§Adolescenze
Ascoltando adolescenze, tra qui e altrove
di Paola Gandolfi e Ivo Lizzola

Siamo stati chiamati a pensare, accompagnare, porre domande intorno ad un progetto che un’associazione culturale, La Porta [1], di Bergamo ha promosso e realizzato tra la primavera 2022 e l’estate 2023 in due istituti superiori della città abitati da un gran numero di studenti e studentesse di origine di altrove, o figli e figlie di migranti. La finalità era, per tutti gli alunni e le alunne che lo desiderassero, di creare occasioni – attraverso laboratori di scrittura autobiografica e laboratori di produzione artistica (musica rap) e video – per esprimersi, narrare i propri vissuti, conoscere reciprocamente il proprio sentire.
Le note che seguono, concepite come una conversazione, provano a riflettere sul significato del provare ad ascoltare le voci e i silenzi di queste adolescenze [2].

Come succede tutte le volte che si apre un cammino, che si fa una proposta in ascolto di quel che avviene, in modo tale che la realtà che si desidera incontrare abbia spazio e modo di emergere un poco e di venire a noi, alla fine ci si è trovati in un posto dove non ci si aspettava di trovarci, a dimostrazione che si può provare un fare in ascolto, un fare che fa spazio e apre tempi che le persone sentono come (anche) propri. Occorre essere capaci di un fare non performativo, di una proposta aperta. Un fare che ha i caratteri di un fare avvenire.
Ciò che allora avviene non è certo compiuto, non è consolidato, non produce un cambiamento radicale: piuttosto avviene qualcosa di nuovo, di significativo. Si può invitare e indicare, offrirsi e appoggiare sguardi ed ascolti. Ciò che avviene, soprattutto, va ben osservato, va colto in “domande meravigliate”, come direbbe Maria Zambrano, e non in domande scontate, come sono quelle analitiche, che troppo cercano e inducono controllo e adeguamento (Zambrano, 2008). 

Quasi che questo “fare in ascolto” non performativo, finanche incerto, sia stato un poco provare nel piccolo cosa significhi ospitalità reciproche e riconoscimenti senza retorica. Un darsi tempo e spazio per ascoltare e narrare storie- o anche solo frammenti di esse – biografie, vissuti – talora sussurrati, annuvolati – anche erranze (e le erranze portano talora in posti non noti).  Per ripartire da un’idea e una pratica di ospitalità che sia, come la chiamava Edmond Jabés, “un crocevia di cammini” (Jabés, 2017).  E quindi anche attraversamenti di piccoli deserti (anche nel mezzo del centro urbano che tutti i giorni si attraversa o del tragitto tra casa e scuola), di profonde solitudini, di grandi e lunghi silenzi, di luoghi del limite, esitazioni tra il dicibile e l’indicibile.

La percezione di sé e i racconti, anche le rappresentazioni e i giudizi sulla vita e sul mondo che hanno presentato nei testi e nelle canzoni rap i gruppi delle adolescenti e degli adolescenti incontrati sono stati interessanti, spesso sorprendenti; anche molto lontani dalle rappresentazioni adulte, da alcune retoriche correnti, da interpretazioni sociali diffuse. Gruppi plurali, pieni di differenze, di diverse origini e percorsi. Dalle appartenenze intense e libere, fuori dai confini.
Richiamano a una capacità e una necessità di ascolto forte, a una disponibilità a operare sospensione di giudizio e capacità recettiva, a esprimere accoglienza del non ancora colto, del non previsto. Cercando di non finire di capire, di tenere aperto il sentire, di esporsi, e lasciar tempo.
Specie incontrando giovani donne e uomini che entrano nell’incontro con i loro vissuti in relazione viva, fatta di avvicinamenti e prese di distanza.

