i non-detti del museo
Omosessualità: il confino in mostra
di Cristoforo Magistro

Il silenzio uccide
Fino a qualche tempo fa pochi temi sono stati oggetto nel nostro paese di rimozioni e nascondimenti come l’omosessualità. Ciò fa sì che per le mostre come per i musei ci si debba interrogare sui perché dei loro non-detti. Continuando ad applicare alle mostre le domande poste nel n.30 di Roots&Routes I non-detti del museo diremo che le mostre non hanno parlato di omosessualità perché non sapevano farlo, non volevano farlo, non avevano gli strumenti per farlo, non sapevano a chi farne parlare, non avevano avuto il tempo di farlo, ne parlavano altrimenti, ne parlavano solo agli specialisti, ne parlavano così sottovoce da non farsi sentire da nessuno.
Se ognuna di queste risposte attinge a una parte di verità è, però, l’ultima a centrare il bersaglio. Le mostre non hanno parlato di omosessualità perché fino a un passato recente il silenzio era meglio delle parole. Non è stato, del resto, il silenzio la regola aurea per decenni imposta alle persone omosessuali in cambio di una certa “tolleranza”? Cioè quel “non dire, non chiedere” che – in linea teorica – intendeva premunirsi dai conflitti mentre in realtà, promettendo di proteggere – per così dire – la questione dagli urti della storia, ha perpetuato il rifiuto di ogni diversità di orientamento sessuale?
In realtà il silenzio non proteggeva. La coltre di ipocrisia con cui si voleva nascondere la loro identità non bastava a difendere le persone omosessuali da discriminazioni, insulti e aggressioni. Anche in quei casi, il più delle volte, si faceva silenzio     ma quando le violenze si spingevano fino alla morte non era più possibile nasconderle. Si comprese allora che il silenzio era mortifero e quando, nel 1979, a Livorno fu assassinata una coppia gay, per la prima volta nel nostro paese l’episodio fu commemorato con un corteo pubblico. Qualche anno dopo, nel giugno del 1981, a Palermo, si svolse la prima festa dell’orgoglio omosessuale, la proclamazione a viso aperto della fierezza di essere ciò che si era.
Ai nostri giorni un numero crescente di persone – più, spiace dirlo, di quelle presenti ai cortei del Primo Maggio – omosessuali e non, partecipa ai gay pride che si tengono in tutta Italia. Si tratta di un segnale forte del cambiamento di mentalità avvenuto nel nostro paese nell’ultimo mezzo secolo. Un cambiamento che si è imposto anche alla generazione degli attuali settantenni nata nella cultura dell’omofobia. E ciò è potuto succedere solo grazie alla fine dell’omertà che ha permesso di conoscere la questione nei suoi termini reali: l’omosessualità non è un vizio né una malattia, ma una variante naturale del comportamento umano. Alla regola del silenzio è infatti gradualmente subentrata quella della visibilità. I pride, si legge su siti come Gay News, celebrano le visibilità, sono il luogo psichico in cui essere visibili, ma quante tempeste e quanto dolore è costata la bandiera arcobaleno che oggi sventola nelle piazze!

Torino Pride 2019

Grosso modo negli stessi anni, l’omosessualità e la sua repressione ha cominciato ad essere tema di studio e dibattito, prima quasi esclusivamente all’interno del mondo LGBT e successivamente in sede storica e pubblicistica più varia. Ne è stato iniziatore nel nostro paese Giovanni Dall’Orto che ha poi raccolto il risultato di anni di studi sul tema nel volume Tutta un’altra storia. L’omosessualità dall’antichità al secondo dopoguerra (Milano 2015), mentre il lavoro più importante in ambito scientifico rimane Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista (Milano 2005) di Lorenzo Benadusi.
A ulteriore riprova della caduta delle barriere che tenevano il fenomeno ai margini della ricerca e del dibattito, va ricordata infine l’apertura presso l’Università di Torino di un corso di Storia dell’omosessualità inaugurato da due anni.
La mostra Adelmo e gli altri. Omosessuali al confino in Lucania da me curata è un frutto dei tempi nuovi ed è stata voluta e promossa dall’Associazione Genitori e amici Delle persone Omosessuali di Torino (Agedo) trovando successivamente spazi esterni al mondo LGBT.
