§Fascismi
Riproduzione cosmica e fascismi agroalimentari: cibo, lavoro e identità nelle pratiche artistiche contemporanee italiane
di Fabiola Fiocco

“Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste”. Così è stato rinominato dal Governo Meloni, su esempio del governo francese, il dicastero responsabile, tra le altre funzioni, delle politiche agroalimentari italiane. Questa scelta si inserisce in un più ampio programma di provvedimenti volti a difendere la sovranità alimentare e a sostenere il settore agricolo nazionale, questioni emerse come centrali nelle politiche dell’attuale esecutivo. Tuttavia, come denunciato dalle associazioni di categoria, le misure adottate finora appaiono carenti sotto il profilo della concretezza e dell’efficacia strutturale. Tra le critiche rivolte, figura la mancata risposta alle proposte di deregolamentazione promosse a livello europeo, le quali rischierebbero di compromettere la ricchezza dell’agrobiodiversità nazionale, aggravare i costi di produzione e accrescere la vulnerabilità delle colture (USB Lavoro Agricolo, 2024). A queste si aggiunge la preoccupante assenza di interventi efficaci a tutela deɜ lavoratorɜ della filiera agricola: nel primo semestre del 2024, gli infortuni mortali in agricoltura sono stati 52, in aumento rispetto ai 47 registrati nello stesso periodo del 2023 (Ufficio stampa FAI-CISL, 2024). Le proposte del Governo sembrano, dunque, aver avuto finora una natura prettamente simbolica, concentrandosi su questioni come l’opposizione agli investimenti in filiere produttive innovative come quella della carne coltivata o la candidatura ufficiale, nel marzo 2023, della cucina italiana a Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità presso l’UNESCO. L’agricoltura diventa, così, un campo attraverso cui riprodurre un immaginario politico fondato sulla terra e sulla comunità rurale come principi identitari della nazione. Un immaginario che trova significativi precedenti nelle politiche e nella propaganda del fascismo. 

La promozione del mondo rurale all’interno della vita nazionale fu una parte importante delle politiche del regime che, attraverso provvedimenti come la “bonifica integrale” e la celebre “battaglia del grano”, miravano ad affrontare la “questione agraria” – riconosciuta già tra gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento da diversi autori e studiosi come un problema cruciale della società italiana, sia da un punto di vista economico che sociale (Farolfi e Fornasari, 2011). Il settore agroalimentare era stato il settore trainante per l’economia della penisola e, con l’unificazione e il conseguente esproprio delle terre ecclesiastiche, aveva trovato nuove terre e possibilità di sviluppo. Uno sviluppo caratterizzato da una marcata disomogeneità tra nord e sud Italia, che divenne ancora più evidente dopo la guerra, quando il settore agricolo si trovò a fare i conti con elevata disoccupazione, calo demografico, abbandono delle terre e tumulti sociali (Farolfi e Fornasari, 2011). In questo scenario di crisi, i ceti rurali emersero come uno dei principali sostenitori del programma fascista, nel quale il mondo rurale compariva come un importante contrappunto alla modernità della guerra e dello sviluppo industriale; un programma fondato sui valori tradizionali della terra, della famiglia e del duro lavoro. Nella propaganda del regime, questi elementi di forza e solidità erano veicolati attraverso immagini di uomini, generalmente muscolosi e in salute, e donne sorridenti a lavoro in mezzo a folti campi, o foto dello stesso Mussolini, ritratto a petto nudo mentre raccoglie il grano.

Benito Mussolini a torso nudo durante la cosiddetta "battaglia del grano", ca. 1925, via Wikimedia Commons

Il programma di investimenti nello sviluppo dell’agricoltura interna venne proiettato oltre i confini nazionali e impiegato per legittimare e celebrare la colonizzazione dell’Africa Orientale, e in particolare dell’Etiopia, come manifestazione di potenza economica, militare e modernizzatrice del fascismo. Attraverso la costruzione di infrastrutture produttive, così come l’introduzione di agrotecnologie e colture italiane e la manipolazione di quelle autoctone, il regime ambiva a trasformare il Paese nel «granaio d’Italia» (Cinotto, 2023). Un atto di trasfigurazione della terra che, al di là delle questioni economico-materiali, si configurava come strumento e metafora della sottomissione e del dominio coloniale. Eppure, a causa delle condizioni ambientali sfavorevoli, di una pianificazione inefficace e della resistenza armata da parte della popolazione etiope, i tentativi di colonizzazione agricola del Paese si rivelarono fallimentari ed economicamente insostenibili. Le infrastrutture progettate per sfruttare le risorse locali a favore del mercato italiano furono riconvertite per importare generi alimentari destinati ai coloni. Da potenziali simboli del fallimento del regime, la possibilità di consumare cibo confezionato importato venne così trasformato in un ulteriore segno della presunta superiorità biologica e tecnologica del popolo italiano.

