C’è un ambito della vocalità umana che abita i confini delle parole: quello scricchiolio a bassa frequenza che affiora quando il controllo cede, la tensione delle corde vocali si allenta e la vibrazione diventa irregolare. È la forma vocale che emerge a fine frase, nella voce spezzata del risveglio, nella tenerezza dell’intimità, nel sospiro di stanchezza, noia o tristezza che lascia morire il fiato in un gemito, nell’interiezione che manda la voce in buffering mentre pianifichiamo la prossima frase. Un crepitare che tutti conosciamo ma solo alcuni notano e non tutti chiamano per nome, nonostante di nomi ne abbia accumulati fin troppi: parliamo di “vocal fry”, evocando lo sfrigolio del mais venuto in mente a un foniatra nel 1943; parliamo di “registro a impulso”, cogliendo la grana inconfondibile di questa intermittenza vocale; parliamo di laringalizzazione, Strohbass, M0 (meccanismo zero). Ma forse il termine più evocativo resta l’altra onomatopea storica: “creak”. Lo scricchiolio della voce che torna rumore.
Il creak oscilla sulla soglia tra volontario e involontario. Può essere attivato consciamente: i cantanti metal lo forgiano in grida disumane; le persone trans la usano per negoziare il proprio genere vocale; i sound designer la sfruttano per dare vita a creature fantastiche; i bambini lo usano per giocare. Eppure sfugge al controllo. È una voce che emerge spontanea quando siamo vulnerabili, esausti, commossi. È la voce che tradisce un’irrequieta fisiologia laddove la phoné chiederebbe compostezza – lo psophos che resiste all’assimilazione della voce articolata, aristotelicamente umana.
Il creak resta però il territorio meno esplorato della voce. Gli studi su questo fenomeno bioculturale formano un mosaico frammentario. La foniatria fu la prima a interrogarsi se non fosse il sintomo di una patologia e solo dagli anni Sessanta in poi le scienze vocali confermeranno che la fonazione a impulso è naturale quanto la respirazione, presente in ogni organo vocale sano. Non solo umano.

Le scimmie Diana usano lo stesso meccanismo per segnalare al branco la presenza di predatori. I maschi delle gazzelle gozzute la usano per sembrare più grossi nel corteggiamento. Nel mondo marino, i capodogli hanno evoluto un sistema sofisticato di ecolocalizzazione basato sul registro a impulso. Anche gli uccelli, gli alligatori, le rane, lo usano. Una comunione sonora che attraversa le specie, rivelando un denominatore vocale comune nel paesaggio sonoro vivente.
Se il meccanismo è una pratica condivisa, la sua funzione si specializza in ogni specie. E nella parlata umana assume funzioni complesse e sfumate. Il suo utilizzo è associato a percezioni sociali, e può connotare una persona come istruita, urbana o non aggressiva. Da una prospettiva zoologica più ampia, la sua bassa frequenza si allinea con le dinamiche secondo cui i suoni gravi possono segnalare grandi dimensioni corporee o dominanza. L’aumento del creak nella parlata contemporanea potrebbe essere un tentativo inconscio di usare questo indizio acustico per conferire gravitas al proprio eloquio.
Questo presunto tentativo disturba le società contemporanee. La sociolinguistica se ne accorse quando una nuova generazione di giovani donne americane cominciò a parlare con questa grana vocale. Ma la fonazione a impulso negli anni ha segnalato appartenenze e soggettività diverse. Un tempo marchio vocale della upper class britannica, poi emblema del femminile urbano negli Stati Uniti, quindi cifra di durezza nel gangster latino, infine strumento di sovversione per i corpi queer e in transizione. Il “fenomeno del vocal fry” diventa un campo di battaglia culturale dove si scontrano generazioni, generi, classi.
L’Occidente ha cominciato a notare il creak perché destava sospetti e irritava le persone. Quando Kim Kardashian, Scarlett Johansson o Britney Spears lo resero famoso, lentamente l’orecchio comune diventava sempre più sensibile alla voce pulsata, sebbene forse non nel modo migliore. Tant’è che anche quando alcuni zoologi, dopo dieci anni di studio, hanno dimostrato che i capodogli usano lo stesso meccanismo per cacciare, uno di loro ha commentato così la scoperta: «Mentre negli esseri umani il vocal fry può essere controverso … ha indubbiamente decretato il successo evolutivo dei cetacei dentati» (Coen Elemans, in Svennevig, 2023). La letteratura sul creak è una storiografia delle sue problematizzazioni (Venturi, 2025).