Sono adolescenti e adolescenti che ci spiazzano, ci chiedono (senza nemmeno dirlo) di sospendere il giudizio, di mettersi in cammino per un piccolo tratto di strada o di tempo con loro. Ci chiedono di guardarli, ascoltarli. Non necessariamente capirli.  E alla fine il tempo di un laboratorio è il tempo di provare a far riflettere studenti e studentesse (ed educatori ed educatrici ma poi anche studenti/studentesse e docenti) intorno a cosa significhi “noi” e quali siano le tante declinazioni del noi ed esclusione dell’altro. Si scoprono appartenenze identitarie molteplici, stratificate e troppo spesso fissate con rigidità dentro a confini e binomi oppositivi. Un fissare e immobilizzare l’altro che è molto rischioso: un’eredità non indifferente del discorso coloniale è proprio il concetto di “fissità” nella costruzione ideologica dell’alterità (Bhabha, 2001).
Nel tempo dello stare laboratoriale, del fare insieme, del fare in ascolto e del fare in divenire, il tentativo è quello di costruire una relazione educativa in una realtà plurale. Nella quale diventa essenziale il lavoro di riconoscimento del sistema di legittimazione della “nostra” narrazione del mondo, così sofisticata da farci credere che la nostra visione sia naturale invece che culturale o parziale. E diventa essenziale riconoscere etichette, categorizzazioni, classificazioni (di genere, generazionali, razziali, ecc.). Attraverso una rima in una canzone o una frase in un testo si evocano ferite o fatiche che sono portate sui corpi e che sono esito di processi di classificazione ed omologazione e quindi di esclusione. E il tentativo è quello di rispondere a questo, proprio nel corso di quello spazio-tempo che il laboratorio offre, con trame di relazioni.
Il laboratorio, il gruppo classe, il video stesso esito del lavoro insieme, rispondono da sé con l’eccedenza dei punti di vista dei corpi coinvolti in una “creolizzazione” (Glissant, 1990) che inevitabilmente emerge, si rende visibile e che resiste alle logiche dell’uniformità. E che ci si presenta semplicemente dinanzi. Si rende visibile. Si fa corpo. Corpi. Senza domande, senza richieste. Se non quella di sospendere il giudizio, il confinamento, la riduzione, l’etichettamento. Senza domande, se non quella di esserci, di poter essere visibili.
Solo alla fine del percorso laboratoriale talora i corpi si fanno anche voci, corpi non più solo visibili, con diritto di essere visti, ma anche udibili, con diritto di essere ascoltati, con diritto di parola. Senza che questo passaggio dal corpo visibile al corpo udibile sia scontato e senza che per molti sia necessario.
A volte, reclamando silenzi. A volte, aprendo a situazioni o narrazioni inedite, sorprendenti.

