PERFORMING HISTORY
L'irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo
di Valentina Pisanty

Molto è stato scritto sul cosiddetto paradigma vittimario che pervade l’immaginario contemporaneo, sulla condizione simbolica di vittima che genera identità, carisma, diritti, e autorità morale, e sulla tendenza diffusa a esibire a mo’ di titolo onorifico l’elenco dei soprusi subiti dal proprio gruppo di appartenenza in un passato più o meno recente. La memoria traumatica diventa un retaggio da tramandare come insegnamento e monito alle generazioni successive (così perlomeno si dice nelle occasioni più solenni), ma anche un patrimonio da gestire oculatamente, poiché è da esso che la comunità ricava non solo il proprio senso di identità e di coesione interna, ma anche il proprio mezzo di riconoscimento politico. Se è vero, come sostiene Daniele Giglioli (2014), che «la vittima è l’eroe del nostro tempo», e se il prestigio che emana da questa condizione simbolica può tradursi in rivendicazione di privilegi e di franchigie, si intuisce l’origine della crescente acredine riversata su coloro che vengono percepiti (e che talvolta si rappresentano) come gli eredi di Auschwitz, specie da quando la storia dello sterminio è stata inglobata nella narrazione fondativa dello stato ebraico.1

L’antipatia per Israele e per la legittimazione che la sua leadership politica trae dalla memoria della Shoah non è certo prerogativa dei soli negazionisti. Le critiche più affilate vengono anzi dall’interno, sollecitate dai lavori degli storici cosiddetti post-sionisti che da un paio di decenni si adoperano per smitizzare i racconti fondativi della nazione, senza per questo alimentare il benché minimo dubbio sulla realtà dello sterminio. Ma è a tale insofferenza (spogliata dei suoi argomenti storici) che alcuni fiancheggiatori del negazionismo europeo attingono per allargare il bacino di utenza di un fenomeno che prima degli anni ottanta interpellava esclusivamente il pubblico degli antisemiti dichiarati. Si legga il seguente brano di Serge Thion – il militante anti-colonialista che nel 1980 curò per la Vieille Taupe il dossier Vérité historique ou vérité politique –, e lo si confronti con la citazione di Pierre Papazian riportata sopra, per capire come da considerazioni analoghe (la denuncia della tendenza ebraica a sacralizzare la memoria) si possa scivolare verso l’avallo ideologico del discorso negazionista, presentato da Thion come una coraggiosa sfida ai tabù storiografici e all’intollerabile diktat dell’establishment accademico: «Nessuno negherà che esiste una specie di esitazione, o persino di censura, nei riguardi di qualsiasi discorso sugli ebrei o su degli ebrei, o sul sionismo, o su Israele, se la parola pronunciata non è stata prima di tutto, in un modo o nell’altro, autorizzata. Per ascoltarla, occorre sapere, come si dice, da dove arriva. Senza una sanzione appropriata, senza un visto di legittimazione, ogni discorso su questo tema è votato alla forca, consegnato al sospetto». In quest’ottica, l’iconoclastia delle tesi negazioniste è di per sé un buon motivo per prestare ascolto a Faurisson (per chiedersi  «se esiste la minima ragione per porre il problema delle camere a gas in termini di fatti storici»), indipendentemente dalla validità delle sue argomentazioni, su cui Thion preferisce non pronunciarsi. Sarà la Storia – e non gli storici – a giudicare chi ha ragione.

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Scavalcare i luoghi istituzionali della ricerca storica per raggiungere il pubblico dei non specialisti è l’ambizione di chi, come Serge Thion e i redattori della Vieille Taupe, ritiene che il mondo accademico sia troppo compromesso con la cultura egemone filosionista per aprirsi al dibattito sul «problema delle camere a gas». Di qui, il ricorso ai circuiti alternativi dell’editoria in proprio: del samizdat, come Thion ama definire il suo pamphlet, evidentemente identificandosi con i dissidenti anti-stalinisti. In effetti il calco terminologico è azzardato – ennesimo caso di banalizzazione – se non altro alla luce dell’ovvia considerazione che il samizdat sovietico non poteva che restare relegato alla clandestinità (a rischio e pericolo di chi lo diffondeva), mentre la Vieille Taupe impiegava il dossier Faurisson a mo’ di ariete per sfondare la porta dei grandi media, senza peraltro ricevere eccessivo nocumento dalla visibilità così conquistata.