Questa filiazione costituisce di per sé una risposta a molti dei perché elencati nei Non-Detti dei musei, e delle mostre, ma è, si ripete, al punto finale che dà piena risposta: la mostra è nata quando il silenzio sull’omosessualità ha smesso di essere meglio delle parole.
Esposta per la prima volta a CasArcobaleno in occasione della Giornata della Memoria, il 27 gennaio 2015, in collaborazione con Arcigay Torino Ottavio Mai in una spartana versione cartacea di fogli A4, la mostra è stata due anni dopo riportata su pannelli forex da 50×70 cm e presentata all’inaugurazione della Giornata Internazionale contro l’omo-trans-fobia al Polo del 900, presso Palazzo di San Celso di Torino, in collaborazione con la Città di Torino, il Coordinamento Torino Pride, l’Associazione Nazionale ex Deportati nei campi nazisti, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia della provincia di Torino e varie altre associazioni.
Dal 25 ottobre al 25 novembre dello stesso 2015 è stata portata poi a Ragusa in collaborazione con l’Università degli Studi di Catania, l’Associazione Archivio degli Iblei e Cliomedia Officina di Torino. Nella stessa occasione si è tenuto il convegno Storie di omosessualità nell’Italia fascista al quale ha partecipato Lorenzo Benadusi dell’Università La sapienza di Roma, Mario Bolognari, dell’Università degli Studi di Messina, Chiara Ottaviano di Cliomedia Officina e chi scrive. Ispirandosi al caso di un confinato siciliano di cui si parla nella mostra, Massimiliano Tumino e un gruppo di giovani del Centro Servizi Cultura di Ragusa hanno tenuto un reading dal titolo Il paese del silenzio.
Fra gennaio e febbraio del 2016, alcuni studenti delle scuole medie superiori della provincia di Ragusa sono stati coinvolti in un’attività di Alternanza scuola-lavoro sulle tematiche del fascismo, del confino e dell’omosessualità. In particolare, gli studenti del liceo linguistico, coinvolti in un progetto di scambio con colleghi inglesi, hanno tradotto i testi per presentare la mostra ai compagni.

Grazie alla pubblicità così ottenuta, il lavoro è stato poi richiesto e presentato nei mesi e negli anni successivi in altre diciotto città – fra cui Bologna, Bergamo, Parma e Verona – accompagnato da recensioni di giornali come Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano e il Manifesto, oltre che di giornali locali. A queste si è aggiunto il generoso e lusinghiero commento di un autorevole blogger come Stefano Casi in Casi Critici.
Sono in corso accordi per portarla in varie altre città fra cui si spera Matera, il territorio nel quale si svolse la più parte delle vicende raccontate e che finora ha opposto un muro alle varie sollecitazioni consolidando, malgrado la proclamazione a Capitale Europea della Cultura, una tradizione di provincialismo secondo la quale soltanto ciò che viene da fuori ha dignità e valore.
Questa, in sintesi, la storia di come l’iniziativa si è sviluppata, ma mi si permetta anche da accennare alle altre ragioni per cui è stata concepita.
Chi scrive è un insegnante in pensione che, trasferitosi in anni ormai lontani a Torino, ha trovato il modo di non sentirsi troppo lontano dalla sua terra d’origine, la Lucania, interessandosi alla sua storia. In particolare, ai grandi eventi che l’avevano vista antagonista dello stato-nazione: il brigantaggio, la grande emigrazione di fine Ottocento, la refrattarietà al fascismo dei contadini, le lotte per la terra del secondo dopoguerra.
Tutti fenomeni riconducibili all’unica questione della fame di terra dei contadini. Un’attenzione tutta particolare leggendo le carte d’archivio è stata riservata ai gregari dei movimenti, al loro fare massa o agire individualmente, al loro accorrere o ritirarsi dalle lotte.
Studiando il fascismo l’attenzione è stata subito attirata dall’istituzione che più la caratterizzò agli occhi degli italiani, il confino. Come è noto questo fu istituito nel novembre del 1926 come misura preventiva dei delitti contro lo Stato o la società.
