Ci ritroviamo a scrivere questo testo mentre si avvicina il 25 aprile, giornata in cui, da ottant’anni, si celebra la Liberazione dal nazifascismo. In questo clima sentiamo il bisogno di interrogarci su cosa significhi oggi confrontarsi con l’eredità del passato, e di farlo tornando, almeno con l’immaginazione, a un momento che ha segnato l’inizio del nostro dialogo comune. Abbiamo scelto, come espediente dichiarato, di ricordare la prima volta in cui ci siamo trovate fisicamente nello stesso luogo: la Casetta Rossa di Garbatella, spazio sociale simbolo dell’antifascismo romano. Immaginiamo di essere ancora lì, raccolte attorno a un tavolo in una sera d’estate, immerse in un’atmosfera di scambio e condivisione.
Da questo esercizio di manipolazione del passato — scegliendo un momento e facendolo riemergere — nasce il nostro racconto: un dialogo a tre voci che intreccia memoria personale, riflessione storica e pratiche artistiche.
Ripensiamo a quell’incontro e ad altri successivi, in cui, a partire dalle nostre storie familiari, abbiamo iniziato a interrogarci sulle implicazioni profonde tra i nostri percorsi personali e la storia del fascismo e del progetto coloniale italiano.
Sono legami che non si perdono in una genealogia lontana, ma che abitano le nostre famiglie in modo ravvicinato, concreto. Questo confronto ha sollevato domande che hanno accompagnato la nostra ricerca e che riproponiamo qui, consapevoli che il dialogo tra di noi si nutre non solo di interessi comuni, ma anche di un’amicizia esplicitamente rivendicata come pratica politica.
Abbiamo scelto infatti di mantenere questo testo in forma dialogica, per dare visibilità al ruolo dell’amicizia come strumento etico e politico: un’alleanza che plasma i modi in cui parliamo, scriviamo, creiamo, curiamo.
L’amicizia, per noi, è spazio di articolazione politica e immaginativa; luogo di apertura verso l’altra; esercizio di apprendimento reciproco. È una pratica che ci permette di costruire alternative, in un presente segnato da difficoltà profonde, guardando al passato non per ripeterlo, ma per interrogarlo criticamente.
Condividere le nostre storie familiari, riconoscere i segni dell’eredità coloniale e fascista nelle vite dei nostri parenti, è anche un modo per contrastare quella che Ann Laura Stoler definisce afasia coloniale: l’incapacità di articolare consapevolmente il proprio coinvolgimento nei sistemi storici di oppressione (Stoler, 2016).
Scrivere, parlare, rendere visibili questi intrecci diventa così un gesto consapevole, un antidoto all’afasia, un tentativo di aprire spazi di parola e di ascolto dove a lungo è prevalso il silenzio.
Questo testo si sviluppa quindi come un dialogo a tre voci tra Emanuele Carlenzi (storico della fotografia), Laura Fiorio (artista) e Ginevra Ludovici (storica dell’arte e curatrice).
Emanuele: Come siete entrate in contatto e come si intrecciano le vostre pratiche?
Ginevra: Io e Laura ci siamo conosciute nel 2021 durante la prima edizione della Difficult Heritage Summer School a Borgo Rizza, in Sicilia. In quel periodo avevo da poco iniziato il mio dottorato e stavo approfondendo il tema dell’eredità difficile italiana, in particolare i modi in cui le narrazioni ufficiali del passato fascista e coloniale possano essere messe in discussione attraverso pratiche artistiche e curatoriali. Quell’esperienza ci ha viste parte di una comunità transdisciplinare di circa quaranta persone, tra studenti del programma DAAS del Royal Institute of Art di Stoccolma (tra cui Laura), studenti del corso in Critical Urbanism dell’Università di Basilea, ricercatori esterni (come me) e abitanti dei paesi vicini. È lì che ho scoperto la ricerca di Laura e che si è avviata una bella amicizia e una collaborazione che è cresciuta nel tempo, incontrandoci a Roma, Berlino e negli altri appuntamenti annuali a Borgo Rizza.