Proporre ed entrare nel gioco in esperienze come questa è trovarsi a decostruire e a lasciare molte categorie, molti pensieri e molte parole incapaci di cogliere la forma della vita che cerca vita. Specie la vita giovane tesa, come scrive Julia Kristeva, tra bisogno di credere e desiderio di capire (Kristeva, 2006; 2019). Con suoi percorsi di attraversamento e con suoi modi di appartenere e identificarsi.
Vita giovane che mostra di avere una sensibilità molto forte nel cogliere trasparenza e sincerità, rispetto e riconoscimento. Con modi suoi e diversi per dire il sentire sé e il mondo, i vissuti propri e quelli degli altri. Prendere parola non è scontato né facile, meglio la musica, il ritmo, i gesti a volte. Meglio insieme ad altri, e per lo più, altre e altri coetanei.
Poi anche disponibili – e non era scontato – alla lettura dei loro scritti o dei prodotti dei laboratori davanti a lettori e ascoltatori coetanei anzitutto, ma anche adulti. Disponibili a costruire e a realizzare un video, con volti e parole, nomi e pensieri, da far circolare, vedere e commentare. Alimentando la circolazione di un dire e un sentire che nutre reti e riconoscimenti, legami e identità de-territorializzate e solo a tratti legate all’origine, a provenienze, a radici e tradizioni o lingue e storie di generazioni passate.
Questi gruppi di ragazze e ragazzi dalle origini familiari e dai percorsi così diversi,  profondamente si raccolgono e si legano in esperienze e in linguaggi che hanno tratti di un nomadismo particolare. Lisa Ginzburg ne trova i caratteri nella vita dell’amico Tzvetan Todorov: è un nomadismo, una «erranza che è del pensiero prima ancora che del corpo nel suo spostarsi», un vagare, viaggiare, un oltrepassare che «appartiene all’indole interiore prima ancora che alle traiettorie delle biografie» (Ginzburg, 2023:15; Todorov, 1997).
Su questi percorsi nomadi vivono meraviglie, epifanie, nostalgie e promesse, rabbie e immaginazioni, dolcezze e creazioni. È come se si disegnasse in loro e tra loro una geografia senza confini, in una sorta di cosmopolitismo spaesato. Sentirsi a casa e lontani da casa, perché una casa definitiva non c’è: molte vite giovani vivono le origini, e i sedimenti e gli innesti lasciando che, via via, si trasformino in rizomi.
Nelle mitezze dell’amicizia, in doni senza calcoli o intenzioni, nel valore di un incontro e nella lealtà e nella gioia della vita: perché è bello sentirsi visti, e non di sfuggita, essere considerati per come si è. Curando cose, parole e gesti che contano davvero, che sono “noi”.

Come ci dice Valérie Amiraux (Amiraux, 2010; 2014), tutta la fatica della convivenza nella pluralità (nel provare a contemplare una modalità diversa dalla mia, anche generazionale prima ancora che culturale) sta nel provare a spostare lo sguardo, trovare strategie che permettano alle diversità di condividere lo stesso spazio e lo stesso tempo. I contesti scolastici possono giocare un ruolo di laboratorio dove apprendere la convivenza e dove immaginare altre modalità di essere. Una delle poste in gioco più elevate su cui i nostri contesti educativi e scolastici si possono giocare una convivialità – nel senso che ne dava Ivan Illich (Illich,1973) – è lo sforzo di dare dignità a queste alterità. 

Laboratorio rap in una classe della scuola superiore

I laboratori qui sono stati strategie per rimettere un poco più al centro storie di vita (o frammenti di storie) e storie di adolescenti altrimenti spesso ai margini.  Per farlo, bisogna spostare lo sguardo, spostarsi. Avvicinarsi ai loro tempi, spazi, linguaggi, gesti. I linguaggi artistici talora aiutano in questa complessa dinamica. Talora la poesia e l’arte riescono ad evocare quel che è difficile raccontare, l’indicibile o il difficilmente dicibile. La musica è forse uno dei linguaggi artistici più frequentati dai giovani e l’averlo scelto come strumento di lavoro ha aperto a piccole sperimentazioni anche da parte dei giovani stessi. Spostare lo sguardo significa per educatori e docenti anche questo: per un momento spostarsi verso i loro linguaggi, i loro ritmi, i loro desideri. Dare loro dignità, appunto.
Forse per questo, poi, li abbiamo visti esporsi, raccontarsi e domandarsi. Mettersi in gioco?
E’ importante darsi tempo e spazio per ascoltare e per narrare le storie, le biografie, le più diverse, anche quelle di chi l’esilio, la migrazione, l’erranza l’ha vissuta o la vive, direttamente o indirettamente, sulla propria pelle o nella propria storia familiare. Perché se si vuole ripartire dal tentare di sperimentare ospitalità  si dovrà riconoscere che essa è fatta di attraversamenti di luoghi del limite, esitazioni tra il dicibile e l’indicibile. E talora gli e le adolescenti sanno dai silenzi o dai vissuti loro o dei loro genitori che quando si arriva, dopo aver errato, molto spesso – nel proprio intimo – si è «privi della certezza di un approdo» e della «pacificazione di un senso» (Prete, 2017 Jabès, 2017).

«È in quel vuoto di senso che la parola della poesia si dimena. È lì che un gesto diventa incrocio di tragitti. E ospita» (Gandolfi, 2018: 98). Uno sguardo, una «solidarietà fuggitiva» (Iduma, 2016). Ed è in quella traiettoria che si sperimenta l’ospitalità. E non è facile, non è spontanea né innata, è l’esito di un apprendere ad apprendere, un apprendere a sperimentare.

Così alcune attività laboratoriali possono provare a far sperimentare a scuola una pratica di ospitalità, scegliendo che davanti a certi vuoti di senso si lasci che la poesia, un verso di una canzone, un gesto diventino luoghi di approdo anche precario e luoghi di incontro di traiettorie ed erranze. «Un nomadismo che è prossimità all’altro, uno spaesamento che diventa dialogo […]» (Prete, 2017:  119-120). 

Avviene sui bordi, in tempi laterali e ulteriori, in aule che non lo son più tanto. Aule oltre, oltre l’aula. Ed è una sorpresa ed una conquista di respiro e di libertà: in spazi scolastici “porosi” e lasciati disponibili a movimenti del fare e della parola aperti; non controllati, non sottoposti a valutazione. Anni fa un testo curato da Riccardo Massa (Massa, 1999) aveva raccolto la vita e i vissuti, i significati che si condensavano e prendevano forma e forza sottobanco.
La scuola non ne viene delegittimata: è lei che ha accolto e fatto spazio. Aprendo una soglia per lasciare vivere ed esprimere vissuti non scolastici. Accettando che vi siano dimensioni della vita di ragazze e ragazzi che restano nel riserbo, anche distanti. Da rispettare e pure considerare; cui offrire, “a distanza” e nella differenza della proposta scolastica, una sponda e un possibile riverbero.
Con la pandemia l’esperienza della conoscenza si deve ridisegnare e non solo perché il conoscere come presa di controllo conoscitivo e tecnico sul mondo è risultato demitizzato. Riemergendo come luogo del confronto con il limite e come luogo di posizionamento in responsabilità. Conoscere è domanda e coglimento, coltivazione del senso, del riguardo, del mistero; conoscere è umiltà di un pensiero che osa cercare, e lo fa senza presunzione e rigidità. Conoscere è (ri)diventato co-naissance, esperienza di co-nascita, tra adulti e giovani, tra giovani, e tra loro e la realtà.
Sapere è cambiare, cambiare conoscendo. È importante ritrovarsi arginando solitudini e abbandoni; tenere a scuola ragazze e ragazzi in contatto tra loro (Lizzola, 2023).
Vi sono questioni aperte dell’umano che scavano e riconfigurano l’umano perché lì si sente il vuoto e l’aperto, l’appoggio e il mistero. Realtà e questioni non “saturabili”.  Ci si ritrova a confrontarsi, a vivere la realtà e la questione delle sofferenze, del dolore e della morte. E ci si trova a sentire la forza e la tenerezza delicatissima del dono, della cura e dell’amore. Questioni sulle quali si segnano le ferite della distanza e dell’abbandono e le fioriture e l’aprirsi di rigenerazioni.
È possibile incontrarsi “facendo” l’esperienza della scuola, in momenti riflessivi e di ascolto, di parola, di silenzio, e di visione: questo può permettere di attrezzarsi a stare nella vulnerabile nudità dell’umano (Mantegazza, 2017)) e di resistere quando il tempo erode il sentire fino all’anestesia e sfilaccia le relazioni nello scetticismo cinico e nella sfiducia. Maria Zambrano parla di momenti in cui occorre «trovare la misura del proprio esistere […], la direzione e il ritmo del proprio camminare nel tempo» (Zambrano, 2008, p. 157-158).

