§Ricco Patrimonio / Povera Patria
Mi lascio in eredità alla terra per rinascere dall’erba che amo:
un processo collettivo di patrimonializzazione in terra bergamasca
di Simona Bodo, Silvia Mascheroni e Maria Grazia Panigada | Patrimonio di Storie

“Lasciare in eredità qualcosa alla terra significa che quel qualcosa darà frutto”.
La comunità patrimoniale dei volontari di Bergamo

Nella primavera del 2020, la pandemia da Covid-19 ha avuto un impatto drammatico sul territorio bergamasco, con conseguenze gravissime anche per il volontariato locale, che alla perdita di moltissime vite umane ha assommato l’impossibilità per numerose associazioni di continuare a svolgere il proprio lavoro.

La peculiarità del progetto Lascio in eredità me stesso alla terra [1] risiede nella scelta inedita e per certi versi visionaria del Centro di Servizio per il Volontariato (CSV) di Bergamo, che ha individuato nel patrimonio culturale uno “specchio” da porgere alle tante realtà associative territoriali e alle persone che vi operano per attivare un percorso autoriflessivo sul proprio ruolo nella promozione del benessere della collettività. 

46 volontari, appartenenti ad altrettante realtà associative e riuniti in sette gruppi omogenei per ambito di intervento, hanno intrecciato i propri vissuti a uno o più luoghi del patrimonio della terra bergamasca, accompagnati da Patrimonio di Storie [2]: il Gruppo Ambiente è stato associato a Palazzo Moroni e i suoi giardini a Bergamo;  Cultura e Diritti alla Chiesa della Resurrezione a Torre de’ Roveri (con le opere e gli arredi site-specific dell’artista francese Arcabas); Disabilità alla rotonda di San Tomè ad Almenno San Bartolomeo e alla chiesa di San Giorgio ad Almenno San Salvatore (Antenna Europea del Romanico); Intercultura alle sculture contemporanee in città (il Parco della Scultura nel giardino del palazzo della Provincia di Bergamo, la zona di Largo Porta Nuova, il Chiostro di Santa Marta e la corte di Palazzo Zanchi);  Povertà e Fragilità alla Cappella Suardi a Trescore Balneario (affrescata da Lorenzo Lotto); Salute e Malattia alla Chiesa della Conversione e al Monastero benedettino di San Paolo d’Argon; Terza Età alla Basilica di San Martino e al Museo d’Arte Sacra ad Alzano Lombardo.

«Per guardare negli occhi i quattro telamoni bisogna chinarsi, scrutarli dal basso, girar loro intorno, sgusciare tra la base del pulpito e la colonna cui è addossato»
Giuseppe Abramo, Auser Bergamo

Il “corpo a corpo” di Giuseppe Abramo con i telamoni del pulpito della Basilica di San Martino ad Alzano Lombardo. Foto di Maria Grazia Panigada

Questa “comunità di eredità” – uno dei concetti chiave introdotti dalla Convenzione di Faro [3], che attribuisce una nuova rilevanza alle persone nei processi di cura e di risignificazione non solo ai fini della tutela, ma anche e soprattutto del riconoscimento del patrimonio come un corpo vivo, che fa parte della nostra stessa esistenza – non è stata tracciata a tavolino, ma si è andata costituendo “facendo patrimonio”. 

Poter conoscere e vivere questi luoghi in un modo del tutto inatteso – non tanto come oggetto di conservazione, quanto come straordinari vettori di conversazione tra cittadini in una situazione di forte fragilità – è stata occasione preziosa per i volontari di conoscersi, riconoscersi, mettersi in ascolto di persone e realtà associative di cui fino a quel momento si ignorava l’esistenza, e improvvisamente trovarsi uniti in una nuova consapevolezza: quella di essere a loro volta un patrimonio.