Mentre il dibattito sul “fenomeno del vocal fry” cresceva, la pedagogia vocale ribaltava la prospettiva, scoprendovi una risorsa per rilassare e ripulire le corde vocali, per facilitare l’attacco del suono, per recuperare da traumi. Le osservazioni cliniche mostrarono anche qualcos’altro: nei malati di Alzheimer, negli anziani, nella schizofrenia, la voce scivola spontaneamente verso questo registro. Come se il creak fosse la firma sonora di un ritorno a uno stadio vocale precedente, neonatale. Già dalle prime settimane di vita, infatti, il creak emerge spontaneamente tra gli altri “protofoni”. Crescendo, questa forma vocale viene però espulsa dal regno del logos.
Bisogna dire che alcune lingue hanno resistito alla sua espulsione: nello Zapotec messicano, ad esempio, la fonazione a impulso ha funzione linguistica. Si tratta tuttavia di limitate eccezioni: per la maggior parte delle culture umane, il creak resta ancorato al prelinguistico, al presimbolico, al paraverbale. Non subisce però passivamente questa esclusione: le resiste. Mentre altri suoni infantili evolvono in fonemi, la fonazione a impulso mantiene la sua alterità irriducibile. Come se preservasse, nel cuore della phoné, uno spazio di resistenza. Sarà la musica contemporanea a intuire questo potenziale sovversivo. Joan La Barbara ha creato un bestiario di creature acustiche impossibili modulando il creak inspiratorio. Rully Shabara dei Senyawa lo usa per evocare presenze liminali tra regno animale, vegetale e minerale. Nel cinema, dal rantolo spettrale di The Grudge alla voce di creature come Gollum o Predator, il creak materializza l’inquietante familiarità dell’inumano che abita l’umano.
Dopo decenni di studi frammentari, abbiamo catalogato il creak come sintomo, stigma, vezzo, tecnica, ma non abbiamo ancora tentato con decisione la parola che ne coglie lo statuto: il rumore. Non rumore come interferenza da eliminare, ma come forza generativa che incrina l’ordine del suono. Il creak è un rumore nel senso più radicale: ciò che resiste alla simbolizzazione, che introduce caos dove ci si aspetta controllo, che fa emergere l’involontario nel cuore del volontario.
Rumore vocale che sottolinea un fatto non indifferente: prima di essere soggetti parlanti o cantanti siamo morfologie in risonanza con un paesaggio vivente molto più vasto. La voce pulsata è la traccia sonora di questa appartenenza. Ma soprattutto, questo rumore possiede una carica trasformativa che ci ricollega a quell’alterità. Non richiede tecniche né protesi: basta che la voce ceda, che il controllo si allenti.
Questo articolo organizza tale rumore vocale come risorsa biopolitica: non un’anomalia da correggere né un vezzo da stigmatizzare, ma una forza che apre a soggettivazioni vocali altre, meno antropocentriche. Nel paesaggio sonoro contemporaneo, vocalmente saturo, il creak si distingue dagli altri registri come forma di resistenza micropolitica. È il rumore che preserva la possibilità, al cuore della phoné, di divenire altro da sé. Per esplorare questa possibilità, lo inquadrerò in quattro immagini che ne rivelano il potenziale trasformativo. Queste immagini proveranno a mostrare che il creak non è qualcosa in sé, ma una morfologia di rumori che operano diversamente in contesti e corpi diversi.
Rumore endogeno
La prima immagine è quella del creak come protofono. I protofoni sono i precursori del linguaggio: vocalizzazioni funzionalmente flessibili, diverse dal pianto e presenti fin dai primi giorni di vita. Questi suoni non sono vegetativi (come la tosse), non sono legati esclusivamente all’espressione di una certa emozione, né si manifestano unicamente in contesti interattivi. Sorgono da una «propensione endogena alla vocalizzazione esplorativa, forse l’abilità più fondamentale che sta alla base del linguaggio vocale» (Oller et al., 2019: 1). Lo studio dei protofoni è cruciale per comprendere l’origine del linguaggio.