Nel 1931 l’Enciclopedia Treccani ne dava la seguente definizione: «A differenza delle sanzioni penali vere e proprie, il confino non richiede una responsabilità giudizialmente accertata per fatti considerati dalla legge come reati, ma soltanto una condotta tale da produrre un pericolo effettivo alla sicurezza pubblica o all’ordine politico, e tale da consigliare l’autorità a togliere il soggetto pericoloso dal luogo della sua residenza e sottoporlo a particolare vigilanza per un periodo di tempo che può variare da uno a cinque anni».
In realtà, grazie a questo capolavoro del regime, dirà Emilio Lussu: «il pericolo di esservi mandati sovrasta su tutti. Esso rende al fascismo molto più che non la stessa pena inflitta. La pena è per pochi, la minaccia è per tutti. La legge specifica parecchie categorie di avversari del Regime che possono essere condannati al confino. È uno svago puramente didascalico. Il fatto è che vi possono essere mandati tutti, perché non solo la legge, ma la stessa interpretazione della legge, è rivoluzionaria» (Benadusi L., 2005, p. 131)
Considerato da Mussolini un modo molto “intelligente” di fare opera repressiva, un modo per togliere dalla circolazione chi potesse essere dannoso alla società come facevano i medici con gli infetti, il confino fu somministrato in modo, si disse, “sapiente”, nel senso che i condannati non dovevano essere troppi né troppo pochi. Qualunque fossero state le intenzioni del regime, alla sua caduta del regime si scoprì che circa 15.000 persone avevano fatto la “villeggiatura” nelle isole e nei più piccoli e isolati paesi del Mezzogiorno per motivi politici mentre il numero dei confinati comuni rimane sconosciuto.
Il confino, si è detto, fu una misura di polizia riservata a chi svolgesse o fosse sospettato di voler svolgere “attività contraria agli ordinamenti nazionali”. Una formulazione così generica, a spettro così ampio e per di più basata sul sospetto in modo da prevenire persino le eventuali intenzioni al mal fare, rendeva tutti potenziali colpevoli. Il provvedimento consisteva nell’obbligo per chi ne era colpito di soggiornare, per un periodo variabile da uno a cinque anni, in una località stabilitta dal Ministero degli Interni per essere sottoposto a una speciale sorveglianza da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. Trattandosi di una misura di polizia e non di una pena, nulla impediva che, scontato un primo periodo, si potesse essere nuovamente confinati. Inizialmente la destinazione poteva essere qualche colonia insulare in provincia di Palermo (Ustica), Messina (Lipari), Trapani (Favignana, Pantelleria), Agrigento (Lampedusa, Linosa), Foggia (Tremiti), nel Nuorese o un piccolo comune in provincia di Matera e Potenza, le isole di terraferma del Mezzogiorno continentale scarsamente abitate e prive di collegamenti sia interni che esterni.
Successivamente il carcere-Italia dovette essere ampliato e divennero zone di confino anche il Salernitano e alcune zone della Calabria e degli Abruzzi.
Avendo come riferimenti costanti l’enunciazione della Treccani e il giudizio di Lussu sul confino, mi sono dato allo studio dei fascicoli dei confinati locali e successivamente – per stabilire dei confronti sulle motivazioni del provvedimento e sulle reazioni agli stessi – di quelli degli inviati in Lucania da altre regioni.

Felice il ladruncolo

La prima grande emozione che si prova nell’aprire questi fascicoli è data dalla foto segnaletica del soggetto che in molti casi – in genere trattati dalle questure delle grandi città – risulta tecnicamente notevole. L’immagine wanted al quale il cinema western e poliziesco ci ha abituati, restituisce fisionomie, pettinature e abbigliamenti di un’Italia di ribelli e marginali di ogni tipo. Nessuna di queste immagini ha scopi estetici, la ragione per cui sono state fatte ha scopi pratici (rendere riconoscibile i soggetti considerati pericolosi), ma anche ideologici: suggerire a chi guarda che il soggetto è effettivamente pericoloso. In questo contesto l’immagine non è più un’icona, ma un indice, una traccia di qualcosa, alla pari dei rapporti di polizia. Una traccia rilevata in un momento particolarmente drammatico della vita di un individuo, come quello dell’arresto, assunta come testimonianza oggettiva e immutabile di ciò che questi sarebbe.
