§Fascismi
Questi occhi, trama del politico.
Riflessioni sul cinema fascista e antifascista a partire dal volume Cinema is the Strongest Weapon.
Race-Making and Resistance in Fascist Italy
di Arianna Lodeserto

«Anche se si sente qualche dolore, niente paura: è salute! è salute!»
Maddalena… zero in condotta, film di Vittorio De Sica

– Vi piacerebbe essere soldati nella vita reale?
– No.
– No, proprio no.
– Neanche a me.

Fiume o morte!, documentario di Igor Bezinović
«The personal is (bio)political.
When power becomes so prominently interested in how people live,
resistance to power becomes a matter of living differently».
Lorenzo Fabbri, Cinema is the Strongest Weapon

Pubblicato di recente, il denso volume di Lorenzo Fabbri dal titolo Cinema is the Strongest Weapon affronta genealogie, epigoni e deviazioni ribelli nelle pellicole italiane girate durante il ventennio, in prima linea nel grande progetto di «fascistizzazione della società attraverso il cinema» (Taviani, 2014, p. 255). Utilizzando diversi studi di settore, in particolare quelli di chi interpreta il cinema «simultaneamente come linguaggio e come arma, come forma e come forza» (Fabbri, 2023, p. 27) [1], e un buon corpo di riferimenti filosofici che acuiscono i sensi, Fabbri ripercorre trame e poetiche, trasparenze e opacità di quell’educazione al fascismo impressa sul grande schermo (e conservata, restaurata, trasmessa ancora oggi). L’autore non tralascia sceneggiature e sequenze più “leggere”, né cede all’apparenza a volte morbida di quel potere audiovisivo diluito in una vasta opera di propaganda volta alla creazione di un popolo unito e finalmente italianissimo, razzista e qualitativamente coloniale. 

Le più importanti istituzioni italiane del cinema sono state fondate dal Fascismo, non va dimenticato: La Mostra di Venezia, l’Istituto Luce, Cinecittà, il CSC, la Direzione Generale per la Cinematografia. Fornite le fondamenta dell’industria culturale, i suoi prodotti, dal primo all’ultimo, andarono sperimentando, come spesso si scrive, diverse scritture filmiche, non tanto posture mussoliniane o propaganda diretta, ma narrazioni che in modi diversi avrebbero portato alla “riconfigurazione della soggettività italiana”, al soggetto moderno dell’economia capitalista-coloniale. Del resto, un ventennio non è certo un tempo breve per poter sperimentare.

“L’evocazione del corpo politico” cominciò prima dell’avvento del fascismo, ci spiega il volume che qui recensiamo. La rieducazione alla razza civile e servile comincia dagli occhi e dal corpo di chi guarda, dalla fantomatica “spettatorialità”: quel pubblico ordinato che già frequenta il cinema nell’Italia liberale. «Fuori regna la confusione, l’anonimato e l’oscurità, ma nella sala risplende un insieme di forme e volti rispettabili – un’umanità variegata nella sua composizione che condivide pacificamente un luogo e un’esperienza» (Ivi, p. 38). Come scolari ai banchi, predisposti prima dell’arrivo del maestro, non c’è disciplinamento che non abbia inizio dai ranghi ordinati di chi deve restare seduto e accogliere le suggestioni della cinepresa. Quel pubblico ancora da educare, ma con piena fiducia che sia educabile.

Può darsi un’identità senza razzismo? La «creazione degli italiani» (Ivi, p. 34) è impresa razziale se il comportamento umano viene inteso come la manifestazione di una razza. Al cinematografo di Gualtiero Fabbri, romanzetto del 1907, comincia ad investire sulle potenzialità del pubblico moderno, chiarendo che diversi generi possono influenzarne gli animi. Mitizzando ideali di “nordica bianchezza”, la novella cerca di attribuire al pubblico quella “possibilità della razza” che deve per forza appartenere all’arte nuova del cinema: a chi la scrive, a chi vi assiste. Nel cinematografo «la prolungata interazione con la borghesia e l’aristocrazia instilla negli strati sociali meno civili un desiderio di moderazione: una delle virtù dell’ambiente cinematografico è quella di reprimere gesti osceni e volgarità». La sala accoglie tutti gli italiani, perché mentre accoglie riordina, pacifica, unifica, appiana il frastuono della massa disomogenea. «Affabili, mansueti e silenziosi» (Ivi, p. 45): come tutti sanno, al cinema non si parla. «Films put people in their place» (Ivi, p. 39).

Cinema is the strongest weapon affronta anche un altro caso (cine)letterario: la celeberrima (spesso dimenticata) adesione al fascismo di Luigi Pirandello. Non si tratta solo del fatto che lo scrittore e drammaturgo chiese solennemente l’iscrizione al Partito Fascista dopo il delitto Matteotti, per sostenere il Duce in un momento di crisi, ma delle sue stesse sceneggiature e prose, della sua stessa poetica, che spesso, come per l’architettura o per l’arte, si crede possa essere dissociata dalle “questioni di tessere”, imposte o meno [2]

Se la forza vitale deve arginarsi in un costume (una forma, un ordine, un premio, un decreto) è in primo luogo in funzione del lavoro, scopo e senso della vita. Diverse pellicole fasciste, sulla soglia tra gli anni ’20 e ’30, rappresentano la realtà del lavoro ordinario-precario o della città-fabbrica: Sole!, Terra madre, Vecchia guardia, Rotaie, Gli uomini che mascalzoni e infine Acciaio, su soggetto pirandelliano. La mano d’opera del regime, l’acciaieria di Terni e gli interventi statali sul paesaggio umbro, le morti bianche come rieducazione, perché accadono a chi “ha altro per la testa”, a chi non rispetta l’apparato militare-industriale, l’etno-nazione. Non è un caso che il lavoro diventi un soggetto cinematografico: «Tra le fiamme dell’acciaieria, è il fascismo a risplendere. L’attrazione suprema è il regime stesso. Il culto della macchina apre la strada al feticcio dello Stato e del suo potere creativo, che è al tempo stesso un potere di raccogliere energia (acqua, lavoro) e saldare forme (acciaio, identità)» (Fabbri, 2023, pp. 75-76). Secondo Pirandello, proprio quegli operai risucchiati e schiacciati dall’acciaieria avrebbero dovuto rappresentare «la bellezza dei sentimenti che il lavoro ispira nel cuore degli uomini» (Camerini, 1990, p. 240). Stranamente, la pellicola fu un fiasco. 

Alessandro Blasetti era pronto, tuttavia, a risollevare le sorti del cinema italiano, dirigendo quel nuovo cinema che sarà “espressione di una nuova razza”. Il cinema delle camicie nere: apologia di bonifiche dell’insalubre sud della capitale. Siamo negli anni del consenso, culminanti nell’occupazione dell’Etiopia. I movimenti di camera sanciscono «gli sforzi di colonizzazione del fascismo come qualcosa che scaturisce naturalmente dai paesaggi su cui intervengono: Sole! sollecita l’intervento del regime come necessario data la natura stessa dei luoghi, ma anche dei volti, che stanno per essere presi di mira» (Ivi, p. 89). Significativo per le sue “pastorali fasciste” il rimando all’opera del senatore Enrico Ferri. Nel pensiero di Ferri la “degenerazione razziale” era dovuta anche a “condizioni ambientali” sottosviluppate. Se il Fascismo elimina da quei campi il degrado (lo scuro del chiaro), i primi piani risplendono d’una luce morale, d’una luce sana.

Altro regista che cercò di risollevare il cinema fu Mario Camerini, dalle trame sentimentali e meno cupe, ancora oggi descritte dai divulgatori, dai commentatori in rete e persino dai critici di settore come “moderate e garbate”, piene delle rimpiante “buone maniere di una volta”. Sconvolge ancor di più che esse vengano accomunate (in quanto “trame convenzionali”) alle prime pellicole da regista di Vittorio De Sica, di cui Lorenzo Fabbri propone una vivace e documentata rilettura che condividiamo appieno. A suo scrivere, il “realismo sociale” di Camerini riesce dove Ruttmann e Pirandello avevano fallito: nella romanticizzazione del lavoro e delle città del Nord, belle (ovvero fotogeniche) perché operose

Gli accoppiamenti sentimentali pubblicizzati da Camerini hanno come leitmotiv implicito il tema della vergogna, soggetto-oggetto-affetto principale anche della commedia Gli uomini che mascalzoni (passata alla storia per la bella voce di De Sica che intona Parlami d’amore Mariù), e di altre sue “storie d’amore e lavoro”. La vergogna come sentimento di inadeguatezza serve a rieducare l’uomo-lavoratore e l’uomo-da sposare, fino a letteralmente rivestirlo – come un manichino – dell’esatto colore del caffelatte: il bianco mediterraneo, la razza non tedesca ma italiana, un nuovo costume per un nuovo uso del corpo (volendo, fascista). 

Le alunne si nascondono dall'interrogazione in “Maddalena... Zero in condotta”, film di Vittorio De Sica
Le alunne si accalcano entrando in classe in ritardo in “Maddalena... Zero in condotta”, film di Vittorio De Sica

Non diremmo proprio la stessa cosa invece dei primi (e sottovalutati) film in cui Vittorio De Sica dirige e si dirige: Rose scarlatte (1940), Maddalena… zero in condotta (1940), Teresa Venerdì (1941) e Un garibaldino al convento (1942), scritti negli anni in cui si doveva preparare il popolo ad entrare in guerra. Commedie romantiche, con De Sica nei panni classici del gran seduttore, attorniato però da orfanelle, scolarette e persino mogli che si mostrano sempre indocili, indisciplinabili, non certo nate libere ma in grado di liberarsi, di agitare rivolte, di dichiarare desideri sessuali, di mangiare con gusto, di essere in ritardo, di non produrre né riprodurre niente, di essere solidali con i sogni delle altre. E che non a caso deridono “la lezione sulla razza” della professoressa fascista, mostrandola – in tono di scherzo – per quello che è: lezione per manichini, per abiti senz’anima. 

Contro ogni autorità, per ogni desiderio, s’avvicendano storie di fughe e scappatelle in cui all’ordine del giorno non si ritorna. A scuola come a casa (i luoghi dell’educazione punitiva) si rompano le righe, si smembri la condotta. Maddalena è un personaggio più femminista di molte narrazioni contemporanee [3], un’ode al desiderio senza vergogna né castigo, espresso nella fantasia di una scrittura che non si rassegna all’ortografia dell’esercizio burocratico, commerciale. Siamo partite dal pubblico silente e seduto nel Cinematografo dell’Italia liberale e ritroviamo, sugli schermi del 1940, donne “che non stanno mai ferme”. 

«In spazi disciplinati e al contempo stravolti, De Sica rappresenta il conflitto tra diversi tipi di scrittura: finzioni contro regolamenti, lettere d’amore contro registri di classe e bollette, e così via. Così facendo, mette in scena le diverse funzioni che la scrittura può svolgere. Ci sono forme di scrittura che sono tecnologie del sé che assoggettano e soggettivizzano, disciplinano e puniscono, fissano un genere e razzializzano; e ci sono gesti di scrittura la cui scommessa è la destabilizzazione della realtà e delle formazioni identitarie» (Fabbri, 2023, p. 183).

Maddalena si nasconde ancora, dal film di Vittorio De Sica, fotografia di Mario Albertelli

Lontano da quelle risate contro il potere, negli stessi anni ma con ben altro linguaggio contribuiva alla cinematografia di regime Roberto Rossellini, indiscusso maestro (e anticipatore) del genere tuttora indiscusso (il neorealismo), di cui si cerca ancora oggi di sminuire l’apporto alla propaganda fascista, benché assai ingombrante. Uomini sul fondo (1941), di Francesco De Robertis (assistito da Rossellini), come pure la trilogia che firma da solo, sono oggi liquidate come pellicole sperimentali, atipiche, “anti-retoriche”, che dimostrano un “minore controllo” da parte del regime e, secondo i critici, non romanticizzano la guerra, proprio grazie al loro proto o pre-realismo, individuato nell’uso di attori non professionisti e nelle scelte di scrittura, montaggio e direzione della fotografia. «Si tratta perlopiù di film corali, con protagonisti che parlano dialetti vari e sembrano in tutto e per tutto gente presa dalla strada, uomini e donne comuni, lontanissimi dall’ideale dell’eroe predestinato. Figure quotidiane che si trovano a compiere imprese straordinarie quasi loro malgrado, all’interno di film dal ritmo disteso, dove dominano lunghe sequenze di vita quotidiana e non vengono affatto rispettate tutte le convenzioni narrative relative alla suspense tipica del cinema di genere» (Manzoli, 2018, p. 6).

Ideato dal centro cinematografico del Ministero Marina, Uomini sul fondo dichiara nel suo incipit: “Il film – eseguito alla vigilia dell’attuale conflitto con gli stessi uomini oggi impegnati nella lotta – non ha altro intento che far conoscere le grandi rinunce, gli eroismi muti e le gioie silenziose che – agli uomini dei sommergibili – conferiscono il sommo privilegio della impossibilità di una distinzione tra la loro vita in pace e la loro vita in guerra”. Si elencano di seguito gli attori del film: ufficiali, sottufficiali ed equipaggio “di un nostro sommergibile”, con le unità e gli enti navali elencati squadriglia per squadriglia, plotone per plotone. Il cartello iniziale de La nave bianca (1941) recita invece: “anche in questo racconto navale tutti i personaggi sono presi nel loro ambiente e nella loro realtà di vita, e sono seguiti attraverso il verismo spontaneo delle espressioni e l’umanità semplice di quei sentimenti che costituiscono il mondo ideologico di ciascuno”. Il cartello finale, dopo zoom in sulla croce cucita sul petto dell’abnegata crocerossina devota unicamente alla guerra ed ai corpi armati del colonialismo visti come “coloro che maggiormente soffrono”, mostra la dedica “Alle sofferenze stoiche e alla fede immutabile dei feriti di tutte le armi, alla abnegazione silenziosa di coloro che ne attenuano le sofferenze e ne alimentano la fede”. 

Motti fascisti appaiono di continuo scolpiti sulla nave: “molti nemici molto onore”, “chi si ferma è perduto”, persino magistralmente intervallati alle immagini del fuochista Augusto Basso, martire ideale, bello e da tutti amatissimo, che subisce trasfusioni e viene miracolosamente salvato sulla nave ospedale. Mentre si curano i feriti, la nave continua a combattere, non perde colpi. Il fuochista che era moribondo chiederà in seguito alla donna amata: “ho fatto il mio dovere, sei contenta?” Del resto “una donna reale”, realista o pre-realista, cosa vorrebbe se non uomo che si sfregi si bruci e si mutili pur di conquistare suoli e popoli al di là del Mediterraneo, o pur di difendere la marina patria?

Biopoliticamente, lo stato fascista agisce sempre “per il nostro benessere”. Nella tetralogia mediterranea, questi supposti corpi reali e non eroici della marina non fanno mai una piega. Né dubbi né rabbia scomposta, nemmeno di fronte alla possibilità di morte collettiva, che sarebbe causata peraltro da una mera esercitazione, inutile eppure vitale nel caso di un mare “da difendere” ben prima di ogni attacco. Ogni sacrificio è ben accetto, perché compiuto (recita la dedica finale del primo lungometraggio firmato da Rossellini) da equipaggi disposti persino a non riemergere dalle profondità di quel mare “perché fosse nostro”. Mare nostro, l’espressione dannunziana presa in prestito ai romani, si ripete e riecheggia a lettere cubitali nel cartello successivo, lieto fine del film. 