Uno studio del 2019 mostra che gli esseri umani producono creak non appena sono in grado di respirare (ibid.). La fonazione a impulso emerge spontaneamente insieme al pianto e altri protofoni, ed è un fenomeno normalissimo a questa tenera età. Il catalogo di vocalizzazioni prelinguistiche di Buder, Warlaumont e Oller riporta come i suoni «rumorosi» sono «spesso associati al registro a impulso» (2013: 108).
Quando i protofoni lasciano però il posto alle prime articolazioni e queste al linguaggio articolato, il registro a impulso trova una collocazione marginale. Poiché opera primariamente sulla qualità del timbro e non sulla distinzione fonemica necessaria all’enunciato, la sua variabilità diventa un rumore di fondo rispetto al progetto del linguaggio. Il sistema linguistico, nel suo processo di ottimizzazione, privilegia le distinzioni di altezza e di formanti, marginalizzando di fatto le qualità vocali come il creak. Questo processo di selezione funzionale non è guidato da un’intenzione, ma produce un effetto di esclusione.
Assistiamo al costituirsi di un ordine vocale attraverso un processo di selezione mirato alla chiarezza, alla regolarità, all’universale, da cui la fonazione a impulso risulta marginalizzata. In questa dinamica possiamo leggere in filigrana il primo manifestarsi di un potere ecologicamente normativo: il controllo neuromuscolare della fonazione si affina, portando a una sempre maggiore capacità di isolare un segnale vocale intenzionale dalle fluttuazioni e dalle componenti considerate “rumore” all’interno del timbro naturale. Il creak non scompare; persiste ai confini del sistema come traccia di ciò che è stato escluso. In questa persistenza risiede la sua irriducibile alterità: un potenziale di gioco e di cambiamento che rappresenta un accesso privilegiato a un’esperienza della voce al di fuori dei margini del logos.
Rumore organizzato
Con le prime tracce di un’alterità prelinguistica, giungiamo alla seconda immagine: quella della fonazione a impulso come suono più-che-umano – dove “più-che-umano” si riferisce a «un mondo che include l’umano emergente e permeabile e tutti i suoi altri intra-attivi animali e terrestri» (Davies, 2021: 1, traduzione mia). Potrà sorprendere pensare al “vocal fry” in questi termini, ma nessun meccanismo vocale avvicina l’essere umano al suo altro animale quanto questo. Nel mondo animale, il creak non è un potenziale poco espresso, ma una realtà comunicativa pienamente realizzata. Meccanismo bioacustico e funzione culturale sono inscindibili.
Le scimmie Diana usano la fonazione a impulso per proteggersi dai predatori nella foresta pluviale dell’Africa occidentale. Per una scimmia Diana, il creak ha un significato molto preciso: «Allarme predatore!» (Riede e Zuberbühler, 2003). La distinzione tra il meccanismo fonatorio e il messaggio (l’allarme) collassa. Il rumore è già suono, è già segnale. Non appena avvistano il predatore, le scimmie lanciano delle grida e iniziano a emettere un forte creak. A uno a uno, tutti i membri del gruppo si uniscono al coro per diffondere l’allarme, producendo un suono ronzante. Questo “drone” può viaggiare fino a un chilometro dentro alla foresta.
Il registro a impulso è usato da delfini, orche, capodogli e altri cetacei dentati per l’ecolocalizzazione, essenziale a cacciare in ambienti marini bui. Qui, il registro a impulso viene organizzato in una sofisticata tecnica bioacustica per la caccia, la navigazione, la comunicazione. Gli odontoceti deviano l’aria nel naso attraverso membrane chiamate “labbra foniche”, producendo dei potenti click. Lo studio che ha rivelato al mondo questo organo vocale (Madsen, Siebert e Elemans, 2023), suggerisce che le labbra foniche potrebbero spiegare il tipico “sorriso della Gioconda” di orche e delfini – un tratto che si sarebbe evoluto in cambio di un controllo preciso sul registro a impulso.
Durante la stagione degli amori, i maschi di gazzella gozzuta usano la voce per minacciare i rivali e attirare potenziali partner. La stazza corporea qui gioca un ruolo cruciale, data la tendenza delle gazzelle femmina a preferire partner più grandi. I richiami forniscono informazioni sulla dimensione corporea (allometria), e quelle informazioni possono essere oneste o disoneste, dato che suoni più gravi possono creare l’illusione che la sorgente sia più grande del reale (Fitch, 2002). Il registro a impulso, con le sue basse frequenze, è pertanto un alleato in questi scenari di “inganno allometrico”.