Laura: È andata proprio così, la nostra amicizia è nata a Borgo Rizza! Chi lo avrebbe mai immaginato (ride). Io quell’estate mi trovavo lì come fellow del programma Decolonizing Architecture Art Studies (DAAS), che si occupava di analizzare le architetture dei borghi rurali di fondazione coloniale costruiti nella fine degli anni ‘30 dall’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano, tra cui appunto Borgo Rizza, come casi studio per indagare il colonialismo italiano e le sue dinamiche.
Il programma, attivo già da alcuni anni, è coordinato da Alessandro Petti, che insieme a Sandi Hilal è co-fondatore del collettivo DAAR. Il collettivo esplora il ruolo dell’architettura nei processi coloniali, con particolare attenzione alla Palestina e, più recentemente, al passato coloniale italiano. Il nostro caso studio era un borgo di fondazione fascista, tutt’oggi intitolato ad Angelo Rizza, camicia nera, oggetto negli ultimi anni di interventi di restauro. Il tema su cui eravamo chiamate a riflettere era dunque quello dell’eredità del fascismo, del colonialismo e della presenza sul territorio di luoghi in cui queste memorie problematiche non sono ancora state rilette in chiave critica.
Trovo che questo approccio sia estremamente stimolante, perché spesso si affronta il tema del colonialismo solo in relazione ai territori d’oltremare, mentre uno studio delle cosiddette “colonie interne” (come suggerisce Antonio Gramsci nella sua analisi della questione meridionale) riporta la riflessione in un ambito più prossimo, permettendo di comprendere meglio quanto il nostro presente sia ancora attraversato da retaggi coloniali. Non viviamo in una società pienamente postcoloniale; al contrario, abbiamo bisogno di pratiche quotidiane di decolonizzazione.
E.: E, Laura, in che modo ti sei avvicinata al Borgo nel contesto della tua ricerca? Come hai provato a tradurre questa idea di decolonizzazione da esercitare nel quotidiano?
L.: Rispetto al tema della decolonizzazione, per me è fondamentale partire dal proprio posizionamento e dal riconoscimento della responsabilità individuale nelle scelte quotidiane. È importante comprendere che la violenza e l’oppressione non sono esclusivamente esercitate da governi o istituzioni, ma si riflettono anche nei piccoli gesti, perché ogni decisione, anche la più apparentemente neutra, è frutto di un pensiero politico.
Parlando poi di colonizzazione come forma di dominio sul territorio, credo che proporre attività culturali e di aggregazione possa rappresentare un antidoto possibile, a patto che si lavori in ascolto e relazione con le reti già presenti sul territorio. Per questo, insieme a Mario Margani – originario di Enna e anche lui partecipante alla Difficult Heritage Summer School – abbiamo fatto un primo sopralluogo nell’aprile 2022, esplorando i dintorni di Borgo Rizza e incontrando le persone che lo abitano, con l’idea di coinvolgerle nelle attività future.
Successivamente abbiamo organizzato un incontro che metteva in dialogo alcune realtà siciliane, come Garage Art Platform e Badiula Lost and Found, con collettivi internazionali attivi su temi neocoloniali e intersezionali, come Decolonize This Place di New York, Decolonial Neighbours / Savvy di Berlino, e Comi Barón di Valparaíso, che ha trasformato un ex sito di detenzione e tortura in un centro culturale. Insieme ci siamo confrontati su cosa accomuni queste esperienze, oltre le differenze geografiche, e su come tradurre certe pratiche in un contesto rurale come quello siciliano.

Al Borgo, in particolare, ho scelto di concentrarmi sulle memorie intime, cercando di renderle collettive attraverso laboratori sugli archivi familiari legati al fascismo. A questi si affiancavano proiezioni pubbliche in cui le persone potevano raccontare le proprie storie, e momenti più conviviali, come concerti con musicisti locali – Gonghi, Manomanouche, De Marion, Tapso II – accompagnati da proiezioni dal vivo di materiali fotografici sugli edifici fascisti, in un intreccio di ricordi privati e spazio pubblico, decostruiti e ricomposti a ritmo con la musica.
Considero questi momenti collettivi fondamentali per una pratica artistica che non rimanga fine a sé stessa ma che si inserisca nel contesto a cui vuole fare riferimento interagendovi a lungo termine.

G.: Ci racconti qualcosa in più del tuo archivio familiare? Come lo hai scoperto, quando hai iniziato a percepire che custodiva una memoria da interrogare anche politicamente, e qual è oggi il tuo rapporto con quelle immagini?
L.: Ho trovato per caso le fotografie di mio nonno in Etiopia, in fondo a un cassetto, nel 2015. Ricordo che chiesi subito spiegazioni a mia madre, perché sapevo che lui aveva prestato servizio in Grecia, ma alcune immagini riportavano indicazioni che non combaciavano con quei racconti, come ad esempio un riferimento alla città di Adua, in Etiopia. Mia madre però non ne sapeva molto, non aveva informazioni precise, e mio nonno era già morto. Aveva sempre dichiarato con orgoglio di essere stato fascista, e questo aveva causato forti tensioni in famiglia, soprattutto con i miei genitori, che invece avevano militato in formazioni come Democrazia Proletaria e partecipato attivamente alla vita politica della sinistra locale.
Quella scoperta è stata un punto di partenza per una mia ricerca sulla storia coloniale italiana, che fino a quel momento conoscevo poco. Ho cominciato a scansionare le fotografie, ma inizialmente non sapevo come affrontarle: mi sentivo sopraffatta dal loro contenuto, sia a livello storico che emotivo.
È stato solo più avanti, lavorando con il gruppo DAAS e parlando con diverse persone in Sicilia, cercando di capire il loro rapporto con le architetture fasciste e con le memorie legate a quel periodo, che ho iniziato a riconoscere quelle immagini come parte di una narrazione più ampia, una memoria familiare che spesso restava taciuta, sia nel privato che nel discorso pubblico.
Mi sono resa conto che non era semplice trovare informazioni su quegli anni: molti discendenti di soldati fascisti, come nel mio caso, sembravano aver scelto di rimuovere o non affrontare il ruolo che i loro familiari avevano avuto durante il ventennio.
A quel punto ho iniziato a riflettere sulla possibilità di usare le fotografie della mia famiglia come caso studio per mettere in relazione le tracce materiali lasciate dal fascismo – le architetture – con la memoria personale, intima, che spesso resta invisibile.
Durante questo percorso ho conosciuto Mario, il cui nonno era stato in Eritrea. Abbiamo iniziato a confrontare le nostre memorie familiari, a riconoscere elementi in comune tra le immagini e i luoghi, e a pensare a come rendere collettiva quella riflessione. Così è nata l’idea delle proiezioni pubbliche: mostrare quelle fotografie direttamente sugli edifici fascisti, creando uno spazio in cui le memorie potessero emergere e circolare.
Da quel momento, sempre più persone hanno cominciato a parlare delle proprie foto di famiglia, spesso dimenticate o nascoste, condividendo ricordi, interrogativi e silenzi su un passato che resta ancora difficile da affrontare.

E.: Trovo molto potente il modo in cui sei riuscita a trasformare un’eredità familiare silenziata in uno spazio di confronto collettivo. Ricordo che Ginevra me ne aveva parlato con grande ammirazione, ma è stato nel progetto realizzato a Belgrado che ho avuto modo di confrontarmi più da vicino con la tua pratica. Ginevra, com’è nato quel progetto?
G.: Nel 2022, mentre vivevo a Belgrado, io e la curatrice Giulia Menegale abbiamo deciso di proporre il lavoro di Laura alla Galleria Remont, uno spazio storico della scena indipendente locale, recentemente chiuso dopo oltre vent’anni di attività a causa dell’attuale situazione politica. Grazie al supporto di diverse istituzioni, siamo riuscite a realizzare nel novembre 2023 la mostra A Difficult Heritage: Visions from the Family Archive, che ha portato una riflessione profonda sul colonialismo italiano attraverso materiali d’archivio familiari, installazioni fotografiche e documenti storici rielaborati.

