§Adolescenze
Adolescenze perturbanti nell’Adultocene.
Ricordi al futuro per un’educazione transgen(d)erazionale
di Alessandro Tollari

a Elio

«Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmitá, di caso, di violenzia ed in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo; quante cose bisogna concorrino nello anno a volere che la ricolta sia buona; non è cosa di che io mi maravigli piú, che vedere uno uomo vecchio, uno anno fertile».
Francesco Guicciardini

Del frammento. Se potessi, elaborerei una teoria: un sistema complesso e completo che si dispone di fronte allo sguardo. Ma qui ci misuriamo con lallazioni, frammenti indecifrabili, sguardi periferici, collassi provvisori.

Elio

Della transizione. L’adolescenza, l’adolescente 
il processo (e la persona che lo vive) di raggiungere l’adultità, di farsi adulto. Participio presente vs participio perfetto. Processo vs prodotto. Come se lɜ si potesse definire non per quello che è, ma per quello che sarà (che potrà/dovrà/vorrà essere?). La freccia e il bersaglio, l’atto del disegnare e il modello da osservare. Una condizione negativa: non più bambinǝ e non ancora adultǝ. Una figura trans, corpo metamorfico tra l’infanzia e l’adultità. Quanto duri, questa adolescenza, quale sia il punto di avvio e quello di conclusione, varia secondo le epoche, le norme, le culture, le economie, le traiettorie personali. Comune è l’esigenza di una definizione: un contenimento di questo processo potenzialmente uncanny, perturbante, accettabile solo in virtù della sua teleologia (e in effetti preferiamo concentrarci su crescita, sviluppo, progresso, che ci sembrano cose buone e giuste e meritevoli di sforzi). La soddisfazione del piccolo che si incammina a farsi grande. La rassicurazione insita nella parola ometto. Quasi tuttɜ ricordano il confronto tra due altitudini memoriali: quando si era fisicamente inferiori all’altezza delle figure adulte, e poi, con un salto, si è diventati altɜ uguali, o di più.  Per contrappasso, a scuola, da insegnante, talvolta ho avvertito, nel volgere del tempo tra i 14 e i 19 anni, questo silenzioso, quasi minaccioso, agonismo dei centimetri.

Del modello e dell’incertezza
Partiamo dal fondo. Da uno zoom all’indietro: entriamo a scuola dal tubo di scarico. Siamo in un bagno. Un bagno oggetto di dibattito. Andrebbe forse reso libero da determinazioni di genere? Questo il quesito al consiglio di istituto. E inoltre: vogliamo riconoscere la carriera alias? La questione ha origine da un caso concreto, una reale persona adolescente. Lɜ adultɜ decidono di non decidere. Perché la promiscuità nei bagni. Perché di queste cose non me ne intendo. Perché e se poi cambia idea. Perché sono cosa da ragazzɜ. Perché per decidere ci va un modello: un buon tempo antico, un’abitudine cieca, una certezza scientifica. E loro, lɜ adultɜ, i tedofori dell’ideale – con la solidità dei lavori un po’ più fragili del dovuto, delle relazioni un po’ più tristi dell’auspicato, di una sapienza un po’ troppo arretrata, di un potere un po’ troppo piccino – sono statue immobili, calchi di gesso. Meglio prendere tempo, o meglio perderlo: perché intanto è vita che scorre. Che fine abbia fatto questa questione, questa persona, non lo so. So che la catena fordista, che vorrebbe che la vita scorresse linearmente da studio a lavoro a tempo del riposo, andrebbe messa in forse: tra adolescenti che non studiano e non lavorano, anzianɜ che vorrebbero ancora lavorare, e lavoratorɜ che dovrebbero tornare a studiare, prendere in mano le carte, rimescolarle.

Del tempo e della soglia 
Giunto nel mezzo del cammino, rivolgo lo sguardo all’esperienza della scuola, ed essa mi appare una litografica selva scura, un palinsesto di banchi e sedie e aule e corridoi, fisso negli anni; ma una tormenta carica di pioggia spalanca le finestre, un vento di immagini in sovrimpressione: studentɜ piccolɜ e che si sono fatti grandi (sono loro lɜ adolescenti, io non più), ex-docenti diventatɜ colleghɜ, studentɜ che si accingono a insegnare, bidellɜ e presidi che invecchiano e vanno in pensione, compagnɜ di classe ora genitori di possibili futurɜ studenti. Volti dapprima ignoti sono diventati presenze familiari: si sono impressi in una sola immagine cristallina, o hanno proiettato una moviola di tagli di capelli, accenni di barba, trucchi, rughe. Un archivio di nomi, alcuni indelebili, incisi nella rubrica del cuore, altri dimenticati o mai imparati, ridotti a un saluto incerto nell’incontro avventizio per strada. La scuola è un ingorgo di kronos e kairos: uno sprofondare nell’abisso, una mise en abyme di quello che c’è intorno: di quello che siamo. Forse l’istituzione educativa, che si lamenta troppo separata dalla società, dovrebbe esserlo al contempo di più e di meno. Come una black box teatrale (o di aeroplano schiantato) dovrebbe stare bene a parte, per poter aguzzare lo sguardo teso sul mondo e criticarlo senza miopie. Come un white cube di museo, dovrebbe stare in guardia con se stessa, riconoscere che quelle sedie e banchi – e la stessa parete bianca, con ancora  l’ombra di un crocifisso rimosso da poco – non sono neutri, ma raccontano di possibilità e limiti del racconto stesso. Sono specchi occidentali, acque di colonia rifrangenti, che si avvicinano al nostro volto narciso: già risalgono oltre la soglia di guardia del Mose, e trascinano via le sedie e i banchi, accatastati nei fanghi di Romagna.