Come per le gazzelle, il principio “low is large” (Pisanski et al., 2017) gioca un ruolo anche nella comunicazione umana. Non è un caso che il creak sia stato spesso associato all’espressione di dominanza attraverso la voce. Ma consideriamo meglio questa associazione e le tanto discusse reazioni negative al creak nel parlato femminile, specialmente negli Stati Uniti (Anderson et al., 2014; Ligon et al., 2019). Nel registro a impulso, tutte le voci umane producono una frequenza fondamentale simile. A livello acustico le differenze di genere pertanto svaniscono. Il meccanismo in atto potrebbe essere l’associazione “low-large”.
Ipotizziamo su questa base. Finché “low is large” e “large is male”, allora il creak assumerà una particolare rilevanza nella rappresentazione di genere. In una società sessista in cui la mascolinità è il riferimento per la dominanza, voci gravi in corpi minuti possono suonare come un “inganno allometrico”. Questa ipotesi non è lontana dall’interpretazione delle reazioni negative al creak femminile proposta da Monika Chao e Julia Bursten (2021), secondo cui tali reazioni sono negative perché insinuano una violazione del “codice di frequenza” – la tendenza ad associare voci acute alla femminilità e voci gravi alla mascolinità [1]. Ma il luogo di questa violazione risiede solo nella mente di chi ascolta. Pertanto, finché “creak is low” e “low is male”, la fonazione a impulso continuerà a creare le condizioni per un atto di violenza d’ascolto. La violenza sta nella proiezione di tale sillogismo sopra a una voce. Questo tipo di interazione non verbale e abusiva si verifica però soltanto a condizione che il creak venga ascoltato come voce grave, e non, ad esempio, come una voce diversa, neutra dal punto di vista del genere (Venturi 2021).
Il secondo passaggio di questo percorso per immagini mostra solo alcune delle cose che le specie fanno con il proprio registro a impulso. Ci permette però d’immaginarlo come un “campo” in cui diverse creature trovano un denominatore vocale comune; denominatore che non è semplicemente l’aria, ma un modo unico di modellarla per “fare cose” (Austin 1962). Emerge pertanto un paradosso del tutto umano. Mentre nel mondo animale l’organizzazione è efficace e stabile, solo nella nostra specie si verifica una scissione. La domanda non è, allora, se questo rumore vocale possa essere organizzato, né per quali ragioni nella nostra specie rimanga così ampiamente disorganizzato, ma quali forme di riorganizzazione (poetica, politica, affettiva) diventino possibili grazie a questa scissione.
Rumore poetico
Gli alberi crepitano nel vento, la porta cigola quando si apre, il pavimento scricchiola. Il termine inglese “creak” riproduce questi suoni per onomatopea, e noi possiamo usare il registro a impulso per imitarli. Giungiamo così alla terza immagine: il potere onomatopeico.
Nell’imitazione vocale, il creak può evocare oggetti inanimati come porte o motori, organismi viventi come rospi o rami, creature fantastiche e mostruose. Avviene nella musica, dalla art music alla noise al metal, nell’arte contemporanea, nei videogiochi, al cinema. Il rantolo della saga Ju-On/The Grudge, per esempio, non è altro che la voce del regista Takashi Shimizu nel registro a impulso.
Va detto innanzitutto che le espressioni “vocal fry” e “creak” sono già onomatopeiche. Tracce d’onomatopea si trovano in tutta la letteratura, ben prima che gli scienziati trovassero un accordo sulla fisiologia del registro a impulso, tanto meno sulla terminologia. Inizialmente, i logopedisti faticavano a distinguere la raucedine dal creak, e solo con l’aiuto dell’onomatopea iniziarono a differenziare l’una dall’altra [2]. Il fatto che, nel tentativo di identificare il creak, gli scienziati si affidassero ai suoni che può imitare, è significativo. La fonazione a impulso era conosciuta per ciò che fa, non tanto per ciò che è. Questa propensione per l’onomatopeico e il performativo è ancora una parte essenziale del modo in cui la percepiamo.