Più di cinquemila, ogni anno, sono i morti e dispersi nel Mediterraneo, conteggi da cui vengono escluse le barche di cui si perde ogni traccia (37 l’anno scorso, 2024, con altri 2345 passeggeri). Roma città aperta, Mediterraneo mare chiuso. Mare tutto nostro, mare cimitero. I film di Rossellini-De Robertis (ri)aprivano una ferita di supposta «vulnerabilità acquatica che poteva essere suturata solo dalla forte e giusta belligeranza dello stato fascista» (Fabbri, 2023, pp. 136-137). Film con attori non professionisti della recitazione, eppure ben professionisti della Marina e della guerra. “Eroi non predestinati”, che ogni tanto casualmente confessano tra le lacrime la loro giusta (e volontaria) abnegazione in nome della patria. Non è il realismo a mostrarci più di ogni altro genere, ciò che realmente dovremmo essere, perché si spaccia per verosimile, per veritiero e possibile? 

Coste inviolabili, respingimenti, l’espansionismo come autodifesa, la guerra naturalizzata come “ambiente e realtà di vita”, unica possibile ideologia “di ciascuno” negli anni in cui l’Italia si preparava ad attaccare su tutti i fronti, dalla Grecia ai Balcani, dall’Africa alla Russia. «La nave bianca alimenta la mentalità vittimistica del fascismo e ne sostiene l’imperialismo melodrammatico filmando un Mediterraneo attraversato invece che attraversamenti del Mediterraneo» (Ivi, p. 151)

Dopo aver reso più umana e lacrimevole la marina militare fascista, Rossellini rese omaggio all’Aeronautica e all’invasione della Grecia con Un pilota ritorna (1942), su sceneggiatura di Vittorio Mussolini. Conclude la trilogia con L’uomo dalla croce (1943), in cui un cappellano italiano – ispirato a Padre Reginaldo Giuliani, membro degli squadristi cattolici che partecipò attivamente all’occupazione di Fiume, di Roma, e dell’Etiopia – si ritrova missionario nella campagna di Russia [5]. Qui la naturale innocenza degli italiani – benché ormai in guerra contro il mondo – è addirittura amplificata dalla missione umanitaria cattolica (in un raggelante scambio di battute, il buono e commiserevole protagonista afferma “un prete dice la verità, non fa la propaganda!”). 

Tutti i film sopra citati escluso De Sica li possiamo oggi trovare, motti fascisti in primo piano compresi, su Raiplay, o in diversi cataloghi del cinema italiano, elogiati per le loro “qualità cinematografiche” tra esperimenti ed anticipazioni di canoni, o sfoggiati nelle inaugurazioni di qualche marina militare, e infine sui canali Youtube di gruppi fascisti, neofascisti, nostalgici della Repubblica di Salò. (Sul loro fascismo, ad occhi fascisti, non c’è dubbio alcuno).

Comprendere cos’è stato e cos’è ancora il cinema di propaganda di destra, inteso nella sua scrittura multiforme che tentava diverse soluzioni narrative, è ancora un compito arduo. Cinema is the strongest weapon affronta con ampie vedute altre questioni cruciali sulle quali non possiamo soffermarci: la scrittura ibrida dell’originale forma e trama di Ossessione (1943), film che smaschera (con feroce radiografia) la desolazione della vita fascista e il suo malato benessere (il mito mussoliniano della casa e della vita coniugale), l’antifascismo cospirato da una cellula della rivista “Cinema”, e infine la luce (e cornice) “accecante” del Neorealismo, funzionale a ripulire la coscienza (politica ma anche cinematografica) dell’italiano vittima di una guerra e di un fascismo di cui fu complice. Dibattiti cruciali su cui si gioca ancora tanto della scrittura quanto dell’analisi filmica, delle egemonie della visione e del pensiero. Studi necessari tanto alla critica del film che alla formazione del cineasta di domani, perché ci aiutano ad aguzzare la vista in presenza di quella cultura (e pseudocultura), visiva e non visiva, che vuol essere ancora arma e artefice di guerra, propaganda di guerra, bottino di guerra, motivo di guerra e di difesa di gruppi classisti e razzisti. 

Dall’identità nazionale idealizzata all’interventismo biopolitico occidentale progressista. Per noi che dobbiamo vivere e reagire ai fascismi di oggi, l’intricato nesso tra propaganda e creatività si ripercuote nelle immagini contemporanee. Scrivendo dagli Stati Uniti, Lorenzo Fabbri si sofferma giustamente sul suprematismo trumpiano e sul populismo di destra. Negli ultimi cinque anni, anche in Italia la propaganda etno-nazionalista si è fatta molto più insistente, massiccia e grottesca. La “presa sul vivente” stressa da morire.