Ciò nonostante, quelle immagini raccontano storie diverse: di miserie e ingiustizie nei volti sfatti di alcolisti e prostitute, di sfida e arroganza in quelle dei mafiosi, di fierezza e consapevolezza nei politici, di incrollabile fede nei seguaci delle chiese protestanti. Le espressioni più variegate si presentano proprio fra i confinati per omosessualità. Niente di straordinario considerando che la galassia omosessuale è più grande di quanto si possa pensare e comprende decorati al valor militare, ex squadristi, legionari, militanti antifascisti, rapinatori, ragazzi di vita induriti dalla vita, semplici operai e figli di famiglia. I più hanno l’aria spaurita di chi sente che la propria esistenza non sarà più quella di prima, ma non manca chi sorride compiaciuto al fotografo, né chi lo guarda con ironia. Nell’insieme formano un campionario ricco di sfumature e, a dispetto di Lombroso e del lombrosiano direttore della scuola di polizia che aveva ideato la scheda biografica dei confinati, tale da confondere chiunque partendo dalle loro fattezze voglia indovinarne l’orientamento sessuale.
Più in generale, le facce dei vari tipi di confinati sembrano ricalcare i personaggi di vecchi film come I compagni di Mino Monicelli del 1963 o del più recente (1976) Novecento di Bernardo Bertolucci. Altre sembrano sfuggite all’obiettivo di Dorothea Lange, la fotografa della grande crisi.
Ma riprendiamo il racconto su come è nata questa mostra. Dopo le prime scoperte di fatti e situazioni che il linguaggio burocratico non sempre riusciva a stemperare – anche perché molti fascicoli conservano suppliche e lettere sequestrate dalla censura – decisi di esplorare l’intero, corposo fondo (novanta pacchi) sul confino conservato presso l’Archivio di Stato di Matera. Ci sono voluti sette-otto mesi – le vacanze estive di cinque anni – per riprenderlo tutto.
Era necessario farlo poiché il tema del confino che pure, grazie al confinato Carlo Levi e al suo Cristo si è fermato a Eboli, aveva messo la Lucania agli onori del mondo facendola diventare un caso studio per sociologi, antropologi, economisti, fotografi e registi, era un continente pressoché inesplorato. Inesplorato e, per la parte nota, poco soddisfacente poiché anche l’unico, e per qualche aspetto meritevole, studio organico Provincia di confino di Leonardo Sacco (Schena Editore, 1995) si occupava solo dei confinati politici d’un qualche rilievo e senza dare indicazioni archivistiche.
Dopo una prima lettura delle carte secondo l’ordine archivistico, ho pensato di dividere i fascicoli sulla base del genere con l’intento di trarne un primo lavoro dedicato alle donne al confino. Ma l’idea vincente è stata quella di ristudiarli secondo i motivi di assegnazione: le abortiste, le antifasciste, le mafiose, le prostitute, le truffatrici, le seguaci di culti acattolici, ecc…
Ho potuto così notare che ciò che se ne ricavava in termini conoscitivi era decisamente superiore alla somma delle vicende individuali. Il risultato di questo primo approccio era stato una mostra fotodocumentaria per la scuola in cui lavoravo – un corso per adulti a bassa scolarità frequentato prevalentemente da stranieri – che aveva suscitato notevole interesse anche nelle esibizioni in altri istituti dello stesso tipo.
Su questa base di esperienza è nata la presentazione intitolata a Adelmo, il più giovane dei quarantadue casi da me documentati, mentre per un’altra quarantina di casi mandati nel potentino le carte sono andate perdute. La ricerca si è dimostrata proficua non solo sul piano numerico poiché va ad integrare la casistica esaminata da Lorenzo Benadusi presso l’Archivio Centrale di Stato di Roma e presentata ne Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista (Feltrinelli, Milano 2005), ma anche sul piano conoscitivo: ad esempio con la scoperta del tentativo (nella primavera del 1942), rimasto alla fase esplorativa, del regime di far “curare” gli omosessuali in grado di affrontare le relative spese e con l’abolizione del confino a loro carico decretato nel giugno del 1943 con la motivazione che il prolungato soggiorno in località tradizionalmente sane potesse diffondere il contagio fra quelle popolazioni.