I suoni imitativi si trovano in tutte le lingue, e i linguisti ritengono che siano le prime, arcaiche parole. Se i protofoni includono la produzione endogena di creak, possiamo presumere che anche i primi esseri umani ne fossero dotati. I nostri antenati potrebbero aver usato suoni imitativi per descrivere fonti d’acqua, predatori e fauna commestibile. Come le rane. I resti rinvenuti a Sakitari (isole Okinawa) di rane risalenti a circa ventimila anni fa mostrano segni di cottura.
Immaginiamo una bambina di tre anni a Sakitari, verso la fine del Paleolitico. La sua comunità si è appena spostata vicino all’acqua. Mentre gli adulti pescano, lei osserva. Vanno a caccia di quelle creature che emettono un richiamo gracidante, lo stesso suono che la bambina usa per comunicare agli altri che ne ha trovata una. Mentre ripete felice questo “proto-nome”, ne prolunga il suono. Sta giocando con un rumore nuovo, che da “nome” funzionale si è evoluto in una “cosa” non funzionale. Cosa le suscita questa “cosa”? Ricorda un arco teso prima che la freccia scocchi; i suoni emessi dagli altri occupanti della caverna nel buio della notte; i rami nel vento; forse una combinazione di tutti questi rumori con il gracidio della rana. L’imitazione attraverso la creazione ha lasciato il posto alla creazione attraverso l’imitazione.
Questo aneddoto serve solo a introdurre l’idea che la vocalizzazione oscilla sempre tra mimesis e poiesis. Il regno che si apre in questa oscillazione è l’immaginazione umana, che opera sempre attraverso il riuso innovativo di elementi preesistenti.
È nella logica della somiglianza [3] che troviamo la vera misura della forza creativa della voce pulsata. Nella mimesi poetica, la voce conquista una fenomenologia di atti poetici. Rully Shabara, il cantante del duo Senyawa, è ad esempio un virtuoso di questi atti. La Experience Series di Gigi Priadji (2016) lo mostra mentre produce una pletora di vocalizzazioni immaginifiche, eseguite utilizzando il creak sia inspiratorio che espiratorio. Vocalizzazioni gutturali che hanno l’apparenza sonora di una vita che sboccia tra l’animale, il vegetale e l’ultraterreno. Un altro esempio è Quatre Petites Bêtes di Joan La Barbara (1978–79). In questa composizione, quattro creature sono evocate con la voce e una fatta di creak inspiratorio. Ho chiesto a La Barbara di parlarmi di questa creatura. Mi disse che cercava qualcosa di poco identificabile, così che le persone «potessero lasciare che la loro mente immaginasse diversi tipi di creature» (Venturi e La Barbara, 2025). In Shabara come in La Barbara, l’onomatopea disturba la separazione netta tra referenziale e non-referenziale, come nell’imitazione di un suono che non esiste ancora, o nella manifestazione sonora di qualcosa che deve ancora essere immaginato. Entrambi rendono tangibile il potere del creak di materializzare questa apertura verso l’indefinito.
Un tratto di quella che Jelena Novak chiama “impurità inumana” è infatti tipico del registro a impulso. La sua performatività permette alla voce di trasformarsi in un modo non ottenibile con altri registri. Al contrario del registro modale [4], che conserva sempre una certa purezza, il registro non modale mostra una notevole impurità, poiché cancella letteralmente il “modale” associato alla voce umana [5]. Gli impulsi cambiano la qualità e la valenza affettiva del suono vocale, rimescolandolo e distorcendolo: si pensi alla distorsione vocale nel rock o al “fry singing”. Il registro a impulso può integrarsi con altre qualità per creare suoni sepolcrali; si ascolti, ad esempio, FED UP del rapper Ghostemane (2020), o Kim Dracula (2023). La fonazione può ribaltare completamente l’apparenza sonora di una voce.
Ci viene così presentata un’immagine della fonazione a impulso in quanto spazio poetico. Conferire al creak questo statuto significa rimetterlo a una vocalizzazione presimbolica, sensuale e libera da riferimenti. Una forma che va al di là del ruolo di qualità, interiezione o marker; una forma che permette una riconfigurazione della materia vocale nella sua permeabilità umana. In questa immagine, il creak possiede ciò che Bronwyn Davies chiama “il potere di eccedere”.