Prendiamo una settimana a caso di questo marzo, nei giorni in cui cominciavo a pensare alla stesura di questo pezzo. Il giorno 5 uno scrittore che l’anno scorso si faceva baluardo nazionale dell’antifascismo televisivo (prima di fare molti quattrini con una serie televisiva che esaspera il suo personale culto della personalità mussoliniana al punto da imporre stroboscopiche M al neon in un paesaggio urbano reale ancora invaso da marmoree M di aerea visione: tetti dei nostri quartieri popolarissimi, mura della nostra architettura, edifici delle nostre università), afferma che i giovani europei, quelli che vivono con salari da fame, devono reimparare a fare la guerra, da Omero in poi unica “genesi di senso” per l’essere umano, persino per l’ormai molliccio, come lo definisce lui, uomo del capitale.

Il giorno 9, un conduttore televisivo milionario affermava che è giusto anche morire di fame per l’ottimo impero occidentale, dato che la preoccupazione per le bollette e il carovita è affare di “persone ciniche”, non di umanitari “di sinistra” col fucile in spalla. 

Il giorno 11 nelle Nuove Indicazioni per i docenti di Infanzia e Medie del Ministero dell’Istruzione e del Merito, che dovrebbero suggerire una metodologia educativa al passo coi tempi, la parola Occidente compare 12 volte. “Solo l’Occidente conosce la Storia”, si dice, e solo gli occidentali hanno preso subito “coscienza di sé”. Gli altri (“quelli del mondo intero”), magari dopo. 

Il giorno 15 i sindaci di sinistra, i giornalisti progressisti e i cantanti cattocomunisti affermano il bisogno di una guerra per difendere attivamente la cultura europea, automaticamente superiore a tutte le altre per quello strano DNA immaginario che, secondo loro, accomuna Socrate a Manzoni, Pirandello a Marx. Nella stessa manifestazione il sopracitato autore di M. afferma che il fascismo è finito 80 anni fa, “una volta e per sempre”, perché adesso “Noi non siamo gente che invade i paesi confinanti, che bombarda e rade al suolo le città”. Noi? Noi proprio noi, complici di un genocidio coloniale da 76 anni e 19 mesi. 

La cultura serve alla guerra, ci prepara alla guerra. Qualche mese prima di questa fosca primavera, scoprivo che le nuove domande di contributi selettivi del Ministero della Cultura, uno dei pochissimi finanziamenti cui si possa aspirare per veder retribuito il lavoro di sceneggiatura, prevede, come categoria produttiva, “opere su personaggi e avvenimenti dell’identità culturale nazionale italiana”. Vediamo già i frutti nella programmazione di Raiplay. Se un tempo il cinema doveva “fare gli italiani”, oggi dovrebbe ricordarci chi dovevamo essere, rinvigorire quell’identità menzionata ossessivamente dal Presidente del Consiglio. 

Alessandro Barbero ha di recente ricordato che il bisogno e la necessità di qualsiasi prossima guerra è preparata, con largo anticipo, dalla “letteratura dell’invasione”, che dà voce alle ansie razzializzate sulla salute d’uno stato. Riarmo in nome della sicurezza, per difenderci dai nemici cattivissimi. Educazione e propaganda militare alle elementari, all’università, sui sussidiari, nei pop-up delle pubblicità online.

Quando vado al cinema, da spettatrice, ogni volta che mi aspetto un film sulla diserzione, così urgente di questi tempi, finisco per vedere l’ennesimo film sulla maternità. Ma come sopravviveranno questi figli alle guerre che vengono spinti a gestire ed amministrare con le loro burocratiche mani, a sopportare coi loro occhi, o a patire con la loro fame? 