I termini confino e mostra non richiedono ulteriori spiegazioni. Una mostra sul confino è, quindi, di per sé, un’operazione di ideale annullamento e vanificazione di ciò che il confino si era proposto di fare: la riduzione al silenzio dell’opposizione politica e dell’antagonismo sociale. Ora, sia pure congelati nelle classiche pose frontali e di profilo della fotografia criminale, di quelle persone è stata restituita la memoria e, per quanto possibile, la parola. Sarebbe bene che lo si facesse per tutti: dagli alcolizzati agli zingari, dagli anarchici, ai dissidenti fascisti, fino a chi, privo di altri strumenti, si era rifugiato nel millenarismo.
La mostra Adelmo e gli altri ha fatto questa operazione per le persone omosessuali, una speciale categoria di confinati. Speciale poiché la loro stessa colpa era innominabile tanto da farvi riferimento con espressioni come “il turpe vizio”, “l’immonda perversione” e simili. È speciale soprattutto perché questi, portatori di un qualcosa che stava fra il vizio e la malattia e che, ufficialmente, nell’Italia fascista, era poco diffuso e perciò non erano compresi fra gli autori dei reati previsti dal codice Rocco del 1930.
La presunta irrilevanza del fenomeno non si tradusse tuttavia nell’impunità per quanti vi erano soggetti. Tutt’altro! Nell’Italia fascista che considerava i celibi “mezzi uomini” e li sanzionava con una speciale tassazione escludendoli nello stesso tempo da alcune cariche politiche e amministrative, in quell’Italia che premiava i matrimoni precoci, le spose bambine e le famiglie numerose in nome della crescita demografica con lo slogan “Il numero è potenza”, era impensabile che gli omosessuali potessero farla franca.
Alfredo Rocco, preparando il codice che da lui avrà nome, aveva previsto la punizione dell’omosessualità quando dava pubblico scandalo, o fosse esercitata a scopo di lucro oppure consumata a danno di minori. Sarà indotto a cambiare idea per i motivi su detti e il fenomeno rientrerà fra i reati punibili per attentato contro la sanità della stirpe e della razza o, più genericamente, contro gli ordinamenti dello Stato.
Oggettivamente, considerando parte offesa non più la persona, ma entità come la razza, si avrà un notevole peggioramento dell’ipotesi di reato rispetto a quella iniziale.
Questo fu quanto si ritenne opportuno fare a livello ufficiale. In realtà, fuori dall’ufficialità, molti di quegli stessi uomini che avevano deciso di perseguitare l’omosessualità senza nominarla, la consideravano una mostruosa, contagiosa e incurabile aberrazione. Per questo, secondo il prefetto di Potenza, Ottavio Dinale, il confino invece di circoscrivere il male lo avrebbe diffuso anche negli ambienti rurali che, a dire della retorica di quegli anni, erano del tutto sani. Secondo lui ogni omosessuale «è per fatalità fisiologica, è – non diventa – un pericolosissimo centro di infezione». Anche al confino «il sanguinario, all’occasione ferisce e uccide, il ladro tende lo spirito e la mano verso la roba altrui verso una nuova preda che sfoghi il suo insopprimibile bestialismo» (Magistro, 2019, pp. 54-55). Contro questi untori per fascinazione, concludeva, l’unico rimedio era la segregazione in carcere o in una colonia penale.

Giuseppe lo studente

Questo scriveva l’ex socialista e giornalista Dinale nel 1929. Ma, fatta eccezione per le prostitute (che costrette dalla fame e piuttosto richieste in paesi senza case di tolleranza continuarono a esercitare il mestiere sollevando scandali e proteste), nessuna delle altre sue fosche previsioni si avvererà. Meno che mai quella sugli omosessuali, alcuni dei quali – per lo più ragazzi di vita – avvieranno nei paesi di confino relazioni rigorosamente eterosessuali che in tre casi, si concluderanno con il matrimonio. Si trattò forse solo di cerimonie a scopo riabilitante, ma non è detto. Poteva, ad ogni modo, esserci smentita più clamorosa alle ossessioni del prefetto? Ancora una volta la realtà si presentava più complessa e sfumata di quanto gli uomini di potere potessero immaginare. Ma fu soprattutto la gente comune, libera dai pregiudizi del perbenismo e dalla pseudo scienza che nella diversità vedeva la malattia, a dimostrare di essere più capace dei suoi governanti ad accogliere e comprendere i confinati.