La terza immagine illumina pertanto uno degli esiti più creativi di quella scissione tra rumore vocale e linguaggio. Se nel mondo animale il creak è organizzato secondo fini specifici (e coincide con essi), nell’essere umano, libero da ogni compito stabilito, diventa materia prima disponibile per l’immaginazione. Attraverso il ponte della mimesis, il creak cessa di essere marginale e diventa centrale alla poiesis, un accesso diretto a una trasformazione della materiale vocale in altro.
Potere trasformativo
Affinché una trasformazione si possa sperimentare, deve implicare un elemento di alterità, e l’alterità implica sempre la possibilità di una trasformazione. Secondo Laurie Paul (2014), le esperienze trasformative coinvolgono un cambiamento nei nostri valori e nel punto di vista sul mondo che non avremmo potuto capire prima. Questa concettualizzazione cattura due aspetti intrinseci del creak: la sua capacità di stimolare cambiamenti nel modo in cui ci esprimiamo e negoziamo le identità, e il fatto che il creak stesso sia ispirato dal cambiamento.
Pensiamo alla voce transmascolina: l’esplorazione del registro a impulso è spesso un passaggio chiave nella transizione vocale, non tanto per imitare una norma, ma per negoziare il senso d’identità, per scolpire una voce che risuoni col proprio vissuto. L’uso del creak diventa qui un atto di autodeterminazione vocale, un modo per abitare la propria voce mentre cambia (Zimman 2018). È il punto in cui il soggetto può giocare con i limiti della propria stessa norma, trasformando un meccanismo fisiologico in uno strumento di soggettivazione. Pensiamo all’arte vocale: le applicazioni del creak derivano da tecniche sofisticate che, pur essendo accessibili a chiunque sia determinato ad apprenderle, suonano “aliene” all’ascoltatore. Dal canto armonico al “fry scream”, la fonazione a impulso sembra orientata a produrre effetti speciali che sembrano superare i limiti percepiti della voce umana. Il creak trae la sua forza creativa dalla trasformatività e il suo potere trasformativo dall’alterità.
Riportando la voce alla sua alterità presimbolica, il creak innesca esperienze che si distinguono dal linguaggio, dalle attribuzioni simboliche di identità e, in definitiva, dal controllo. Posso gestire il registro a impulso, ma mai controllarlo completamente, perché l’irregolarità è intrinseca. La forza del registro a impulso risiede qui, a metà strada tra la parola e un suono vegetativo, dove l’inconscio sconfina nel conscio e il rumore disfà la tessitura del suono vocale. Questa funzione trasformativa porta in superficie l’alterità insita nell’identico, ed è questo tratto a conferire alla voce pulsata il potenziale per diventare politica.
La prima immagine (il creak come protofono), la seconda (il rumore organizzato tra natura e cultura) e la terza (il potere onomatopeico) si incontrano nella quarta: il potere trasformativo che il creak trae dalla sua alterità prelinguistica. Alla luce di quest’ultima immagine, la fonazione a impulso funziona come l’altro della fonazione normale, dove “normale” significa modale da un lato e normativo dall’altro, mentre “a impulso” significa non modale da un lato e non conforme dall’altro. Svelando la natura estrinseca della logica di qualsiasi normalità, il creak implica altre proprietà e permette nuove aperture. Si rivela così una risorsa endogena, accessibile e inclusiva, perché rende il soggetto protagonista del proprio cambiamento vocale.
Note
[1] Concetto introdotto dallo psicolinguista John Ohala (1994).
[2] «Un bastone fatto scorrere su una ringhiera» (Catford 1964: 32), «il suono che molti bambini fanno imitando un motoscafo», o «il mais che scoppietta» (Moser 1942: 174).
[3] Sulla logica della somiglianza, vedi Bachelard 2014.
[4] Da “mode”, ovvero il registro standard. Il creak è definito “non-modal”.
[5] Resa ancora più evidente da una registrazione, in assenza di un corpo da osservare.
Bibliografia
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Francesco Venturi è il direttore del Centro di Ricerca Interdisciplinare sulla Voce di Bologna. Musicista, artista vocale e ricercatore, è autore della monografia Creak: Theories and Practices of Pulse Phonation (2025). È dottorando alla Kingston University di Londra e ha pubblicato su riviste internazionali. Conduce progetti educativi sulla voce in ambito artistico, educativo e clinico e si esibisce in tutta Europa in solo e in diverse formazioni dal 2014.