Le scuole qui hanno scelto di osare, di mettersi in gioco. Di spostarsi un poco. Di spostare i banchi, di spostare gli orari. Di spostarsi, di mettersi in movimento. Di non rimanere ferme, fisse. Dichiarando così di tenere ai propri alunni e di desiderare metterli al centro. Desiderare che loro si mettano in gioco.
È un rischio, anche. Ci vuole un poco di coraggio, ed anche un poco di pazienza. Ci si affida anche ad altri che vengono da fuori, si affida la classe, ci si fida.
Eppure è la conferma, da qualche parte, che possiamo incontrare l’altro solo nel momento in cui operiamo uno spostamento, ci muoviamo. «È un movimento ciò che ci permette di riconoscere la differenza dell’altro» (Gandolfi 2018, p. 170) è un movimento ciò che ci permette di riconoscere il suo movimento, quello che lo ha portato vicino a noi. Scegliere di spostare qualcosa, di spostare il proprio corpo, di muoversi è cominciare a voler riconoscere la dignità dell’altro.

Vivere la propria differenza come luogo di dignità e valore è prezioso di per sé. È toccare la libertà, il senso di un cammino e la bellezza di riconoscimenti e rinforzi reciproci, è appartenere, essere con altri come me.
L’identità è bisogno primario di ogni essere umano. Pare spesso faticoso e difficile maturarla nel tempo dei cammini spezzati, della fatica del senso, degli smarrimenti esistenziali, dei relativismi, del disprezzo e del misconoscimento. E questo dà origine da un lato alle malattie d’identità, sofferte origini di auto distruttività e devianze; dall’altro alle “identità inventate”, ai fondamentalismi (“messianismi al contrario”, li chiamava anni fa David Bidussa) (BIdussa, 2020), alla costruzione del nemico e dell’escluso (Alici, 2018).
Cercare la propria identità tra paure ed incertezze, tra desideri e fragilità, nella voglia di pace può spingere le vite giovani e giovanissime in direzioni diverse ed opposte. Può spingere su relazioni caratterizzate da attenzione e da accoglienza reciproca, dal gusto dello scambio e della scoperta, o su riconoscimenti più superficiali e semplificati, sul pregiudizio. Può vedere attivi moventi fiduciosi, relazionali, in cerca di veglia data e ricevuta, oppure attivare moti di sospetto, distanziamento e risentimento. Può vedere esprimersi generosità fraterne oppure giustificazioni per la propria indifferenza e la durezza del giudizio. Può indirizzare verso (ed essere indirizzato da) una intelligenza della complessità, o rifugiarsi in pensieri chiusi, intimoriti e rigidi.
Se i contesti di vita in cui si incrociano incontri aiutano a lasciarsi formare da quel che si vive; a non subirlo a non farsene prendere, allora la direzione di cammino può essere feconda.
Passaggio, movimento ulteriore è quello che può nascere sul confine: sentita ora la particolarità mia, sento anche quella diversa di altri: magari come interessante, da ascoltare e scoprire nel suo valore proprio, con qualcosa da dire anche a me.
Sentirla nel confronto, anche nel conflitto, che non è per forza mors tua vita mea ma può essere vita tua vita mea secondo la lezione di Fulvio Manara (Manara, Amigoni, 2017). Senza questo confronto / distanza / conflitto / mancanza che l’altro (della stessa o di altra generazione) mi propone, la mia immaginazione può restare malata e ripiegata.

Dovremmo ragionare saggiamente intorno a come le classificazioni si traducano in segni, ferite, fatiche sui corpi delle persone e sui loro immaginari e come dovremmo rispondere in modo alternativo ai processi di classificazione e di omologazione (che portano presto o tardi a discriminare ed escludere) attraverso la costruzione paziente e positiva di trame di relazioni (Gandolfi, 2018). Con pazienza, coraggio e pure con uno slancio positivo, suggerisce Massimo Filippi: dovremmo rispondere con la gioia eccedente dei punti di vista dei corpi coinvolti in una perenne creolizzazione resistente alle logiche dell’uniforme e dell’uniformità (Filippi, 2017).