L’attenzione che la stampa europea dedicò al caso Faurisson preluse a una tendenza destinata a imporsi nell’arco degli anni ottanta, quando i giornali e le televisioni spalancarono i battenti alle discussioni storiche che sino ad allora non avevano mai ricevuto una così ampia copertura mediatica. Furono gli anni in cui le tesi dei diversi autori cosiddetti revisionisti – Renzo De Felice in Italia, François Furet in Francia, Ernst Nolte e Andreas Hillgruber in Germania – vennero lanciate nello spazio pubblico sotto forma di sfide culturali, di spallate critiche con cui scuotere gli assunti polverosi della storiografia detta ufficiale e, soprattutto, di occasioni per  normalizzare i rapporti con un passato da taluni percepito come troppo opprimente, troppo ostico e troppo colpevolizzante per essere assorbito nella continuità delle rispettive narrazioni nazionali: un passato «che pende sul presente come una mannaia», scrisse Ernst Nolte nell’articolo che inaugurò lo Historikerstreit.2 Attraverso una sequenza di domande negative, tipiche del suo stile indiretto e allusivo,3 Nolte suggerì l’esistenza di un nesso causale tra i crimini bolscevichi e i crimini nazisti: «Non compì Hitler, non compirono i nazionalsocialisti un’azione “asiatica” forse perché consideravano se stessi e i propri simili vittime potenziali o effettive di un’altra azione “asiatica”? L’“Arcipelago Gulag” non precedette Auschwitz? Non fu lo “sterminio di classe” dei bolscevichi il prius logico e fattuale dello “sterminio di razza” dei nazionalsocialisti?». La polemica che ne scaturì produsse «più calore che luce» (Browning 1992), più memoria che storia, e dunque più interpretazioni che ricostruzioni fattuali, in un aspro conflitto ermeneutico che aveva come oggetto il «giusto atteggiamento dei tedeschi di oggi verso l’orrore del nazismo» (Rusconi 1987: IX). Jürgen Habermas accusò Nolte e i revisionisti di relativizzare i crimini nazisti in funzione apologetica, di farsi guidare «dal desiderio di sbarazzarsi delle ipoteche di un passato felicemente de-moralizzato»,4 e di assecondare un clima neoconservatore impaziente di chiudere i conti con la storia, sia pure a costo di qualche compiacente equiparazione. Del resto era ancora fresco il ricordo della controversia di Bitburg scoppiata nell’aprile 1985 quando, in una conferenza stampa in cui annunciava di avere accettato l’invito di Helmut Kohl a visitare il cimitero militare di Kolmeshöhe per commemorare il quarantesimo anniversario della fine della guerra, il presidente Reagan aveva definito i soldati tedeschi «vittime esattamente come [just as surely as] le vittime dei campi di concentramento». I tempi erano propizi per voltare pagina, lasciandosi alle spalle il secolo cupo dei totalitarismi.