Fu questo atteggiamento che spinse il federale di Potenza a invitare la popolazione, e gli stessi fascisti, a mantenere verso i confinati “un’austera compostezza bandendo i vuoti umanitarismi e l’inutile pietà (Magistro C, 2019, p. 21). Il richiamo servì a poco e numerose furono per tutto il ventennio le diffide a non trasformare in “villeggiatura” il loro soggiorno. Certo non tutti furono amati e riveriti come il confinato Carlo Levi che, affascinato dalla gente di Aliano, mise a loro disposizione la sua preziosa arte medica. Ma, come lo stesso Levi racconta nel romanzo-saggio Cristo si è fermato a Eboli, l’atteggiamento della popolazione verso tutti i confinati fu di comprensione e solidarietà.
A suggerire atteggiamenti del genere non era una speciale e astratta bontà, ma la storia. La loro.
Nella regione era infatti ancora viva la memoria della deportazione per complicità nel brigantaggio che aveva colpito alla cieca migliaia di persone. Era viva nel ricordo dei loro figli e nipoti. Moltissimi inoltre erano stati emigrati e tutti avevano un parente in qualche America. Ai più non interessava la causa che aveva portato quei cristiani nei loro paesi. Per loro erano tutti degli esiliati, persone costrette da un destino avverso a lasciare la casa e gli affetti. Quindi dei loro simili. Non fosse altro che per questo, bisognerebbe dire che Adelmo e gli altri non è solo una mostra sui confinati, ma anche sui luoghi e sulla gente che li accolse con amicizia e solidarietà.
Concepita come evento di public history, le note che accompagnano la foto dei soggetti biografati hanno cercato di darne conto nel modo più semplice e chiaro possibile. Si è ritenuto tuttavia opportuno arricchirle con passaggi tratti dai rapporti di polizia per illustrare la crudezza e il disprezzo con cui erano trattati.
Nonostante siano trascorsi circa ottanta anni dalla caduta del fascismo e dall’abolizione del confino, alcune presentazioni hanno sollecitato ricordi fra chi aveva conosciuto quei confinati. La nipote di uno di loro, dopo una prima reazione con la quale, addolorata e offesa, invocava il diritto all’oblio, ha fornito al curatore materiali e indicazioni per meglio ricostruire la sua vicenda. Un analogo contributo è venuto da un profondo conoscitore della storia di un paese che ospitò confinati omosessuali. Piccoli, ma significativi, esempi di quanto potrebbe venir fuori se si riuscisse veramente a fare “storia in pubblico”, vale a dire con la mente di cerca e interpreta le carte che parlano di certi fatti e con il cuore delle comunità che ne furono protagoniste.
Il mio sogno è portare la mostra in tutte le città dalle quali costoro arrivarono e in tutti i paesi che li ospitarono. Temo però che, soprattutto la seconda parte, resterà un sogno destinato a restare tale. Come quello di inserirla fra gli eventi in corso di svolgimento per Matera Capitale della cultura 2019.
Sia per questo che per la fatica e l’impegno necessari a farla circolare, i contenuti della mostra, ampliati e rivisti, sono stati riversati nel libro che conserva lo stesso titolo della mostra, Adelmo e gli altri. Confinati omosessuali in Lucania.

Bibliografia
Benadusi L., Il nemico dell’uomo nuovo, Feltrinelli, Milano 2005.
Magistro C., Adelmo e gli altri. Confinati omosessuali al confino in Lucania, Edizioni Ombrecorte, Verona 2019.

Cristoforo Magistro ha insegnato materie letterarie nei corsi di scuola media per adulti di Torino. La sua attività di ricerca ha riguardato prevalentemente la Lucania, sua regione d’origine. Si è interessato in particolare allo studio del brigantaggio, della grande emigrazione di fine Ottocento, del fascismo e delle lotte per la terra del secondo dopoguerra in quella regione. Alcuni suoi studi sono stati pubblicati sul “Bollettino della Deputazione di Storia Patria della Basilicata”, nella raccolta collettanea dedicata a “Potenza Città Capoluogo (1806-2006)”, sulle riviste “Basilicata Regione” e “Mondo Basilicata” e sul blog Montescaglioso.net. Attualmente ha in corso una ricerca sui processi per omicidi compiuti da donne nel Materano nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento.