a cura di Anna Chiara Cimoli e Maria Chiara Ciaccheri
Quello che il museo non dice perché non sa dirlo, non vuole dirlo, non ha gli strumenti per dirlo, non sa a chi farlo dire, non ha avuto il tempo di dirlo, lo dice altrimenti, lo dice solo agli specialisti, lo dice solo sottovoce, così piano che non lo sente nessuno.
Quello che non ha detto perché la società non era pronta per ascoltare. Quello che non ha detto perché non crede di doverlo dire o perché, all’interno delle istituzioni, voci più forti si oppongono.
Quello che il museo non ha ancora detto perché chiuso negli scatoloni, negli archivi, nei depositi: e allora, forse, è questione di tempo ed emergerà.
Quello che il museo non ha detto perché non esistono ancora gli strumenti per dirlo, o pratiche comuni cui fare riferimento: è il caso del trattamento dei resti umani, per esempio, alle varie latitudini e presso le diverse culture.
Il silenzio perché, semplicemente, era meglio delle parole.
Chi prende le decisioni, e come?
Quanta consapevolezza ha il museo del suo ruolo educativo e dello spazio che assegna a questo scopo?
Che rapporto ha con il concetto di “neutralità”?
Come si è formata quella collezione?
Chi ha scritto il catalogo, le didascalie, i testi di sala, e perché ha scelto quelle parole?
Quale orizzonte politico ha determinato questa acquisizione o quella vendita?
Quali rischi, se esistono, per una deriva del “politicamente corretto” e della partecipazione?
Se il museo è un’autobiografia – di una città, di un territorio, di una società – allora avrà buchi, omissioni, sarà violentato, manipolato, o solo imbellettato: e che spazio resta ai visitatori per bussare alla porta, chiedere giustizia dei coni d’ombra e dei silenzi? È qui che si apre lo spazio della protesta? E allora chi la organizza, e in nome di chi? E se non è la protesta, che forme può prendere questa interlocuzione, questa richiesta di mettere in circolazione documenti, fonti, informazioni; che metodi può applicare?
Nel film della Marvel Black Panther, Erik Killmonger, il supercriminale proveniente dal regno immaginario di Wakanda, di fronte a una vetrina che espone oggetti di arte africana al Museum of Great Britain chiede a muso duro alla curatrice (capelli rossi, accento britannico, perfino tailleur): “Da dove pensa che provengano questi oggetti?”. Lei, come un automa, cita paese e secolo. Killmonger incalza: “Come pensa che i suoi antenati se li siano procurati? Pensa che abbiano pagato un prezzo equo? O semplicemente se ne sono appropriati, come di tutto il resto?”. La curatrice non fa una bella fine.
La “museum scene” di Black Panther, pur nella sua schematicità un po’ caricaturale, è diventata un’icona del movimento Decolonize Our Museums, che anima forme di protesta e occupazione in nome di una rappresentazione equa, rispettosa e plurivocale delle culture rappresentate al museo (una delle più recenti è quella al Brooklyn Museum, a seguito dell’assunzione di una curatrice bianca come responsabile della sezione di arte africana).
Mentre il Senegal preparava l’inaugurazione del Musée des Civilisations Noires di Dakar, avvenuta il 6 dicembre 2018, in Francia il Rapport sur la restitution du patrimoine culturel africain firmato da Felwine Sarr e Bénédicte Savoy esplodeva come una bomba in un sistema totalmente impreparato al contraccolpo della critica post-coloniale, come ben avevano dimostrato qualche anno prima le vicende legate all’istituzione del Musée National de l’Historie de l’Immigration di Parigi. Altre istituzioni europee, come l’Africamuseum di Tervuren in Belgio, il Tropenmuseum di Amsterdam o il Grassi di Lipsia, hanno condotto profonde e radicali riletture delle proprie posture, sia attraverso un nuovo allestimento che attraverso l’innesto di pratiche performative, critiche, dialogiche. Parallelamente, tuttavia, la protesta è in mano ai cittadini: in Inghilterra, la storica dell’arte Alice Procter conduce i suoi Uncomfortable Art Tours in vari musei londinesi, fra cui il British Museum e la National Gallery, portando a galla coni d’ombra, vicende coloniali silenziate, omissioni e riscritture della storia. A dicembre si è svolto al British Museum lo Stolen Goods Tour: una visita non autorizzata sulle tracce di tutte quelle vicende di appropriazione coloniale, predazione e mancanza di riconoscimento che punteggiano la storia del museo. La visita ha previsto una serie di stazioni animate dal racconto di artisti, attivisti, cittadini che hanno preso la parola, in varie forme, in corrispondenza di oggetti o opere legate alla vita loro o della loro cultura di appartenenza.