 

La strumentalizzazione del cibo è un fenomeno trasversale, non riconducibile unicamente a un determinato orientamento politico. La relazione identitaria che si costruisce attorno all’alimentazione ha però una forte connotazione sovranista, che ha acquisito ancora più forza a partire dagli anni Dieci con il consolidamento delle forze politiche populiste (Strafile, 2023). Nel contesto delle attuali politiche del governo Meloni, le iniziative nel settore agroalimentare si configurano sia come strumenti di negoziazione che come efficaci mezzi di propaganda, rafforzando una retorica identitaria che si costruisce in contrapposizione all’Altro, che si tratti dell’”Europa dei burocrati” o di comunità razzializzate la cui alterità viene sottolineata attraverso i costumi alimentari. L’intreccio tra nativismo e sovranità alimentare appena analizzato è stato definito nella letteratura accademica con il termine «gastrofascismo» (Parasecoli, 2022). La ricchezza di mitologie, stratificazioni e suggestioni emotive che avvolge il cibo e l’agricoltura ha reso questo ambito particolarmente stimolante per la ricerca e la produzione artistica, in cui la terra diventa uno spazio collettivo di speculazione e resistenza all’alienazione contemporanea. In questo articolo mi concentro sulla pratica di tre artistɜ che, mediante l’uso del corpo, della performance, dell’archivio e del video, decostruiscono e sovvertono le narrazioni dominanti legate al paesaggio rurale, rivelando come questo non sia un simbolo statico da proteggere, ma un campo di tensioni e possibilità.

Formafantasma, Oltre Terra, 2023, installation view @ Ina Wesenberg. Courtesy dell’artista

L’installazione multimediale e progetto di ricerca Oltre Terra (2023 – in corso) dello studio di design Formafantasma si concentra sul processo produttivo della lana inteso come spazio materiale e simbolico in cui si manifestano tensioni tra sfruttamento delle risorse naturali, logiche di mercato e forme di coabitazione multispecie. Attraverso lo studio di strumenti e tecniche, nonché della cultura materiale legata all’industria laniera, Oltre Terra si configura come un dispositivo critico che invita a ripensare i modelli socio-ecologici e produttivi contemporanei, evidenziando la profonda interconnessione tra pratiche materiali e processi evolutivi. 

Il riferimento alle parole latine trans (oltre) e humus (terreno) nel titolo del progetto, oltre a formare la parola italiana transumanza, evidenzia la volontà di trascendere la concezione antropocentrica che, storicamente, ha orientato la rappresentazione e percezione del mondo naturale. In tale prospettiva, Formafantasma si riappropria della struttura formale del diorama – dispositivo espositivo tipico dei musei di storia naturale – per sovvertirne i presupposti epistemologici. La struttura si presenta come un articolato sistema di supporti in vetro, acciaio e ferro, che si sviluppa attraverso tavoli e agganci, accogliendo schermi, teche contenenti strumenti e indumenti, apparati informativi e documentali, riproduzioni in scala reale di pecore, dipinti e altri manufatti. L’eterogeneità e la stratificazione dei materiali restituiscono in modo chiaro il modo in cui l’evoluzione tecnologica della filiera produttiva abbia plasmato, nel tempo, la cultura materiale e immateriale ad essa legata, evidenziando inoltre l’interdipendenza tra organismi ed ecosistemi e le diverse temporalità dei processi ecologici, economici e sociali.