Nel fitto delle polemiche, vi fu chi paragonò Nolte a Faurisson. Un accostamento indebito, secondo gli estimatori del filosofo tedesco.5 Nolte non contestava i fatti – i campi di sterminio e il genocidio – e, anzi, specificava che le parentele tra i crimini bolscevichi e i crimini nazionalsocialisti si potevano tracciare «con la sola eccezione della tecnica delle camere a gas», di cui non esistevano corrispettivi sovietici. Una chiara demarcazione tra Vernichtungslager e gulag la quale tuttavia si offuscò in alcuni scritti degli anni novanta – in particolare in Streitpunkte 1993 (tr. it. Controversie 1999), che dedicava un capitolo interlocutorio alla «prospettiva del revisionismo radicale», cioè del negazionismo – in cui Nolte pareva meno convinto dei fatti che sino ad allora aveva posto come evidenze incontrovertibili: «nelle discussioni [sull’esistenza delle camere a gas] fra gli esperti tecnici non è però stata detta l’ultima parola» (Nolte 1999: 64-65). Se sino al 1993 il negazionismo di Faurisson e il revisionismo di Nolte erano due opzioni retoriche distinte, in Streitpunkte le strategie del diniego e della banalizzazione radicale entrarono in cortocircuito. Nolte non giunse mai ad abbracciare in modo esplicito la tesi negazionista, che anzi sembrava rifiutare nel primo capitolo del suo libro: «Non è possibile un dubbio ragionevole sull’effettività delle misure di sterminio nei confronti del giudaismo tedesco ed europeo» (Nolte 1999: 41). Non fosse che, poche pagine oltre, riapriva la possibilità del dubbio, legittimando autori come Stäglich, Roques, Leuchter e Mattogno, di cui elogiava l’impostazione scientifica, la buona fede e la solidità delle argomentazioni, invitando i lettori a prenderle sul serio se non altro in nome del principio della libertà di espressione. Simili ambivalenze suggeriscono che tra Nolte e i negazionisti tecnici si fosse di fatto stabilito un tacito gioco delle parti, non necessariamente consapevole, dove Nolte si limitava ad accreditare i negazionisti e a gettare il seme del dubbio sulla realtà dello sterminio, senza tuttavia spingersi sino alla negazione delle camere a gas (la «sola eccezione» dei crimini nazisti rispetto a quelli sovietici), mentre i negazionisti si accollavano il lavoro sporco del diniego tout court il quale, se fosse riuscito nel suo intento, avrebbe rimosso dall’Enciclopedia il principale ostacolo alla completa equiparazione tra crimini nazionalsocialisti e crimini sovietici.

Sorprende che le aperture di Nolte nei confronti del negazionismo non siano state rimarcate da coloro che pochi anni prima ne avevano difeso la reputazione scientifica, e che negli anni novanta (quando in Germania l’astro di Nolte era già tramontato) continuarono a presentarlo al pubblico italiano come un grande, seppure controverso, storico revisionista, interessato a «separare in Hitler l’antibolscevismo dall’antisemitismo»6 in modo che la condanna del secondo non si rifrangesse necessariamente sul primo. Ma in effetti il riconoscimento di una convergenza di interessi tra le due varietà di «revisionismo radicale» avrebbe ingarbugliato il sistema di valori che in quel periodo andava definendosi presso l’opinione moderata. Se la spinta a rimettere in discussione la retorica cristallizzata dell’antifascismo, con le sue perentorie contrapposizioni tra una destra essenzialmente totalitaria e una sinistra resistente, era accolta con favore da coloro che auspicavano per l’Europa un futuro post-ideologico, dovevano essere chiari i limiti oltre i quali la revisione non poteva spingersi. La condanna dell’antisemitismo nazifascista era e non poteva che essere inappellabile, il valore ultimo e unanimemente condiviso sui cui fondare qualsiasi identità politica, pena l’esclusione dal consesso civile. E che i negazionisti si ispirassero ai principi di quell’ideologia indifendibile era oramai palese, a dispetto della patina di rispettabilità scientifica che alcuni di essi tentavano di conferire ai propri discorsi. Come colonne d’Ercole del revisionismo storico i negazionisti si trovarono così a segnare i confini del discorso tollerabile: sin qui e non oltre.