“Lo stupore di arrivare ad Alzano Lombardo, entrare in quei luoghi, come se si fossero aperti degli scrigni dentro: di emozioni, di immagini… Sono finalmente riuscita a cogliere la connessione tra il patrimonio artistico e il patrimonio culturale delle associazioni: ho sentito che sono un tutt’uno, che potevano dialogare”.
Maria Francesca Pasinelli, Alzheimer Bergamo

Per comprendere appieno la portata di questa esperienza, è utile ripercorrere per sommi capi alcune nozioni basilari che tendiamo a dare per acquisite, ma che richiedono una costante interrogazione e riflessività.

 

La Convenzione di Faro e le comunità patrimoniali: un insieme di persone

Le parole, si sa, veicolano concetti e sono l’esito di stratificazioni semantiche e di mutamenti di contesto: assunte e praticate in milieux differenti, camminano, si spostano nello spazio e nel tempo, si colorano di nuovi significati e bisogna saperle maneggiare con cura e sapienza. Ciò vale per tutte le “parole a stella” della Convenzione di Faro – patrimonio, identità, eredità – ma forse ancor più per comunità, veicolo di un concetto – come ci ammoniscono gli antropologi – ambiguo e “scivoloso”, che va usato con estrema cautela, in quanto si rischia di appiattire e uniformare la diversità e la specificità dei singoli che la compongono [4]. Inoltre, il termine può alludere a un insieme pacificato, all’interno del quale non sussistono opinioni diverse e conflitti, mentre sappiamo bene che le dinamiche democratiche e il dialogo costruttivo si basano sul confronto continuo, nonché sull’accoglienza di contributi anche in contrasto tra loro [5].

Per questi motivi preferiamo parlare di persone, ognuna portatrice di identità multiple, che si riconoscono “collettività” nelle azioni di conoscenza, partecipazione e interpretazione del patrimonio culturale.

«Fra pochi mesi sarà tutto diverso, la vita sarà palese su questo albero […],
ma è ora, nel riposo dell’inverno, che mostra la forza resistente della natura: il migliore esempio per un volontario, in questo momento di pandemia»
Emmanuele Comi, CNGEI – Corpo Nazionale Giovani Esploratori ed Esploratrici Italiani  

Il Gruppo Ambiente nei giardini di Palazzo Moroni a Bergamo.
Foto di Stefano Fanciulli

Nel relazionarci con la comunità patrimoniale di Lascio in eredità me stesso alla terra, abbiamo sempre tenuto in considerazione la segmentazione interna ai diversi gruppi “tematici”; se il legame forte e condiviso è la vocazione – e la conseguente operatività – nell’essere al servizio dei prossimi, diverse sono le variabili (genere, età, stili di vita, provenienza socio-culturale, fede religiosa, formazione…) che la distinguono.

Ci siamo inoltre costantemente interrogate non solo su cosa i volontari riconoscessero come “patrimonio”, su quanto e come la loro percezione iniziale si sia modificata strada facendo, se e come abbia assunto valenze diverse, ma anche su quali fossero le loro aspettative, altro elemento che può caratterizzare una collettività.

Per essere e sentirsi comunità patrimoniali, ciò che conta non sono tanto le competenze conoscitive o tecniche dei singoli che la compongono, quanto l’attribuire valori e significati condivisi a ciò che segna il proprio ambiente di vita, farne testimonianza ed esprimere “emozioni patrimoniali” (Fabre e Arnaud, 2013). Emozioni che i volontari bergamaschi hanno saputo riconoscere e nutrire, affinando una capacità di sguardo che cambia tanto il modo di far parte di una comunità di eredità, quanto quello di essere volontari:

“Per fare bene il lavoro del volontario non servono grandi conoscenze o competenze, mentre ci vuole una grande capacità emozionale, che forse passa attraverso sia l’ascolto che la narrazione. Io sono cresciuto in questo, mi sembra che tutti noi siamo cresciuti. La scommessa fondamentale di questo progetto mi sembra questa: attraverso la crescita di una sensibilità di sguardo diversa, farai meglio il tuo lavoro”.
Osvaldo Roncelli, Aiuto per l’autonomia

 

Nulla è dato per sempre: il patrimonio culturale come processo

Una prospettiva processuale, dinamica, in continua evoluzione di patrimonio sollecita una postura cognitiva, relazionale e operativa sempre pronta ad attribuire significati diversi, a praticare usi rimodellati dal tempo e dal contesto.

Va da sé che nella costruzione di una relazione di senso e di significati tra persone e patrimonio, quest’ultimo non può essere assunto quale insieme di beni statici e sedimentati da conservare e da trasmettere (attraverso un processo di comunicazione spesso ridotto a una traiettoria lineare e a senso unico), bensì come un corpo vivo e cangiante, costantemente ricomposto grazie allo scambio nello spazio delle relazioni che si fanno testimonianza e parola [6]

«Cosa può destare il patrimonio!»
Gigi Daldossi, UILDM – Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare Bergamo

Gigi Daldossi nella chiesa di San Giorgio ad Almenno San Salvatore.
Foto di Silvia Mascheroni

La processualità comporta, ancor di più, richiede l’esercizio costante dell’interpretazione: un’attività che mira a fornire nuovi punti di vista, a far emergere significati e interrelazioni tramite l’impiego di strumenti non convenzionali ed esperienze dirette che coinvolgono la persona. L’interpretazione rivela quello che altrimenti sarebbe difficile a vedere, differenziandosi dalla semplice informazione o comunicazione dei fatti; promuove scambi tra conoscenze esperte e vissuti personali, contribuendo alla co-costruzione di valori e significati condivisi.

Interpretare il territorio e i beni patrimoniali che lo innervano richiede la partecipazione da parte di coloro che lo vivono e lo agiscono, ricomponendone i processi di trasformazione e attualizzando la sua fisionomia culturale, nella relazione mobile e mutevole tra abitanti e spazi.

“È stato un po’ come guardare Bergamo dall’alto, vedere tutta la città, e poi pian piano scoprire le sue storie nascoste, quelle che ognuno di noi nel suo piccolo è riuscito a leggere, a far emergere”
Rodolfo Scala, Associazione Carcere e Territorio

 

Relazioni di prossimità: persone e patrimoni

La prossimità «è la condizione di essere fisicamente vicini nello spazio. Ma è anche un sentimento derivante dalla consapevolezza di condividere qualcosa con qualcuno» (Manzini, 2021). 

Il concetto di prossimità, utilizzato da Ron Boschma nell’ambito della geografia sociale (Boschma, 2004), si articola in diverse dimensioni; quelle che ci interessano in questo contesto sono la prossimità sociale, quella cognitiva e quella relazionale, caratterizzate da legami e condivisioni che facilitano gli scambi comunicativi.

Nella livida stagione dell’epidemia da Covid-19 (in modo particolare durante i periodi di lockdown), sospesi o fortemente penalizzati i transiti turistici, abbandonate da flussi e moltitudini le città-cartolina, si è posta ripetutamente l’attenzione sull’importanza di considerare con una nuova sensibilità e partecipazione il paesaggio culturale italiano, costellato da testimonianze patrimoniali diffuse “minute e minori” che animano la vita dei cittadini, anche per promuoverne l’interpretazione in chiave contemporanea.

Un patrimonio-paesaggio culturale dove materiale e immateriale si intrecciano, che numerosi partecipanti al progetto Lascio in eredità me stesso alla terra hanno abitato per la prima volta, sorprendendosi per la sua rilevanza non solo storico-artistica-monumentale, ma anche per quella assunta nel tempo in quanto componente significativa di una “segnaletica” culturale stratificata.

«Non si cambia convinzione, non si può se prima non si alleggerisce il proprio passo, non si impara a trattenersi e a osservare con occhi nuovi»:
Giuseppe Daminelli, ACLI – Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani Provinciali Bergamo. 

Giuseppe Daminelli e Maria Grazia Panigada nella Chiesa della Resurrezione a Torre de’ Roveri.
Foto di Simona Bodo

Entrando in relazione con basiliche, chiese, affreschi, elementi decorativi, statue contemporanee, i volontari bergamaschi – interpreti delle vicende della storia (anche sociale) del loro territorio – hanno trasformato la loro “attenzione distratta” in un’attenzione consapevole e partecipata, recuperando memorie personali lontane che si fanno prossime:

“Questa sera fra le mura di San Tomè un’idea mi percorre.
Ricordo i momenti scanzonati di quando a 18 anni venivo qui con amici e compagni di scuola e ci sembrava di vivere in un’altra dimensione, dentro e fuori, su e giù lungo le scale dei matronei, liberi fra gli alberi, dove molti erano i richiami legati alle figurazioni scultoree […].
Questo scrigno è stato testimone di molte vicende umane ed è anche legato alla mia vita. Con la forza della sua architettura mi ha accolto e sostenuto, con la luce soffusa nel suo interno e con l’alleggerirsi verso l’alto delle strutture mi ha avvolto in un’atmosfera consolatoria e rassicurante.
Mi ha dato riparo.
Questa è la sensazione che mi sembra di poter esprimere pensando a questo luogo: un punto fermo che ha mantenuto nel tempo, con il suo totale silenzio, un’immagine di raccoglimento, forza e speranza nell’affrontare momenti di sconforto che appartengono alla mia vita”
Brano dalla narrazione di Maria Grazia Colombera, Aiutiamoli Associazione per la salute mentale
 

 

Noi siamo le nostre storie:
la narrazione in chiave autobiografica per un patrimonio culturale attuale e significante

L’incontro con il patrimonio è preceduto da un laboratorio in luogo neutro, dove i partecipanti apprendono i rudimenti delle tecniche narrative. Si impara a prestare attenzione ai particolari del quotidiano, alle cose di tutti i giorni, e a descriverle. Contemporaneamente si cerca di far affiorare immagini dalla propria memoria e di precisarle in modo che gli altri partecipanti le possano immaginare e condividere. Il tempo del laboratorio è prezioso per iniziare a sciogliere le vele e capire quale soffio di vento ci potrà condurre a conoscere chi saranno i nostri compagni di viaggio. In questa prima fase la paura di non essere capaci, di non sapere cosa dire, lascia progressivamente spazio alla curiosità, allo stupore reciproco, al desiderio di andare nel luogo del patrimonio insieme al resto del gruppo. 

La prima visita nel museo, nella chiesa, nello spazio urbano è scandita dalle parole di chi se ne prende cura, lo conosce e custodisce. La narrazione non è un gioco di improvvisazione; al contrario, scaturisce da un intreccio profondo con la storia dell’opera, dell’oggetto che si va ad incontrare.

Ma come avviene la scelta di un dipinto, di un taglio di paesaggio o di un capitello? Come si fa a capire su cosa concentrare la propria attenzione per farne scaturire un racconto? Si parte da un’intuizione, dall’intravedere qualcosa di prezioso per me, che mi appartiene o mi respinge, una traccia con cui sento di avere una connessione. A volte il motivo della scelta non è subito chiaro a chi la compie, ma insieme all’esperto di narrazione si cerca il senso di urgenza che ha innescato il “cortocircuito” con quel particolare dettaglio. 

«Due modi diversi di prendersi cura: abbracciare e aprirsi»
Marina Birolini, ANTEAS – Associazione Nazionale Tutte le Età Attive per la Solidarietà Bergamo

Maria Grazia Panigada con Marina Birolini e Maria Francesca Pasinelli al lavoro nella seconda sagrestia della Basilica di San Martino ad Alzano Lombardo.
Foto di Simona Bodo.

Questo accade nel tempo lungo in cui ciascuno guarda, osserva ogni minima parte dell’opera, condivide questo suo osservare, e dagli altri partecipanti accoglie riflessioni e rimandi. Nel gruppo si compie un’esperienza che valorizza la capacità di ascolto reciproco e di allargamento dello sguardo. Il gruppo diventa cassa di risonanza.

Segue la fase di stesura della narrazione, che richiede un tempo personale, in cui lasciar depositare tutto ciò che è emerso per riordinarlo e dare vita a una trama unica, che valorizza ogni singolo filo.
È affascinante quando ci si ritrova con il gruppo e ciascuno legge agli altri: si tratta di un momento molto intimo, dove l’attesa è grande perché i compagni sanno da dove quel racconto ha preso vita e ne comprendono l’importanza: l’ascolto avvolge chi legge, mentre gli occhi di ciascuno si rivolgono al particolare scelto come se lo vedessero per la prima volta.

 

Lascio in eredità me stesso alla terra: un doppio circolo ermeneutico

«Una volta trovate le prime suggestioni è stato un po’ come srotolare una pergamena dove tutto si è compiuto, lasciando affiorare le storie»
Elisabetta Romagialli, ABIO Associazione per il Bambino in Ospedale Bergamo

L’incontro con la rotonda di San Tomè ad Almenno San Bartolomeo. Foto di Maria Grazia Panigada

“Lasciare in eredità qualcosa alla terra significa che quel qualcosa darà frutto”
Marzia Gotti, La Melarancia

Questa testimonianza, che rimanda ai temi della terra, della semina e della raccolta, è solo una tra le tante rese dai volontari che hanno partecipato al progetto, ma quella che più esplicitamente si ricollega al titolo scelto dal CSV per un percorso rivelatosi fecondo di relazioni e di senso.
Ugualmente evocativa del viaggio compiuto insieme è l’immagine al centro di una delle narrazioni raccolte nella pubblicazione finale: la virtù della Sincerità, magistralmente intagliata nella seconda sagrestia della Basilica di San Martino ad Alzano Lombardo, spalanca il petto tirando i lembi della pelle, come per allargare il cuore.
Questo è quanto ogni volontario ha fatto mettendosi in dialogo con il patrimonio culturale della propria terra, individualmente e in gruppo. 

“Saper osservare il patrimonio è saper osservare la vita”
Domenico Tripodi, ANFFAS – Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale Bergamo

“Quando ero giovane ho visitato il Museo Chagall a Nizza e ne sono uscita in lacrime. Se avessi pensato di scrivere subito il perché di quella reazione sarebbe stato un arricchimento. Questa esperienza l’ho fatta adesso. Mi ha portata a osservare con maggiore attenzione, con maggiore passione, possibilmente senza degli schermi, dei filtri particolari. Darsi il tempo per togliere quello schermo che c’è di mezzo, e lasciare che entri qualcosa che ti cambia dentro. La narrazione come restituzione di quello che non è espresso: è così che ho vissuto questa esperienza”
Mariangela Fusco, GAS – Gruppo di Acquisto Solidale Torre-Ranica

“La capacità di farci sorprendere dal patrimonio la vedo simile alla capacità di farci sorprendere dalle persone che incontriamo. L’attenzione ai dettagli nel lavoro di volontariato è quella che ci viene richiesta anche da questo lavoro [di narrazione]. Un buon lavoro di volontariato si fa lasciando al centro la persona, lasciando che sia lei a tracciare la via: quello che possiamo fare noi è accompagnarla, provare a gettare dei semi, ma è la persona che ti sorprende, è la persona che comunica. È un po’ come sta succedendo con gli affreschi di Lorenzo Lotto: dobbiamo imparare a lasciarli parlare, provando a mettere da parte stereotipi, luoghi comuni, pregiudizi. La stessa cosa la vedo nella relazione con le persone”
Marzia Gotti, La Melarancia

Ed è commovente, questo essersi affidati ad artisti e maestranze del passato, uomini e donne che hanno dipinto affreschi, edificato chiese, creato parchi e giardini; sono stati loro, le loro opere, ad aver innescato l’intreccio tra le storie personali dei volontari, la riflessione identitaria sulle associazioni, l’umanità fragile a cui si fa servizio. 

