore del Center on Halsted, un centro di accoglienza e supporto per la comunità LGBT, in particolare per gli homeless e i sieropositivi, in maggioranza afroamericani. Anche lì, Tim’m affianca il lavoro di formazione a quello da artista: oltre ai corsi e ai colloqui individuali, tiene, a scadenza settimanali, seminari di hip hop e libera espressione, che rappresentano un successo e un’attrazione per il centro. Cosicché, sostiene, aiuta a comprendere e valorizzare la bellezza.

Anche all’interno del Center, Tim’m si rivela imprevedibile, e procede – nella rappresentazione di genere – sulla strada dell’inaspettato. In nessun modo, infatti, rifiuta la sua mascolinità, e anzi ne fa un tratto distintivo, che indossa con orgoglio: la voce da baritono, il passo maestoso, il fisico robusto. Una passione per lo sport, che è palpabile nelle sue performance, suggerisce l’immagine che la modernità dai confini liquidi, di cui si dimostra estremamente consapevole, vada surfata senza affogarci dentro. Conscio della necessità di ricercare la disidentificazione come via di fuga dai meccanismi di soggezione mentale, orgoglioso dei suoi ruoli performativi come artista e come attivista gay, Tim’m West porta avanti una pratica artistica che è sicuramente politica, ma con un fulcro – non retorico – sulla liberazione dell’individuo.

Nella società americana il riconoscersi in un’identità è determinato dal bisogno di appartenenza, dal bisogno di stabilire legami aggregativi, in modo da sfruttare i vantaggi socio-economici che ne conseguono. Dal nostro punto di vista, da italiani, in un contesto sociale di stampo più conservatore, l’identificazione sembra determinata più che altro dalla necessità di un riconoscimento. Il principio di disidentificazione, tuttavia, non perde il suo fascino e la sua validità. Se c’è un insegnamento che si può trarre, osservando le diverse facce di Tim’m West, è l’importanza – come performer, come attivisti, come accademici, come omosessuali o come transgender – di mobilitare i talenti (partendo dai propri) contro la chiusura di una narrazione sociale ristretta al mondo della crisi, dello stallo, dei confini (liquidi o materiali), delle soluzioni a tempo determinato.

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Gianpaolo Chiriacò (Taranto, 1980) lavora come visiting researcher presso il Center for Black Music Research (Columbia College, Chicago), dove è responsabile del progetto di ricerca ROTVOSCIAME/Afro-Vocality (www.rotvosciame.com), finanziato da una borsa Marie Curie/International Outgoing Fellowship. Tra i suoi principali interessi vi è lo studio del ruolo delle vocalità tradizionali nella definizione e nell’espressione di nuove identità culturali legate alla diaspora africana. È dottore di ricerca presso l’Università del Salento, con una tesi dal titolo “Il patrimonio culturale della moresca: presenza africana e stilizzazioni eurocolte nella musica del Rinascimento italiano”. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Re: Sounds. Musica, parole, dischi e social network” (Unisalento Press) e il saggio “L’incerto cammino del ritorno, il canto di Syd dalle irriverenze al silenzio” (Stampa Alternativa). Chiriacò è inoltre ideatore e curatore del symposium “Black Vocality: Cultural Memory, Identities and Practices of African-American Singing Styles” (http://www.colum.edu/CBMR/digest/2013/spring/vocality.php).