I tropi comuni a queste forme di protesta affondano le radici nella tradizione popolare, e sono l’occupazione dello spazio antistante l’ingresso che lo ridisegna e ne segna una nuova soglia, quella dello spazio dell’atrio come “piazza introflessa”, la riconoscibilità anche grafica dei codici visivi (la scelta dei colori, il formato dei cartelloni o degli striscioni, l’abbigliamento…), l’uso del megafono e o del microfono. Da qui la visibilità sui canali di comunicazione digitali, in cui vengono diffusi manifesti, fanzine, linee programmatiche.[1]
La consapevolezza di queste azioni si colloca il più delle volte nelle specificità del contesto (storico, culturale, politico) dei paesi coinvolti: e se in alcuni, come in Italia, portare esempi di equità ed attivismo offre uno stimolo verso pratiche e riflessioni orientate da giustizia e legittimità civile ancora tutte da esplorare, altrove pare spontaneo interrogarsi sulle possibili derive conservatrici in cui questo stesso approccio può incorrere. Perché se da un alto, per esempio, l’uso di un vocabolario e di scelte “politicamente corrette” appare necessario, dall’altro certi desideri di rivalsa, quando aggressivi e censori, rischiano di minare e contraddire la propensione a un dialogo costruttivo.
Proteste animate da intenzioni democratiche che hanno sortito esiti reazionari: è il caso dell’abbattimento di alcuni monumenti dei confederati statunitensi (senza che venissero articolate interpretazioni multiple) o, spostandoci sul piano delle rappresentazioni di genere, quello della Manchester Art Gallery che ha recentemente rimosso l’opera preraffaellita di John William Waterhouse, Hylas and the Nymphs, perché raffigurante una giovane ninfa nuda.
I paradossi e le contraddizioni sono molteplici. Perciò il secondo numero di roots§routes del 2019 è dedicato a tutte quelle storie taciute, piccole o grandi, che hanno sagomato il profilo dei musei come li conosciamo, nei loro pieni e nei loro vuoti.
Questioni di potere, liceità e opportunità, che sono forse più evidenti nell’ambito degli studi post-coloniali che ma che vanno al di là di quella cornice. Si tratta, infatti, di articolare nuove modalità di confronto, interno ed esterno, affinché la diversità (quale che sia) possa essere compresa e rappresentata in modo complesso.
Ci sono stati silenzi consapevoli e colpevoli, altri dettati dalle vicende storiche delle collezioni sullo sfondo del contesto socio-politico di una certa epoca, altri ancora dovuti all’indisponibilità delle fonti. Silenzi di parole, di metodi e di pratiche. Questi vuoti hanno toccato i livelli della curatela, della documentazione e della scrittura, delle pratiche educative e relazionali, dell’autorappresentazione del museo, della scelta di quale pubblico avere (o non avere) nelle sale, della leadership e della gestione, della relazione con il contesto, e di molto altro ancora.
Ci sono, forse, non-detti poetici, interruzioni di una serie, piccoli stacchi o semplici pause, che magari sono anch’esse musica.
Tutte storie da ascoltare, parole da allineare, vicende da portare a emersione: sembra il momento propizio per farlo.
[1] Per esempio la Guide to Indigenous Land and Territorial Acknowledgements for Cultural Institutions pubblicata da Decolonize this Place. Cfr. il volume a cura di Ilaria Favretto e Xabier Itcaina, Protest, Popular Culture and Tradition in Modern and Contemporary Western Europe, Palgrave Macmillan 2017.