Formafantasma, Oltre Terra, 2023, installation view @ Gregorio Gonnella. Courtesy dell’artista

Mentre la lana, in quanto materiale e industria, costituisce l’oggetto principale della ricerca, la pecora è la reale protagonista del lavoro, raccontata nella sua duplice condizione di risorsa produttiva e di essere vivente. L’installazione di Formafantasma riflette il processo di antropomorfizzazione dell’animale in relazione all’avanzamento tecnologico nel settore, a cui fa eco la progressiva deumanizzazione del pastore. La figura umana, infatti, compare unicamente in relazione al lavoro produttivo, venendo rappresentata nella sua interezza nelle fotografie d’epoca, mentre nelle immagini più moderne è spesso ridotta a frammenti – mani che tosano, bocche che emettono richiami tradizionali per guidare il gregge. La riflessione sullo sfruttamento e la reificazione dell’animale come risorsa produttiva si estende così fino a comprendere l’essere umano, ridotto anch’esso a ingranaggio del medesimo sistema economico. Questa dinamica trova la sua massima espressione nel video Tactile Afferents (2023), realizzato in collaborazione con l’artista Joanna Piotrowska. Qui, il tema della domesticazione, e dunque della relazione tra essere umano e non-umano, viene indagato attraverso il linguaggio tattile: una coreografia di gesti, sospesa tra azioni codificate e interazioni più spontanee, che restituisce la complessità di un legame segnato da dipendenza, violenza e affetto. Senza assumere una prospettiva puramente materialista, Formafantasma approfondisce questa dinamica nelle sue molteplici declinazioni – economica, affettiva, gerarchica – utilizzando la cultura materiale come strumento critico per smascherarne le mistificazioni e restituire all’animale una centralità visiva e relazionale.

Formafantasma, Oltre Terra, 2023, installation view @ Gregorio Gonnella. Courtesy dell’artista

Mentre il lavoro di Formafantasma si concentra sull’industria laniera, l’opera The was—is—ever—shall—be of cosmic reproductivity (2022) dell’artista Cristina Lavosi esamina il latte come materia organica e simbolica. Partendo dalla “Rivolta del latte” organizzata dal comparto pastorale sardo nel 2019, il lavoro di Lavosi si muove su due livelli di lettura separati ma intersecanti. L’artista da un lato analizza i meccanismi di produzione e le condizioni di lavoro nell’industria lattiero-casearia; dall’altro, esplora la microbiopolitica del latte come prisma attraverso cui contestare le politiche di riproduzione umana e non-umana nell’attuale sistema capitalistico. Il progetto si è sviluppato attraverso interviste ed osservazioni sul campo durante la stagione delle nascite degli agnelli, materiali preparatori non presenti nell’installazione finale. Quest’ultima, infatti, si compone di tre elementi: un video girato in Super8 che ritrae la nascita di un agnello, delle stampe di fotogrammi prese dai filmati delle proteste stesse che raffigurano il dettaglio dello sversamento del latte da parte dei pastori, e delle diapositive su cui l’artista è intervenuta lasciando cadere delle gocce di latte. Questi tre elementi delineano tre prospettive complementari, ovvero quella scientifica, quella affettivo-riproduttiva e quella politica. Anche in questo lavoro, come nell’installazione di Formafantasma, la presenza umana viene esplicitamente rimossa, lasciando spazio alla materia intesa come soggetto agente che, nelle sue diverse forme e manipolazioni, riflette le dinamiche di estrazione, accumulazione e riproduzione che agiscono su di esso.

Cristina Lavosi, The was—is—ever—shall—be of cosmic reproductivity, 2022, installation view. Courtesy dell’artista

La scelta di concentrarsi sul latte aggiunge un’ulteriore dimensione ideologica all’opera. Lungi dall’essere una semplice preferenza alimentare, il consumo di latte, e in particolare di prodotti non pastorizzati, si inserisce infatti in una tradizione culturale che affonda le radici nel colonialismo e nel suprematismo bianco. Vasile Stănescu (2018) spiega come il consumo di carne e latticini fosse utilizzato nel XIX secolo come segno della presunta superiorità biologica deɜ bianchɜ – soprattutto dei lavoratori maschi – rispetto ai popoli colonizzati, combinando stereotipi dietetici, razziali e di genere. In epoca contemporanea, questo immaginario è stato ripreso da gruppi neofascisti o legati all’estrema destra statunitense, i quali rivendicano il consumo di latte come emblema di patriottismo e purezza razziale (Gambert e Linné, 2018). Emblematico, in tal senso, è il caso della performance HEWILLNOTDIVIDE.US (2017) di Shia LaBeouf, Nastja Säde Rönkkö e Luke Turner, durante la quale esponenti di estrema destra hanno occupato lo spazio davanti alla telecamera tracannando latte e facendo il gesto del saluto nazista con l’obiettivo di sabotare e ribaltare il messaggio inclusivo e antirazzista dell’opera. Questo processo di riappropriazione si è sovrapposto nel tempo ad alcune istanze promosse dai movimenti agroalimentari alternativi, in cui il latte crudo viene presentato come alimento “puro” e “autentico” in opposizione al cibo industriale (Paxson 2008). 