La mostra prende avvio dalla ricerca My Fascist Grandpa, iniziata da Laura proprio a Borgo Rizza, e si sviluppa in dialogo con il lavoro di Mario Margani, artista e curatore, che – come raccontava Laura – stava a sua volta affrontando un confronto personale con il passato coloniale del proprio nonno. Al centro dello spazio espositivo abbiamo sospeso quattro grandi ritratti dei nonni di Laura e Mario, stampati su teli semitrasparenti, in modo che sembrassero fluttuare nella stanza come apparizioni, evocando presenze fantasmatiche e irrisolte. Intorno a questi, una serie di fotografie d’epoca mostrava scene dell’occupazione italiana in Etiopia ed Eritrea: villaggi conquistati, generali a cavallo, popolazioni locali, documenti scritti a mano. Le immagini, disposte in alto vicino al soffitto, creavano un’atmosfera immersiva e straniante, spingendo il pubblico a interrogarsi sulle modalità con cui la storia viene trasmessa e interiorizzata.
Accanto all’installazione, una seconda sala presentava il lavoro fotografico di Laura a partire da Borgo Rizza. Le fotografie, proiettate sulle architetture del borgo, attivavano un dialogo visivo e simbolico tra memoria familiare e paesaggio storico, tra tracce individuali e narrazioni collettive.
A completare il progetto espositivo, abbiamo curato un articolato public program che ha incluso una conversazione tra Laura, Mario e noi curatrici sul ruolo della fotografia come dispositivo critico e sulla necessità di elaborare nuove metodologie di ricerca archivistica per contrastare l’afasia storica legata alle eredità difficili.
Abbiamo poi ospitato un incontro con due artisti serbi, Vladimir Miladinović e Vahida Ramujkić, i cui lavori esplorano la rilettura critica e la decostruzione delle narrazioni storiche ufficiali nella regione post-jugoslava. Miladinović, ad esempio, con The Notebook, ha lavorato sui diari di Ratko Mladić, generale noto anche come ‘il macellaio della Bosnia’, responsabile di crimini di guerra, tra cui il genocidio di Srebrenica, interrogandosi sul ruolo della memoria e dei documenti storici. Ramujkić, con il progetto Disputed Histories, avviato nel 2006, ha creato una raccolta di libri di storia provenienti dai territori ex-jugoslavi, invitando a esplorare narrazioni alternative e a costruire storie collettive nonviolente, al di fuori delle visioni nazionali e identitarie.
A questi momenti si sono aggiunti due laboratori: uno dedicato alle memorie familiari e alla costruzione di contro-narrazioni a partire da materiali personali, guidato da Laura e Mario; l’altro incentrato sulla memoria urbana, condotto in collaborazione con lo storico Milovan Pisarri e il collettivo Resistenze in Cirenaica, che ha esplorato la dimensione politica della toponomastica e dei monumenti nello spazio pubblico.
Quell’esperienza ha consolidato ulteriormente la nostra collaborazione e ci ha portato, l’anno successivo, a riproporre insieme – io, Laura e Mario – il laboratorio sulle memorie familiari proprio a Borgo Rizza, restituendo quell’approccio a uno dei luoghi da cui tutto aveva preso avvio.

L.: L’esperienza di Borgo Rizza, prima, e quella di Belgrado, poi, non hanno influenzato solo la tua pratica curatoriale – che già era orientata verso forme espanse, non solo espositive ma anche educative – ma hanno avuto un impatto forte anche sulla tua ricerca accademica, giusto?
G.: Sì, assolutamente. L’esperienza di Borgo Rizza e poi quella di Belgrado hanno avuto un impatto importante anche sul mio percorso di ricerca accademico. In realtà, già prima avevo avviato un lavoro in quella direzione: nel 2021, insieme alla mia collega di dottorato Francesca Leonardi e alla Prof.ssa Linda Bertelli, abbiamo dato vita a un seminario mensile all’interno della Scuola IMT di Lucca, che è durata circa due anni. Lo avevamo pensato come uno spazio collettivo in cui confrontarci con il tema della decolonialità, invitando ricercatrici e ricercatori dell’università a leggere insieme testi fondamentali, discutere casi studio, ragionare su come questi temi intersecano anche le nostre posizioni personali.