In tutti i sistemi culturali i confini sono marcati da intense attività simboliche, specie quando separano lo spazio interno del “noi” da quello esterno che, se strabordasse, ne metterebbe a repentaglio l’ordine (cfr. Lotman 1985). Si potrebbe leggere in questa chiave la crescente visibilità che il negazionismo acquistò proprio negli anni in cui i media lo riconobbero come un fenomeno culturalmente deviante e storiograficamente inconsistente e tuttavia, anziché disinteressarsene o parlarne con distacco clinico, lo elessero a tema di ricorrenti cronache e di riflessioni allarmate, quasi che dal confronto con esso dipendesse la definizione dei valori irrinunciabili della cultura europea. Una spiegazione più prosaica, ma non incompatibile, è legata all’intrinseca notiziabilità del negazionismo, le cui tesi aberranti si prestavano a essere tradotte in facili scoop. Fatto sta che i negazionisti in cerca di notorietà impararono a sfruttare a proprio vantaggio il circuito dei media, facendo leva proprio sulle reazioni di ripulsa che i loro discorsi generavano. La sequenza provocazione/scandalo mediatico/dibattito sui limiti della libertà di espressione si ripeté più e più volte, generando un profluvio di discorsi in cui i negazionisti ricoprivano uno di due ruoli complementari e opposti, a seconda della prospettiva da cui li si giudicava. Dal banco dell’accusa, la parte dei reietti esposti alla pubblica riprovazione, spauracchi della società civile, scorie radioattive del male assoluto. Da quello della difesa, il ruolo di anarchici anti-establishment, eretici oppressi dall’ortodossia storiografica, martiri di un sistema liberticida che, temendoli, li combatteva con tutte le armi del suo potente arsenale. Per quanto avvincente, il copione era fondato su una valutazione iperbolica dell’impresa negazionista, della sua forza comunicativa e del suo effettivo impatto sociale. Entrambe le rappresentazioni conferivano ai negazionisti un’immeritata aura di sinistra grandiosità. Entrambe istituivano una cornice giudiziaria in cui inquadrare il fenomeno, sempre più spesso associato alle cause legali che venivano intentate contro gli «assassini della memoria».

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“L’irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo”, Milano, Bompiani, 2014.

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1 Secondo Idith Zertal (2002) a partire dal processo Eichmann, e sempre di più nei decenni successivi la dirigenza israeliana si è avvalsa della memoria della Shoah, sino al 1961 parzialmente rimossa, come di un potente collante ideologico in grado non solo, e non tanto, di legittimare l’impresa sionista, quanto di rappresentare la storia del popolo ebraico come un ciclo eterno di Catastrofi e di Redenzioni (come da narrazione biblica), di cui la Shoah costituirebbe la manifestazione più virulenta. Vista in questa luce, la più recente storia dello stato di Israele – con particolare riferimento alle guerre arabo-israeliane – può apparire come l’ennesima conflagrazione del conflitto tra gli ebrei e i loro nemici di sempre. L’equazione banalizzante tra arabi e nazisti si è così cristallizzata nel discorso pubblico e nel sentire comune, riproponendosi a ogni nuova crisi o scontro militare (con un picco nel 1982, all’epoca della guerra in Libano), regolarmente presentati dai media mainstream come il ritorno del pericolo hitleriano.
2 Ernst Nolte, “Vergangenheit, die nicht vergehen will” (Un passato che non vuole passare), Frankfurter Allgemeine Zeitung, 6.6.1986. Per un’antologia di testi sulla Historikerstreit si veda Rusconi 1987.
3 Sulle strategie discorsive di Nolte, imperniate sull’uso strategico del discorso indiretto libero che impedisce al lettore di stabilire con certezza se e in quale misura Nolte stesso aderisca alle tesi enunciate, si rinvia a Pisanty 2012.
4 Jürgen Habermas, “Eine Art Schadensabwicklung” (Una sorta di risarcimento danni), Die Zeit, 11.7.1986.
5 Così Paolo Mieli: «I due filoni storici definiti “revisionisti”, quello faurissoniano e quello noltiano, non hanno niente in comune, neanche una limitata contiguità di tematiche. Accomunarli, come è stato fatto più di una volta, è perciò un’operazione scorretta», “Un solo Olocausto o tanti”, La Stampa, 23.7.1987.
6 L’espressione è di Poggio 1997: 133 il quale osserva come, al contrario, l’ideologia di Hitler fosse contrassegnata proprio dalla convergenza di antisemitismo e antibolscevismo.

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Valentina Pisanty, semiologa, insegna presso l’Università di Bergamo. Ha scritto saggi sulla semiotica interpretativa, sulla fiaba, sull’umorismo, sul discorso politico, sulla retorica del razzismo e sulla memoria. Tra le sue pubblicazioni, Leggere la fiaba (Bompiani 1993), Semiotica e interpretazione (con Roberto Pellerey, Bompiani 2004), La difesa della razza: Antologia 1938-1943 (Bompiani 2006), Semiotica (con Alessandro Zijno, McGraw-Hill 2010), Abusi di memoria (Bruno Mondadori, 2012) e L’irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo (Bompiani 1998; edizione rivista e ampliata, 2014). Collabora con le pagine culturali del Manifesto.