Cristina Lavosi, The was—is—ever—shall—be of cosmic reproductivity, 2022, installation view. Courtesy dell’artista

Il discorso sulla sovranità agroalimentare si intreccia così con la radicalizzazione di movimenti e istanze ecologiste e il concetto di “purezza” viene posto come un valore assoluto da applicare tanto ai cibi quanto ai corpi che li consumano. Queste dinamiche si riflettono nelle politiche agricole attuali, dove la celebrazione delle tradizioni contribuisce a mascherare le forme sistemiche di sfruttamento e invisibilizzazione della manodopera razzializzata. 

Oltre la questione identitaria, il gesto dello sversamento del latte raffigurato in alcune immagini dell’installazione solleva ulteriori interrogativi sulla natura del rapporto tra umano e non-umano. Attraverso questo dettaglio, la svalutazione economica del lavoro pastorale sembra infatti tradursi, non solo in quella del latte come prodotto e risorsa, ma della vita e del lavoro riproduttivo dell’animale stesso. 

Shia LaBeouf, Nastja Säde Rönkkö e Luke Turner, HEWILLNOTDIVIDE.US, 2017, still dal video in diretta dell’installazione presso il Museum of the Moving Image, New York, 3 febbraio 2017

Come sintetizzato efficacemente da Lavosi, viene da chiedersi: qual è il ruolo dell’elemento non-umano in una protesta così umana e politica? A questo interrogativo, la riposta data dal progetto sembra sia quella di ripensare la relazione economico-sociale tra produzione e riproduzione – in linea con le riflessioni sviluppate in ambito femminista (Bhattacharya, 2017; Jaffe, 2020) – proponendo la rivalutazione della riproduzione sociale come fondamento politico ed economico, nonché come spazio privilegiato di rivendicazione e lotta. L’invito è dunque quello di immaginare forme di alleanze inter-specie che possano contrapporsi alle dinamiche di repressione e controllo egemonico, sovvertendo al tempo stesso le categorie antropocentriche che hanno storicamente ordinato la società-mondo. Questa riflessione sulla cooperazione e l’interdipendenza come fondamenti di modelli di vita alternativi alle logiche estrattive capitaliste ritorna nella videoinstallazione di Lavosi A Choral Accomplishment (2024), dove la preparazione collettiva del formaggio da parte di tre donne diventa un’azione attraverso cui immaginare la riproduzione sociale come spazio di alleanza e condivisione.

Cristina Lavosi, A Choral Accomplishment, 2024, still video. Courtesy dell’artista

Nonostante il settore agroalimentare venga spesso rappresentato come un monolite, al suo interno coesistono diverse posizioni economiche e dinamiche di potere. Comprenderne ed esplicitarne il funzionamento è essenziale per contrastare la retorica contemporanea di un “ritorno alla terra” idilliaco e pacificato. Tale narrazione, infatti, tende a rimuovere o a rendere invisibili le disuguaglianze e le relazioni sociali ed economiche che organizzano il settore, perpetuando sotto forme nuove le stesse gerarchie del passato. In questo senso, le forme di differenziazione e razzializzazione discusse finora non hanno una funzione unicamente ideologica ma rispondono a specifiche necessità industriali. Negli anni Ottanta, il settore agricolo italiano presentava uno dei più alti tassi di sindacalizzazione tra lɜ lavoratorɜ salariatɜ, con una partecipazione che sfiorava il 90% (Pugliese, 1984). Nei decenni successivi, una serie di interventi normativi nei settori agricolo, lavorativo e migratorio ha indebolito questa forza organizzativa, favorendo un ricambio della manodopera autoctona con lavoratorɜ migranti, più ricattabili e meno tutelatɜ (Peano, 2020). Alla precarietà legata allo status giuridico e alla segregazione spaziale — esacerbata da fenomeni come il caporalato, i ghetti rurali e la dipendenza dai datori di lavoro per l’accesso all’abitazione e ai documenti — si affianca una rimozione dei lavoratorɜ migranti dall’immaginario collettivo. Come riportato nella relazione Made in Immigritaly. Terre, colture, culture. Primo rapporto sui lavoratori immigrati nell’agroalimentare (2024), nonostante costituiscano oggi tra il 30-50% della manodopera agricola, lɜ lavoratorɜ stranierɜ sono raramente inclusɜ nelle rappresentazioni ufficiali del settore. Questa distorsione, amplificata dalla retorica xenofoba alimentata da partiti, movimenti e media legati all’estrema destra, non fa che consolidare un’immagine idealizzata dell’agricoltura, e più in generale del Made in Italy, come spazio autentico, naturale e tradizionale, dissociato dalle sue effettive condizioni di produzione. 