In quegli anni il dibattito era molto acceso: l’assassinio di George Floyd era avvenuto nel 2020, e movimenti come Black Lives Matter, Rhodes Must Fall, e la rimozione dei monumenti confederati negli Stati Uniti avevano avuto un’eco importante anche in Italia. Si parlava molto, ad esempio, della figura di Indro Montanelli e della sua famosa statua a Milano. Sentivamo la necessità di uno spazio in cui elaborare criticamente queste questioni e decostruire collettivamente certe narrazioni. Anche perché, come diceva prima Laura, tutto parte da un posizionamento personale: io stessa porto con me un’eredità difficile – mia nonna paterna è nata ad Asmara negli anni Trenta, in una famiglia di coloni italiani durante l’occupazione italiana dell’Eritrea.
Da quel seminario è nata, nel 2023, la Summer School Dissonances. Re-interpreting and re-assessing difficult heritage, che ho coordinato insieme a Francesca Leonardi sotto la direzione della Prof.ssa Bertelli. È stata un’esperienza molto intensa, costruita come uno spazio di confronto transdisciplinare tra studiose e studiosi di diversa provenienza, pratiche artistiche e attiviste, e approcci critici alla memoria storica e culturale.
Il focus era il concetto di difficult heritage, così come definito da Sharon Macdonald: «un’eredità storicamente significativa, che resta visibile attraverso architetture, monumenti, immagini, ma che risulta difficile da integrare in un’identità contemporanea» (Macdonald, 2009). Abbiamo lavorato sulle dissonanze, sui conflitti interpretativi, su come questi emergano in relazione a musei, toponimi, archivi, collezioni, spazi pubblici, in contesti storici e geografici differenti. La scuola ha promosso un approccio pluralistico, sensibile alle specificità di ciascun caso di studio e orientato a mettere in discussione la validità universale di una singola prospettiva critica.
La scuola ha riunito circa quaranta partecipanti provenienti da università, centri di ricerca e istituzioni culturali nazionali e internazionali. Il programma comprendeva una serie di keynote lectures con interventi di Christian Greco (Museo Egizio di Torino), Nicholas Mirzoeff (New York University), Giulia Albanese (Università di Padova), Jessica de Abreu e Mitchell Esajas (The Black Archives) e Alessandro Petti (DAAR). È stata inoltre organizzata una tavola rotonda dedicata alle pratiche attiviste e decoloniali in Italia, che ha coinvolto Luca Cinquemani e Fabio Aranzulla del collettivo Aterraterra, Mariana Califano e Jadel Andreetto di Resistenze in Cirenaica, Chiara Damiani del progetto AMIR, Giulia Riva della Libreria GRIOT, e Justin Randolph Thompson di Black History Month Florence e The Recovery Plan. A questi momenti si sono affiancate sessioni di discussione collettiva, proiezioni di videoarte e attività sul campo.
E.: Ricordo che fra le attività sul campo ha avuto un’eco forte a Lucca – dove anche io sto svolgendo un dottorato – il trekking urbano che avete organizzato con il collettivo Resistenze in Cirenaica.
Si, decisamente. Uno dei momenti più significativi della scuola è stato il trekking urbano, organizzato in collaborazione tra la Scuola IMT e Resistenze in Cirenaica, e rivolto sia alle partecipanti della Summer School sia alla cittadinanza lucchese. Il percorso ha toccato quattro casi di commemorazione pubblica connessi alla costruzione dell’identità nazionale italiana in epoca coloniale e fascista: Il Faro della Vittoria, monumento dedicato ai caduti della Prima Guerra Mondiale ed eretto durante il fascismo, che riflette l’ideologia di regime; l’odonimo dedicato a Luigi Varanini, militare decorato per la campagna di Libia; il busto di Carlo Piaggia, esploratore e geografo che ha compiuto numerosi viaggi nel continente africano nella seconda metà dell’Ottocento; e il bassorilievo di Carlo del Prete, aviatore mitizzato dal fascismo. Le narrazioni proposte durante il trekking si sono basate su una ricerca condotta da un gruppo di ricercatrici della Scuola IMT, mentre la metodologia del trekking urbano è quella del collettivo Resistenze in Cirenaica.
E.: E poi, se non sbaglio, proprio quella Summer School a Lucca ha segnato anche l’inizio dell’Italian Chapter dell’Association for Critical Heritage Studies, giusto?