Dovremmo interrogarci su quanto abbiamo bisogno di “decolonizzare” le menti e quanta responsabilità abbiamo nei contesti scolastici ed educativi nel moltiplicare gli immaginari.
Abitare una molteplicità di immaginari e abitare la conflittualità è qualcosa che si può apprendere e sperimentare. In quel margine di sperimentazione e di sconfinamento è racchiuso tutto il peso – come un macigno – e il potenziale – come un’orbita – degli immaginari e dell’immaginazione (Appadurai, 2013). «Quanto riusciamo ad immaginare che l’altro sia così radicalmente diverso da noi o quanto riusciamo ad immaginare che l’altro sia spaesato, o ferito, o incerto, o stanco, o solo, o appassionato, o incuriosito, o sorpreso, o invogliato quanto noi» (Gandolfi, 2018: p. 99). Anche nelle adolescenze, tra pari e nel tentativo di tessere relazioni intergenerazionali. 

Quello degli adolescenti pare un vasto arcipelago, segnato anche da grandi distanze.
Non tutte le adolescenze sono uguali. Non lo sono mai state neanche in passato. Ci sono molti passaggi che avvengono senza ripari: alcuni già molto provati da infanzie segnate dalla necessità di assumere precocemente autonomia e responsabilità, altri segnati dalle solitudini e dagli abbandoni, dalla capacità di curare e vegliare. Ci sono adolescenze della fragilità e adolescenze della frattura nei contesti familiari, nei contesti sociali dove la povertà o il conflitto o l’assenza di speranza già ingoiavano il futuro dei nuovi nati.
In questi ultimi anni più volte Julia Kristeva ha parlato con preoccupazione degli adolescenti (francesi ed europei) sottolineando come si rivelino «l’anello debole dove si disgrega, nel collasso del patto sociale, il legame stesso tra gli umani» (Kristeva, 2018, p. 113-114). Che si faccia spazio in diversi di loro alla pulsione di morte nelle sue diverse forme, come risposta paradossale e tragica al loro bisogno di credere (“necessità antropologica pre-religiosa e pre-politica”), dà a pensare. Obbliga a pensare, anzitutto alla relazione intergenerazionale, al ruolo degli adulti, alla “esplosione” dell’educazione e della fiducia.
Il passaggio alla vita adulta è sempre sradicamento e scoperta dell’altro. Si dice e si scrive spesso che i giovanissimi incontrino freddezza nella società che li circonda, che non percepiscano una presenza di legami forti e significativi, che non sentano una benedizione, che è “promessa e affidamento”. Una strada per il recupero della dimensione della benedizione forse è quella di attraversare relazioni con persone ferite, con persone non riconosciute. In queste esperienze, in questi incontri, si fa esperienza di essere benedizione reciproca, proprio nello sradicamento, nel sentirsi al margine (Lizzola, 2023).
Ma ciò che ci rivelano parole ed esperienze d’arte di queste schegge adolescenti è anche altro. Giovani vite che chiedono forse meno da dove vengo? E piuttosto chiedono che cosa c’è di bello da vivere?; che vivono il di chi sono? a chi appartengo? per dire poi chi sono?
E le esperienze nelle quali pare coltivino la questione dell’identità sono quelle dove nascono e continuano a crescere musica ed arte, religione e filosofia, pittura e narrazioni. Esperienze più “adatte”, vive, per tenere dentro i corpi e le singolarità; dove preservare, incontrare, vivere riconoscimenti, le vicinanze, le cure e le risonanze.
Esperienze da cui partire, prendendo distanze, in viaggi di accettazioni e superamenti: rotture con le radici ed acquisizioni nuove. Sono processi di identificazione, progressivi ed intrecciati, con ridisegni di identità scisse e ricomposte, di aperture, di conflitti e riconciliazioni ed esplorazioni.