Nico Angiuli, The Tools' Dance. The Vine Gestures. Spain, 2013. Courtesy dell’artista

Dal 2009, l’artista Nico Angiuli conduce una ricerca sul lavoro e sui sistemi produttivi come forme di riorganizzazione socio-politica, analizzando il modo in cui questi hanno modificato comunità e territori. Con il progetto The Tools’ Dance (2011-2017) l’artista ha costruito un archivio visivo dei gesti del lavoro agricolo. Partendo da una coltura specifica – come le olive in Spagna, il riso in Italia e il tabacco in Albania – Angiuli ha combinato ricerca d’archivio e incontri con organizzazioni, abitanti e lavoratorɜ in cui discutere e ricostruire la storia di un paese e di un determinato settore, così come il modo in cui informano e si riflettono nell’organizzazione sociale locale. Dopo una fase di osservazione e catalogazione, i gesti sono stati riproposti in una serie di video, strutturati in un trittico, in cui ciascuna sezione corrisponde, in modo approssimativo, a un diverso stadio della meccanizzazione agricola. Ogni sequenza gestuale è introdotta dal nome dell’operazione o della pratica agronomica a cui fa riferimento. A differenza delle opere di Formafantasma e Lavosi, il processo di deumanizzazione come condizione necessaria e funzionale allo sfruttamento non viene qui semplicemente suggerito, ma costituisce il fondamento concettuale dell’intero progetto. I cambiamenti nella gestualità sono, infatti, utilizzati da Angiuli come una lente attraverso cui leggere l’evoluzione di dinamiche sociali e culturali indotte dai processi di industrializzazione e automazione del lavoro. L’idea del corpo che si riduce progressivamente a strumento – estensione meccanica funzionale all’efficienza produttiva –  è alla base della riflessione dell’artista che, attraverso queste coreografie, mette in luce la progressiva alienazione, la frammentazione e l’isolamento della forza lavoro all’interno del paradigma neoliberista. 

Nico Angiuli, The Tools' Dance. The Tobacco Gestures. Albania, 2014. Courtesy dell’artista

Mentre nei primi due video della serie la partitura gestuale è performata da uomini bianchi, chiamati a riprodurre movimenti sublimati ed isolati dal loro contesto originario, nei video successivi sono lɜ stessɜ lavoratorɜ – perlopiù uomini razzializzati – a eseguire i gesti davanti alla camera. La differenza non riguarda solo l’identità delle persone coinvolte, ma si estende anche allo spazio e alla relazione che queste intrattengono con l’ambiente circostante. Mentre nelle prime sequenze i movimenti si svolgono in ambienti apparentemente neutrali e silenziosi, negli episodi successivi questi vengono performati nei campi o nelle abitazioni deɜ lavoratorɜ, e accompagnati da estratti di conversazioni tra Agiuli e lɜ protagonistɜ o con altre persone del luogo.  In questi scambi, le storie individuali si intrecciano con quelle di una comunità, restituendo non solo le difficoltà personali legate al lavoro, ma anche il risentimento e la diffidenza che determinate politiche migratorie e occupazionali hanno contribuito a radicare nel tessuto sociale. I video si configurano così come frammenti di una riflessione più ampia sul legame tra sfruttamento e meccanizzazione del corpo, nonché sul ruolo che la migrazione assume, oggi come in passato, nella riorganizzazione del lavoro all’interno delle economie post-industriali. Il gesto ripetuto, astratto e depotenziato nel suo valore d’uso, restituisce allo spettatore la traccia di una violenza sistemica che si sedimenta nel corpo, ne scolpisce i movimenti e ne determina l’automatismo. Inoltre, gli incontri tra artista e lavoratorɜ, così come gli agrodance workshop, ovvero i laboratori organizzati per l’ideazione delle coreografie, non si limitano a costituire momenti di co-creazione, ma si configurano come spazi di scambio e potenziale coscientizzazione, in tensione tra estetizzazione e testimonianza.