G.: Esattamente. All’interno di questa esperienza è nato l’Italian Chapter dell’Association for Critical Heritage Studies, che ho co-fondato insieme a Francesca Leonardi e a Giulia Avanza, ricercatrice e partecipante alla scuola. Il capitolo si propone di promuovere un approccio critico e transdisciplinare allo studio del patrimonio culturale in Italia, creando una piattaforma di confronto tra persone impegnate nella ricerca accademica, pratiche artistiche e attiviste. Attualmente coordino il capitolo insieme a Francesca e Giulia.
Il primo evento pubblico del capitolo si è svolto nel 2024 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, coinvolgendo trenta studiose e practitioners attive in Italia. In quell’occasione abbiamo presentato i risultati di una mappatura nazionale delle pratiche critiche sul patrimonio e condiviso un primo documento di navigazione, pensato come base teorico-metodologica per tracciare il campo degli studi critici sul patrimonio in Italia e orientarci nella costruzione di future alleanze.

G.: Emanuele, ad IMT avevamo già avuto degli scambi sul tema e sulle nostre ricerche – accademiche, curatoriali, artistiche – in quel contesto, ma è stato solo in un secondo momento che ti ho introdotto al lavoro di Laura e lì quelle ricerche hanno cominciato a intrecciarsi ancora di più. Non ricordo nemmeno bene quando sia successo di preciso… mi sembra quasi che tu ci sia sempre stato! (ride)
E.: Io invece ricordo un pochino di più (ride), però capisco quello che intendi, a volte alcuni dialoghi sono così assodati da rendere difficile rintracciarli nel tempo. Mi sono trovato a scrivere su My Fascist Grandpa e A Difficult Heritage: Visions from the Family Archive in un momento segnato da una ricorrenza che, fin dal 7 gennaio 1978, si configura come uno dei più controversi e persistenti esempi di celebrazione apologetica del Fascismo nella memoria pubblica italiana. Mi riferisco alla commemorazione di Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni, militanti del Fronte della Gioventù — organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano (MSI) – Destra Nazionale — uccisi nei pressi dell’ex sede romana del partito, nel quartiere Tuscolano. Quartiere che, peraltro, ho abitato per un breve periodo della mia vita. Tale commemorazione, nota come “Acca Larenzia” dal nome della via in cui si trova tuttora la sede del MSI e dove avvenne l’omicidio, richiama ogni anno centinaia di persone che si radunano nella piazza antistante.
Il 7 gennaio 2024, mi trovavo dunque a riflettere sulle immagini relative al passato coloniale italiano provenienti dall’archivio privato di Laura, mentre, simultaneamente, i miei dispositivi — televisione, computer portatile e cellulare — si popolavano di scene che ritraevano uomini e donne vestiti di nero, disposti in formazioni rigidamente ordinate, intenti a rievocare con gesto netto il saluto romano. La presenza di quelle immagini rendeva improvvisamente più attuali e cariche di significato le fotografie scattate circa un secolo prima, appartenenti al patrimonio visivo e al bagaglio memoriale di Laura. È stato proprio in quel frangente che ho iniziato a considerare la fotografia come uno strumento privilegiato per accedere a una memoria storica complessa, parte integrante di quel difficult heritage che non si esaurisce nella dimensione architettonica o geografica di luoghi come Acca Larentia o Borgo Rizza — spazi che mantengono ancora oggi le tracce materiali della loro origine e funzione nel contesto del regime fascista — ma si estende anche al patrimonio fotografico, tanto vernacolare, quanto professionale. Questo insieme eterogeneo di immagini testimonia il profondo e duraturo legame tra l’Italia e la sua storia coloniale nel continente africano, rivelando quanto tale eredità sia ancora poco interrogata e spesso rimossa dal discorso pubblico nazionale. Ciò che spesso viene oscurato dal peso preponderante della narrazione relativa agli anni del regime è il ruolo centrale e continuativo esercitato dall’Italia in quanto potenza coloniale ben prima dell’avvento del Fascismo. L’occupazione dei territori africani e la violenza sistemica esercitata sulle popolazioni locali si protrassero, infatti, per diversi decenni, delineando una storia coloniale che coinvolge l’Eritrea, la Somalia, la Libia e l’Etiopia fin dalla fine dell’Ottocento.
