anno 10, n. 32 gennaio-aprile 2020 [ Violenza

Anno X, n.32, gennaio – aprile 2020
VIOLENZA

a cura di Viviana Gravano

La violenza è un tabù. Davanti alla violenza tutt* mostriamo indignazione, la giudichiamo riprovevole e la sanzioniamo come un’azione negativa. Una sorta di tacita convenzione fa sì che la violenza possa essere contrastata perché oggetto/azione da punire e reprimere. Giorgio Agamben nel suo saggio Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto [1], parla della cosiddetta Legge del Taglione, la legge secondo la quale a un sopruso, a un’ingiustizia, a una violenza appunto, si reagisce con una sanzione della stessa natura del crimine commesso. In altre parole, alla violenza si reagisce con una medesima forma di violenza. Ma la differenza è che la sanzione, essendo intesa come reazione a un’infrazione, si fa legge, si istituzionalizza e quindi diviene, non solo accettabile, ma giusta. Per dirla in maniera pratica, davanti a un pluriomicida si applica la pena di morte. A una violenza si reagisce con una violenza, ma la prima è una rottura della regola, la seconda è l’affermazione di una regola. Cioè due azioni identiche hanno però due statuti diversi: l’una è sanzionabile, l’altra è la sanzione.

Vorremmo dunque chiederci quale tipo di violenza è accettabile e quale no? Che grado di visibilità deve avere la violenza per essere sanzionabile? In che modo le forme di “contro violenza”, se violente, sono sanzionabili? Chi stabilisce quale forma di violenza è sanzionabile e quale è legittima? Chi resiste alla violenza di Stato usando la violenza, fa una violenza giusta o è comunque sanzionabile? Quando la violenza è di Stato, ed è quindi prodotta da chi dovrebbe avere il potere di sanzionare la violenza, questa diventa comunque legale, accettabile e non sanzionabile?

Occorre forse definire cosa intendiamo per violenza di Stato e provare a deciderne i limiti e la fisionomia. In primo luogo, la violenza di Stato è spesso invisibile o invisibilizzata. Cioè si presenta come necessaria, o addirittura come norma fondativa per il bene comune, o come necessaria per mantenere uno stato di pace per tutt*. Questa è una caratteristica di tutte le dittature che ad esempio adottano la tortura come strumento di dominio sugli oppositori, potendo poi sanzionare pubblicamente la violenza dei resistenti come crimine contro lo Stato. Dunque, in apparenza, lo Stato sanziona chi cerca di sovvertirne le regole, usando una violenza invisibile che è la causa della violenza evidente, ben visibile, dei resistenti. Durante le guerre d’invasione coloniale furono perpetrate violenze terribili contro i civili, ma nessuna cronaca ufficiale dell’epoca ovviamente ne dava conto, e ciò che invece appariva era la violenza innata, selvaggia e “naturale” di quelle popolazioni incapaci di dominare i propri istinti. L’immagine del colonizzato in Occidente è stata, per decenni, vicina a quella della belva feroce incapace di domare la propria indole violenta. Chi ha disegnato questa iconografia è lo Stato invasore, che ha imposto la propria presenza a un altro popolo con una violenza inaudita, ma invisibilizzata dalla missione civilizzatrice che diceva di compiere. Siamo abituati a considerare alcune aree delle nostre metropoli come off limits, perché violente. Ne abbiamo una percezione negativa, dominata dalla paura. Le consideriamo spazi inaccessibili perché temiamo per la nostra incolumità. Lo stato ha costruito ghetti, aree isolate senza servizi basilari per la sopravvivenza, dove ha spesso letteralmente deportato persone a bassissimo reddito, persone che hanno già compiuto reati e spesso con un grado di istruzione molto basso. In questa sua scelta si perpetra ogni giorno una forma di violenza sorda, data dalle privazioni, dalla mancanza di qualsiasi diritto e, cosa essenziale, dallo stigma di essere aree violente. Dunque, una invisibile violenza semantica che ha disegnato quelle aree di annullamento, sanziona e descrive come violent* chi le abita e le vive.

Ogni giorno milioni di bambin* nel mondo – o almeno nel mondo occidentale o occidentalizzato – entrano a scuola, sono costretti a stare seduti, sono obbligati ad ascoltare con una modalità di trasmissione del sapere violentemente verticale. Non è concessa loro nessun’altra possibilità e, questa imposizione violenta, sia da un punto di vista fisico che mentale, viene considerata come favorevole, necessaria e molto positiva per la loro crescita. Tra quet* bambin* alcun* sono iperattiv*, altri non si adeguano ai sistemi di scrittura e lettura imposti, altr* sono violent*. Il loro comportamento viene sanzionato, ora anche certificato secondo complesse forme di catalogazione. Quest* bambin* spesso sono isolat*, costrett* a seguire un percorso alternativo che li separa dai loro compagni e dalle compagne, medicalizzati, e viene imposta loro una persona che ha il solo incarico di farl* tornare alla regola. Una forma sommessa ma terribilmente invasiva di violenza viene considerata la migliore strada per aiutare i/le nostr* figl*, e se qualcuno di loro si ribella con “violenza” viene sanzionato. Possiamo continuare a elencare decine di esempi ma la domanda per questo numero di roots§routes magazine resta una sola: chi decide quale forma di violenza è sanzionabile e quale è salvifica?

[1] G.Agamben, Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, Bollati Boringhieri, 2017