Al tempo stesso, come ha rilevato l’antropologo Pietro Clemente nelle sue preziose riflessioni dedicate alla pubblicazione finale, «i luoghi sono stati arricchiti dalle narrazioni, resi quasi “nuovi”, trasformati dalle parole che li connettono al mondo del volontariato»: così, nel cagnolino che accompagna Santa Barbara negli affreschi di Lorenzo Lotto si ritrova il volontario capace di scegliere la postura giusta in ogni situazione, offrendo una presenza costante ma discreta accanto alle donne vittime della tratta; la balaustra di una delle cappelle della Chiesa della Conversione di San Paolo d’Argon, una “semplice” soglia posta a sottolineare l’ingresso nello spazio sacro, rimanda al lavoro nell’ombra di chi promuove la donazione di organi, tessuti e cellule; i rami spogli del ciliegio nei Giardini Moroni, che nel giro di breve tempo torneranno a rivestirsi di fiori e di frutti, lanciano al volontario un messaggio di resilienza in tempo di pandemia; il capitello con i rami intrecciati della rotonda di San Tomè rimanda alla vita intricata, sempre di corsa, di una volontaria che finalmente si siede e immagina di dipanare quei rami tra le mani, fino a comporre la forma di un cerchio che la avvolge.

«È un doppio circolo ermeneutico, grazie al quale si arricchisce l’opera mentre noi ci arricchiamo attraverso l’opera. Mi ha fatto pensare all’opera di Maria Lai, “Legarsi alla montagna”: come i chilometri di filo che legavano le case tra loro e con la montagna, così in questo progetto la metafora diventa quella di legarsi al territorio attraverso l’arte, e anche legarsi tra sé nel legarsi al territorio. Sono delle figure di cerchio, che mi hanno riportato alla mente i racconti su Cuba di un amico scomparso, Saverio Tutino, proprio come metafora del darsi forza: quando arrivavano i tornados, le persone si buttavano per terra e si stringevano la mano finché non passava la tempesta. Ecco, l’impressione che ho avuto dalle narrazioni è che l’esperienza vissuta dai volontari in questo progetto sia simile a quella dei cicloneros, coloro che si mettono insieme per superare il tornado» [7].

Note 

[1] Il titolo del progetto e di questo contributo trae ispirazione da un verso di Walt Whitman (I bequeath myself to the dirt / to grow from the grass I love) per sottolineare dimensioni fondamentali del volontariato come il dono di sé, il fare memoria per sostenere il passaggio generazionale, il senso di appartenenza al territorio. Il lavoro con i gruppi di volontari ha avuto inizio a settembre 2020 e si è concluso nel marzo 2021, confluendo in una pubblicazione disponibile anche in versione sfogliabile a questo LINK

[2] Patrimonio di Storie è un gruppo di lavoro interdisciplinare composto da chi scrive. Dal 2011 ideiamo e realizziamo percorsi di mediazione del patrimonio in chiave narrativa, in collaborazione con musei  e altre realtà culturali e sociali. Per conoscere più a fondo il nostro metodo di lavoro e i nostri progetti: www.patrimoniodistorie.it

[3] Meglio nota come “Convenzione di Faro”, la Convenzione quadro sul valore del patrimonio culturale per la società è stata adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e aperta alla firma degli Stati membri a Faro (Portogallo) nell’ottobre 2005.

[4] Per una disamina articolata di “comunità patrimoniali”, cfr. “AM Antropologia Museale”, 2015-2016.