L.: Infatti quando ci eravamo sentiti in quel periodo tu mi hai raccontato della tua ricerca accademica più ampia sul ruolo della fotografia come tecnologia/dispositivo coloniale che si collegava perfettamente con quello che stavo facendo io in quel momento!
E.: Sì, in quel momento avevo iniziato a interessarmi della strumentalizzazione del corpo femminile attraverso il linguaggio testuale e visivo maschilista che caratterizzava le riviste fotografiche ottocentesche. In questa ricerca avevo incontrato alcune immagini scattate nelle colonie italiane in Africa. Così, partendo dal tuo lavoro e dalla ricerca di Ginevra, e procedendo a ritroso nell’analisi delle fonti, ho constatato come la macchina fotografica assuma fin dalla fine del XIX secolo un ruolo privilegiato nell’indagine dei territori africani, delle loro popolazioni e, parallelamente, nella costruzione visiva e simbolica di un’identità coloniale italiana. La fotografia si configura, in questo contesto, non solo come strumento documentario, ma anche come mezzo ideologico, funzionale alla legittimazione del progetto imperialista e alla diffusione di una narrazione egemonica volta a rappresentare l’Africa secondo le coordinate del dominio e dell’esotismo.
Un esempio emblematico è rappresentato dal Bullettino della Società Fotografica Italiana, rivista fondata nel 1889 e attiva fino al 1914 con l’obiettivo di documentare e divulgare gli sviluppi tecnico-scientifici e artistici del mezzo fotografico. Fin dai suoi primi numeri, il periodico testimonia un interesse marcato, da parte di fotografi ed esperti del settore, per i territori coloniali che l’Italia andava acquisendo proprio in quegli anni. Le immagini e i resoconti pubblicati, per molti versi simili a quelli del tuo archivio familiare, offrono non solo una rappresentazione visiva dell’espansione imperiale, ma anche un’indicazione del ruolo attivo che la fotografia ha avuto nel promuovere e legittimare l’impresa coloniale. Già nel primo numero infatti viene sottolineata, citando la Società Africana d’Italia, la necessità di «[…] servirsi della fotografia nelle vaste ed inesplorate regioni dell’Africa: se il genio e l’attività italiana si spingeranno fino a farci conoscere quelle terre ignorate, forse ci saranno dischiusi de’ beni finora insperati; in ogni modo si avrà una nuova prova dei meriti degli italiani rispetto a quelli delle altre nazioni» (Golfarelli, 1889, p. 175).
Carlo Gastaldi, solo per fare un nome, tra gli altri, membro del Consiglio di Redazione, diviene ben presto una figura di riferimento all’interno del Bullettino della Società Fotografica Italiana, distinguendosi per la sua capacità di affiancare alla produzione fotografica una scrittura descrittiva che accompagna le immagini con testi esplicativi. Attraverso i suoi articoli, Gastaldi si dedica a rappresentare le popolazioni colonizzate, contribuendo alla costruzione di stereotipi etnografici funzionali al discorso coloniale. In particolare, le sue descrizioni — connotate da marcati tratti razziali e sessisti — concorrono a delineare figure archetipiche della “donna africana”, trasformando i soggetti fotografati in “tipi”, funzionali alla visione gerarchica e paternalista propria dell’immaginario imperiale italiano. Ecco, dunque, che nella rivista compaiono la “donna Tigrina”, definita come «[…] sensualissima e facile alla corruzione» (Ivi, p. 19), “la donna Abissina”, descritta come «[…] molto più bella delle altre di razza differente ma meno bella delle poche Bilene» (Gastaldi, 1895a, p. 18), i “tipi Habab”, infine, presentati come «[…] leggiadre e graziose, però siccome conducono una vita molto faticosa e nello stesso tempo immorale, ben presto si sformano e divengono orribili» (Gastaldi, 1895b, p. 36).