Della parola 
L’adolescente si allontana dalla condizione di infante (ossia infans, muto, privo di parola-logos, di un sapere-potere appannaggio dello spirito adulto). Non è più bambino: stessa etimologia onomatopeica di balbettamento e di bambola. Pinocchio è un pezzo di legno che a un certo punto parla.  A casa, i genitori si preoccupano per le difficoltà di parola nella prima infanzia. A scuola, il grido “silenzio!” cerca di riportare all’ordine il brusio. A scuola, l’interrogazione, la scena muta. A casa, cresce con l’età il diverbio-polemos. Quando questa parola adolescente viene riconosciuta come degna, autrice, arrecatrice di un valore nel mondo? “Quando sarai grande…”: quando sarai persona, una maschera fatta per un pubblico, la voce che la attraversa. Ora sei ancora in un kantiano stato di minorità, che peraltro devi imputare a te stessǝ. Sei a metà strada, insomma. Nelle loro villae, i padroni romani distinguevano tra instrumenta muta, vocalia e semivocalia. Nell’ordine: gli attrezzi, gli schiavi e gli animali. Che l’antispecismo possa aiutare lɜ adolescentɜ a ottenere qualche diritto?

Del silenzio 
Cronaca nera. Qualche tempo fa, a Roma, è successo un terribile incidente. Un gruppo di giovani influencer ha noleggiato un Suv per fare delle riprese, e ha travolto un’utilitaria su cui viaggiava una famiglia. È morto un bambino piccolo. L’innocenza, la strage. In uno dei giorni successivi, osservavo un canale della Rai. Si parlava della tragedia. Uno spettacolo: nelle motivazioni e nelle conseguenze, nei video caricati online e nel programma che li rilanciava e commentava. Per poi allargarsi al grande tema: la condizione dɜ giovanɜ d’oggi, degeneratɜ. Era mattina, in studio conduttori adulti ed esperti anziani, come, si presume, il pubblico a casa. Parlar dɜ giovanɜ senza ɜ giovanɜ. Se l’intersezionalità ci ha insegnato qualcosa, possiamo parlare di senexplaining. Ancora cronaca nera, nerissima. Un treno tra Caserta e Foggia, un signore anziano, di una famiglia potente, che evidentemente rimpiange la sua dolce vita. E intanto osserva dɜ giovanɜ che vanno al mare, e non lo salutano, non gli parlano. Loro con i tatuaggi e il telefono e i vestiti non di lino. Così diversɜ, così disturbanti, così alienɜ.  Lui non ci parla, ma scrive di loro, carico di un disprezzo che nel mondo anglofono chiamano youthism. E altrɜ scrivono di quel che lui ha scritto di loro. Di loro non sappiamo nulla. Rimane muta, chiusa nella cartella di pelle, la Ricerca del tempo perduto di Proust che lui dice di star leggendo. Un tempo trascorso, il suo. Un tempo perso: quello di un non-incontro, di bolle social che non scoppiano.