[5] A riprova di quanto l’attribuzione di senso sia indicatore di consistenti, articolati e spesso aggrovigliati dibattiti, si consideri la tardiva ratifica del Parlamento Italiano (settembre 2020) della Convenzione di Faro, motivata dal timore di una “manomissione” dell’italico patrimonio da parte di “comunità straniere”. È significativo come e quanto lo stesso termine, se rovesciato al negativo, assuma una potente carica di esclusione: “extra-comunitario” è ricorrente nel lessico politico e mediatico, non tanto in relazione alla matrice originaria di “non appartenente alla communitas”, ma quale implicito portatore di pericolo, che può, in quanto estraneo, insidiare un sistema di valori e di beni.

[6] Su come la Convenzione di Faro modifichi radicalmente l’idea stessa del rapporto tra l’uomo e l’eredità culturale, trasformandolo in un processo dinamico, si rimanda, tra gli altri, a Ventura, 2020.

[7] Le due citazioni di Pietro Clemente sono tratte dal suo intervento in occasione della presentazione del libro Lascio in eredità me stesso alla terra, tenutasi in diretta streaming il 4 maggio 2021. La videoregistrazione è disponibile a questo link

Riferimenti bibliografici

AM Antropologia Museale. Rivista della Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici, n° #37/39, anno 13, 2015-2016.

Bodo S., Mascheroni S., Panigada M. G. (a cura di), Un patrimonio di storie. La narrazione nei musei, una risorsa per la cittadinanza culturale, Mimesis Edizioni, Milano 2016.

Bodo S., Mascheroni S., Panigada M. G. (a cura di), Lascio in eredità me stesso alla terra, Masso delle Fate Edizioni, Signa (Firenze) 2021.

Boschma R., Proximité et innovation, in «Economie Rurale», n° 280 (1), 2004.

Consiglio d’Europa, Convenzione quadro sul valore del patrimonio culturale per la società, Faro 2005.

Fabre D., Arnaud A., Émotions patrimoniales, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, Parigi 2013.

Manzini E., Abitare la prossimità. Idee per la città dei 15 minuti. Con un contributo di Ivana Pais, Egea, Milano 2021.

Ventura L., Le parole chiave della Convenzione di Faro e il ruolo dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale, in «Dialoghi Mediterranei», Periodico bimestrale dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, novembre 2020 LINK (consultato il 17 agosto 2021).

Simona Bodo, Silvia Mascheroni e Maria Grazia Panigada sono cofondatrici del gruppo di lavoro Patrimonio di Storie

Simona Bodo è ricercatrice e consulente in tematiche legate al ruolo sociale dei musei, all’educazione al patrimonio in chiave interculturale e alla promozione della partecipazione culturale di tutti i cittadini. Su questi temi cura studi, seminari, pubblicazioni, percorsi formativi e di progettazione per istituzioni pubbliche e private. Insieme a Silvia Mascheroni è responsabile del programma Patrimonio e Intercultura e dell’omonimo sito.

Silvia Mascheroni, storica dell’arte contemporanea, formatrice e progettista, è docente presso il Master Servizi educativi del patrimonio artistico, dei musei di storia e di arti visive (Università Cattolica di Milano) e la Scuola di Specializzazione in Beni Storico-artistici (Università di Pisa). Coordina il Gruppo di lavoro Educazione al patrimonio culturale. Musei-scuole-territorio e professionalità ICOM Italia.

Maria Grazia Panigada, studiosa dei rapporti fra teatro ed educazione, da vent’anni conduce laboratori di narrazione. Negli ultimi anni ha sperimentato l’applicazione di questa competenza in rapporto al patrimonio artistico, collaborando con musei quali la GAMeC di Bergamo, la Pinacoteca di Brera, le Gallerie degli Uffizi. Dal 2015 è Direttore Artistico delle Stagioni di Prosa del Teatro Donizetti e del Teatro Sociale di Bergamo.