G.: Mi sembra che, partendo da un contesto storico molto preciso, tu sia riuscito a tracciare un arco critico che collega la funzione ideologica della fotografia ottocentesca al lavoro di rilettura attivato da Laura. In che modo, allora, il suo gesto artistico ha influenzato la tua modalità di osservare e interrogare quelle fonti visive del passato?
E.: Il lavoro di Laura mi ha permesso di risalire, dalle immagini dell’oggi, alla fotografia ottocentesca — periodo che costituisce anche il fulcro della mia ricerca accademica — per avviare un’indagine che mi permettesse di rileggere fonti fotografiche problematiche con l’intento di indagarne gli immaginari. ll suo archivio familiare, segnato dalle tracce visive dell’occupazione dei territori africani, si pone così come punto di avvio per una possibile ricostruzione storiografica che parta dalla fotografia ottocentesca, intrecciando fonti iconografiche e testuali, immagini vernacolari e ufficiali. Il gesto artistico di Laura, nel tentativo di interrogare criticamente la memoria privata e nazionale attraverso l’immagine, suggerisce un possibile spazio di convergenza tra ricerca visuale e memoria: quello in cui la fotografia cessa di essere documento e diventa strumento di disvelamento e acquisizione di responsabilità politica da parte di chi guarda un’eredità difficile.
Bibliografia
Carlenzi E., A Difficult Heritage. Visions from the Family Archive. Vernacular photography as a mean of self and collective analysis, Nero Editions, Roma, 2024.
Gastaldi C., Donna Tigrina (Tebè), in «Bullettino della Società Fotografica Italiana», Anno VII, Dispensa 1, Firenze, 1895, p. 18.
Gastaldi C., Tipi Habab, in «Bullettino della Società Fotografica Italiana», Anno VII, Dispensa 2, Firenze, 1895, p. 36.
Golfarelli I., La fototopografia e il nostro Istituto Geografico Militare, in «Bullettino della Società Fotografica Italiana», Anno I, Dispensa 10-11, Firenze, 1889, p. 175.
Macdonald S., Difficult Heritage. Negotiating the Nazi Past in Nuremberg and Beyond, Routledge, Londra, 2009.
Stoler A. L., Duress: Imperial Durabilities in Our Times, Duke University Press, 2016
Emanuele Carlenzi è storico della fotografia, dottorando presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca e visiting scholar presso la Birkbeck University of London. La sua ricerca si incentra sulla storia e la teoria della fotografia artistica italiana, con particolare attenzione alle esposizioni fotografiche tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Insieme al gruppo di ricerca LYNX della Scuola IMT, sta portando avanti attività di studio, catalogazione e valorizzazione del materiale conservato presso l’archivio personale della scultrice Fiore De Henriquez (1921-2004) a Lucca. Si interessa parallelamente dei rapporti tra fotografia e movimenti di liberazione omosessuale italiani.
Laura Fiorio è un’artista che lavora con la fotografia, la performance e le pratiche relazionali. I suoi progetti interagiscono con gli oggetti d’archivio, mettendo in discussione le dinamiche di potere che affiorano con la creazione di memorie, esplorando il loro uso politico ed il loro potenziale critico e trasformativo. Nella sua pratica, facilita narrazioni collaborative intrecciando storie intime e istituzionali, eredità personali e collettive.
Nel 2025 è Talent per Futures Platform, selezionata dalla Triennale di Fotografia di Amburgo sotto la direzione artistica di Mark Sealy. Inoltre, è Archivo Lab fellow 2025 e invited resident artist presso IASPIS.
Ginevra Ludovici è curatrice indipendente, storica dell’arte e dottoranda presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Ha collaborato con numerose istituzioni culturali, tra cui Real Academia de España (Roma), Inland (Madrid), Fondazione Giuliani (Roma), MACTE (Termoli) e Galerija Remont (Belgrado). Ha tradotto in italiano Education for Socially Engaged Art di Pablo Helguera e Joseph Beuys di Claudia Mesch per Postmedia Books. Nel 2024 ha ricevuto la borsa di studio per il sostegno a progetti internazionali di ricerca da parte dell’Italian Council, promosso dal Ministero della Cultura italiano. È co-fondatrice del Capitolo Italiano dell’Association for Critical Heritage Studies.