Dal 2011, il progetto ha vissuto diverse iterazioni ed evoluzioni. Nel 2017 è stata realizzata una performance corale presso la Fabbrica Del Vapore di Milano, a cura di Martina Angelotti e realizzata da performer della Compagnia Ariella Vidach – AiEP, agricoltori migranti e macchinari. Alla supposta neutralità dei primi video si accompagna un processo di risignificazione e narrativizzazione dei gesti che vanno oltre la realtà contingente per mettere in scena uno scenario di liberazione di corpi e macchine, insieme. Il processo di rimozione del contesto si intensifica ulteriormente nel film The Human Tools (2019), dove l’automazione del lavoro, la meccanizzazione dei corpi e l’umanizzazione delle macchine raggiungono una forma di espressione particolarmente radicale quanto distopica. In questo film, corpi ibridi dialogano tra loro, o forse si confrontano con sé stessi, fluttuando in uno spazio oscuro. La narrazione si sposta dal gesto, che inizialmente delineava la relazione tra l’essere umano e la sua attività, per concentrarsi sulla testa, mostrando come gli strumenti abbiano finalmente preso la parola, diventando soggetti attivi. 

 

In uno scenario in cui il paesaggio rurale riconquista centralità all’interno dell’immaginario nazionale, ciò che si impone non è tanto l’attenzione alle pratiche e ai soggetti che lo abitano, quanto la forza delle narrazioni che lo definiscono. Le politiche agroalimentari promosse dal governo Meloni e le forme di suprematismo alimentare promosse dai movimenti neofascisti, in continuità con le retoriche ereditate dal ventennio fascista, non si esauriscono nella gestione delle risorse o nella regolazione dei processi produttivi, ma si configurano come dispositivi di costruzione identitaria e controllo biopolitico. Questa continuità storica non è un’anomalia, ma una componente essenziale delle moderne forme di organizzazione economica e sociale, in cui la valorizzazione delle risorse (umane e non-umane) presuppone la marginalizzazione e lo sfruttamento di alcune categorie sociali. In questo contesto, le opere di Formafantasma, Lavosi e Angiuli si inseriscono come interventi critici, destabilizzando l’apparente neutralità del lavoro agricolo. Pur iscrivendosi in una genealogia consolidata di pratiche artistiche che riflettono sull’agricoltura (Bottinelli, 2024), queste opere non propongono modelli alternativi di produzione o distribuzione, ma interrogano le relazioni materiali e politiche che strutturano il lavoro agricolo contemporaneo e le modalità narrative attraverso cui viene ancora oggi descritto, restituendo visibilità alle connessioni tra politiche agroalimentari, sfruttamento del lavoro e processi di identificazione. Laddove il discorso istituzionale mobilita la “tradizione” come fondamento identitario, le opere analizzate smascherano questa costruzione, mostrando come essa sia meno una realtà storica che un dispositivo ideologico utile a confermare l’ordine sociale. Decostruire mitologie e narrazioni nostalgiche associate al “ritorno alla terra” non significa solo mettere in discussione un immaginario, ma aprire spazi per interrogare le politiche e i meccanismi che rendono possibile la sua riproduzione.

Nota
L’espressione “riproduzione cosmica” nel titolo dell’articolo fa riferimento al titolo dell’opera di Cristina Lavosi The was—is—ever—shall—be of cosmic reproductivity (2022), che, a sua volta, riprende un verso tratto dalla poesia Parturition dell’artista e poetessa Mina Loy.


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Fabiola Fiocco è curatrice e dottoranda di ricerca MSCA presso l’Edinburgh College of Art. Il suo lavoro si concentra sull’intersezione tra arte e attivismo, l’immaginario del (post-)lavoro nell’arte, la critica istituzionale e l’impatto delle epistemologie femministe sulle storie e teorie dell’arte. Ha tenuto lezioni in accademie italiane e internazionali e collaborato con spazi indipendenti, musei e fondazioni. I suoi testi sono apparsi in pubblicazioni accademiche e riviste di settore.