Della tradizione e del tradimento 
Forse naturale è, semplicemente, tutto ciò che ci è dato nel momento in cui siamo gettati nella vita, o poco dopo. Tutto ciò che arriva in seguito, e necessita di un apprendimento cosciente, è cultura. Andri Snaer Magnason, nel suo libro Il tempo e l’acqua, si interroga su come avvicinare due temporalità: quella dello scioglimento dei ghiacciai, in Islanda come in Tibet, e quella della vita umana. A un certo punto, osservando una fotografia di sua nonna centenaria e di sua figlia, realizza che anche quest’ultima potrebbe diventare centenaria, e incontrare una futura nipote altrettanto longeva. Trecento anni, un arco di diretta co-presenza cellulare, di staffetta corporea. Gli si potrebbe obiettare che questo discorso dovrebbe superare i limiti di una stretta visione genealogica, che il nostro albero è un insieme di innesti fatti da persone care, al di là del sangue, e animali, tecnologie, prodotti chimici, paesaggi, voci, documenti: un’osmosi fisica che ci precede e supera, ci informa e travalica. Forse per questo la preoccupazione climatica – per l’estinzione – ha preso corpo di uno sciopero contro la scuola, nei Fridays for future. Perché a un certo punto ci si è accorti che questa istituzione – fatta da poeti nazionali e disequazioni, meridiani di Greenwich e sveglie presto, piselli di Mendel e flessioni, canoni e censure – è un’agenzia per la trasmissione della legacy, di un’eredità: che però al contatto col mondo si rivela inadeguata, un testamento pieno di omissis, falsificazioni, debiti. La tradizione disvela un tradimento. Tra i tanti volti dell’Antropocene, ve ne è uno connesso all’ingiustizia intergenerazionale. Guardati intorno, questo è il mondo che ti lascio, ascoltami nonostante le microplastiche nelle orecchie: benvenutǝ nell’Adultocene.

Dell’energia 
Se il corpo da poco generato è classicamente puer/pais (connesso all’idea di portare, partorire, a opera di una puerpera) ed è quindi visto come frutto di azione di altrɜ, l’essere giovane, la gioventù (idem nel germanico, es. l’inglese young) si connette all’idea di una esuberanza, di un di più di potenza: un’espressione gioiosa, che può esprimersi nel giubilo, nella giovialità, nel gioco. Un surplus marxiano che può giovare al mondo adulto: può essere messo al lavoro, come nel caso del ragazzo (dall’arabo raqqāṣ, fattorino, corriere) o del giovane servo o aiutante, fisicamente riconoscibile dai capelli corti o tagliati (e il caso del toso in veneto, del muchacho/mozzo in spagnolo e italiano); ma possono essere usati anche nel servizio militare: tipicamente, il fanciullo deriva dal fante (che è la minore delle figure nelle carte di gioco, nonché il fantino nell’equitazione, e il fantoccio spaventapasseri); e ancora, il servizio oscilla tra il militare e il civile nelll’italiano garzone e francese garçon, a sua volta dal germanico (insomma, il “war son”, il figlio della guerra, lo scudiero). En passant: è una storia prevalentemente al maschile. La controparte femminile è una flessione morfologica, o, se si distingue lessicalmente, tende a rimanere nell’alveo della generatività (come nel francese fille) o della cura (come nel latino ancilla o nel tedesco Mädchen). Al massimo, femminile è la disincarnata pubertà (astratta, ché un riferimento più concreto al pube sarebbe osceno), o l’immagine politica della Giovine Italia, ragazza-madre(patria). In definitiva, il nesso gioventù-studio è un’invenzione recente, e tutto sommato fragile: la scuola si alterna volentieri col lavoro, e la leva obbligatoria può sempre tornare.

Della violenza e del futuro
È venuto al mondo Elio. Che avrebbe pure un secondo nome, Celeste. Una nana azzurra. Ne registro qui la nascita. Ma in che mondo è venuto al mondo? Mentre intorno si grida di famiglia tradizionale sotto attacco, crisi della natalità, sostituzione etnica, Elio, figlio di I., è natǝ senza padre nel senso classico (certo, c’è un collaboratore genetico), e si avvia a vivere delirando oltre i solchi del patriarcato, in una terra incognita sotto un firmamento di costellazioni affettuose mai viste: appena potrà camminare, taglierà inevitabilmente in modo obliquo, queer, la polis urbana, come tutti lɜ giovanɜ che, senza auto e con pochi soldi, si aggirano per le strade come cani randagi. Chissà se sarà tra coloro che fanno o che hanno paura. Chissà se frequenterà la scuola del potere, della produzione e del privilegio, che conduce de iure al massacro del Circeo; se seguirà un’educazione al fondamentalismo o al disagio psicosomatico, di cui si preoccupa Julia Kristeva; se andrà verso la dispersione scolastica, se avrà come unico orizzonte la dittatura del consumo, aggirandosi famelico in branco tra le palestre fatiscenti di Caivano o nelle chat tra i vicoli di Palermo. Chissà che cosa sapremo insegnargli, e che cosa riusciremo a disimparare, insieme. Presto ci incammineremo nel sole torrido dell’avvenire, tra i campi secchi. Ora, intanto, nella penombra di questa stanza, in questo lockdown post partum – noi, adultità sbeccate, post adolescenze ad libitum – possiamo tornare bambinɜ, immaginare nuovi giochi possibili, con la scusa che siano per lǝi, questo hikikomori in fasce, questa generazione omega, o forse – ma non nel senso del maschio – alpha.

Alessandro Tollari (Torino 1988) è docente di Lettere nella scuola superiore e ricercatore presso lo Iuav di Venezia in ambito transdisciplinare tra arti performative e pedagogie.