Fiume o morte!, il film che ho citato in esergo, è un’abbondante, accurata ed esilarante ricostruzione in reenactment della Rijeka sottomessa alle grinfie liriche di D’annunzio, un’acuta risposta al colonialismo dei poeti fascisti, oggi rampante nelle italianissime penne o sulle amache benestanti. In una sequenza di direct cinema, vediamo giovani legionari fittizi sfilare in divisa anni ’20 nel corso principale della Rijeka di oggi. Appaiono estranei e stranianti come dovrebbe essere – agli occhi fuori dal cinema, liberati dall’essere spettatori – la vista dei militari salariati con mitra al collo che gironzolano per le nostre città. Nel film (e nella vita), una passante stupita chiede loro ripetutamente: 

  • Di che esercito siete? Che soldato è lei, vorrei sapere? 
  • Siamo l’esercito di D’Annunzio.
  • Santa Madre! Lui si vantava di essere un poeta…
  • Era davvero un poeta.
  • Con questo fucile? I poeti non fanno certe cose.

Note

[1] Traduzione di Fabbri, come le successive, dell’autrice
[2] Oltre ai Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Fabbri analizza “La vita creata”, scritto per celebrare l’anniversario della Marcia su Roma.
[3] In particolare di C’è ancora domani (2023), un caso di propaganda a ritroso che riproduce l’immaginario astratto dell’Italia liberata, dallo stacco netto dal totalitarismo di ieri alla serenissima democrazia post-fascista che viene. Qui la protagonista, donna vittima per natura, non ha problemi all’idea di apparentarsi con “infami di guerra”, né, in seguito, a delegare la violenza vendicativa al buon alleato (il giovane americano, maschio protettore e liberatore). Da candida innocente, la politica non la riguarda mica, se non quando la stessa liberazione femminile, nella sua altrettanto astratta e sconosciuta interezza, viene delegata d’emblée alle urne democristiane.
[4] Nello stesso capitolo (The White Italian Mediterranean) Fabbri ci ricorda che Uomini sul fondo entrò in produzione pochi mesi dopo il discorso di Mussolini al Gran Consiglio del Fascismo, dove si introduceva la vitale necessità di trasformare il Mediterraneo in un mare italiano, per farlo “tornare in nostro possesso”.
[5] “Questo film è dedicato alla memoria di tutti i cappellani militari caduti nella crociata contro gli empi, in difesa della patria e per portare la luce della verità e della giustizia anche nella terra del nemico barbaro”, recita il finale del film.

Bibliografia

Agbamu S., Mare Nostrum: Italy and the Mediterranean of Ancient Rome in the Twentieth and Twenty-First Centuries, in «Fascism 8», no. 2 (2019), pp. 250–74.
Blasetti A., Lettera aperta ai banchieri italiani, in «Lo schermo», agosto 1926.
Camerini C. (a cura di), Acciaio. Un film degli anni trenta. Pagine inedite di una storia italiana, Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma, 1990.
Fabbri L., Cinema is the Strongest Weapon. Race-Making and Resistance in Fascist Italy, University of Minnesota Press, Minneapolis – London, 2023.
Gillette A., Racial Theories in Fascist Italy, Palgrave McMillan, New York, 2002.
Greene S., Equivocal Subjects: Between Italy and Africa — Constructions of Racial and National Identity in the Italian Cinema, Bloomsbury Academic, London, 2014.
Manzoli G., Cinema e fascismo, in «E-Review Dossier» 6-2018 Bologna (BraDypUS).
Stone M., The Patron State: Culture and Politics in Fascist Italy, Princeton University Press, Princeton, N.J., 1998, pp. 65–70.
Taviani E., Il cinema e la propaganda fascista, in «Studi Storici», Fondazione Istituto Gramsci gennaio-marzo 2014, Anno 55, No. 1, Fascismo: itinerari storiografici da un secolo all’altro, pp. 241-256.

Arianna Lodeserto ha un dottorato internazionale in filosofia contemporanea ed insegna attualmente e precariamente Cinema e nuovi media all’università, montaggio e realizzazione audiovisiva negli istituti professionali. Si occupa di scrittura, montaggio e programmazione di documentari sperimentali, e di riuso creativo di materiali ritrovati. Ha vissuto a Roma e Parigi. Ama i viaggi, gli archivi, l’altrove.