Nel momento in cui una delle nostre preoccupazioni sia nella direzione di una “poetica della relazione” e di un “diritto all’opacità” della persona (Glissant, 1990), con un’attenzione forte ai corpi e al sentire di queste adolescenze che abitano le nostre scuole, un dialogo tra pratiche antropologiche e pratiche artistiche può risultare importante (Schneider, Wright, 2010). 

«Nel momento in cui concepiamo le pratiche educative come aperte ad eventi imprevisti e nella consapevolezza che la realtà possa essere capita solo in parte, delle pratiche creative e critiche, quali quelle dell’arte e dell’antropologia, proprio perché esse stesse escursioni verso l’ignoto, lo sconosciuto, all’interno di un frame di incertezze andrebbero maggiormente prese in conto per farle ‘con-versare’ con le pratiche educative» (Gandolfi, 2018, p. 158). Per andare verso una sperimentazione di pratiche educative che siano pratiche etnografiche e pratiche artistiche. Per cogliere in profondità detti e non detti, per far incontrare singolarità e corpi in tutta la loro molteplicità e diversità.

Non tutte le adolescenze sono uguali e non lo sono mai state. Ma oggi convivono, e il loro incontro, non scontato e fragile, può consentire preziosi riverberi e qualche nuova invenzione. Questi passaggi oltre l’infanzia sono stranieri tra loro, e insieme possono rivelarsi fecondi e capaci di trasformazioni nel loro incontro, che solo a volte è difficile.
Possono vivere insieme questi passaggi in esperienze e momenti sentiti e pensati come “con-divisi”, di ospitalità reciproca. Non un’ospitalità banalmente omologante: piuttosto è fatta di spazi di rispetto per storie diverse, e di pudore; vive in realtà di vita comune, di scoperta e di costruzione se non di “terre nuove”, almeno di “terre di mezzo”. Terre intermedie dell’identità, terre interiori conquistate nel fondo; non solo con superficiali negoziazioni esteriori, o in incontri dell’emotività “facile” e benevola.
Si possono aprire in spazi “riabitati”, ridisegnati dentro e sui confini di scuole e città, esperienze capaci di permettere tessiture di identità più complesse, con sfumature, con riconoscimenti di nuove origini e di nuovi radicamenti. E, insieme, di cammini e di trasformazioni. Si possono anche provare costruzioni di relazioni nella ricchezza di appartenenze e di sfumature, anche in dialogo e in tensione, ma senza il timore dello sfumare in dissolvimenti dell’identità. Evitando l’assimilazione, e il rigetto totale delle culture e delle identità altre.
Le adolescenze tra loro diverse e straniere possono scoprirsi di fronte a sfide comuni, si scoprono attraversate da comuni tensioni e ricerche, da uguali timori e da passioni di futuro. Non temono la decostruzione delle, e la distanza dalle, tradizioni d’origine, per ritrovarle magari per tratti nelle costruzioni di esperienze e di progetti, e in nuove pratiche. Possono non vivere solo della necessità di adattarsi e di rassegnarsi: possono sostenersi reciprocamente nella reinterpretazione di possibilità e di condizioni, nelle “resistenze” e anche nelle “indignazioni” condivise (a volte nel sarcasmo, nell’ironia, nella denuncia), nel gusto delle prove e dell’inizio, delle creazioni e della immaginazione di possibilità.

Nei contesti educativi e scolastici segnati dalla pluralità, ci si trova dinanzi a un divenire comune da inventare e da sperimentare, magari anche in modo pragmatico, nelle pratiche quotidiane.
Nella minaccia costante di una reificazione pericolosa della “cultura”, il rischio di essenzializzare l’altro, in termini nazionali, etnici e religiosi, è molto concreto e ci dice quanto sia necessario quindi lavorare in modo tenace e continuo per articolare le appartenenze culturali e religiose con i vissuti individuali e familiari dei giovani che abitano la scuola.
Uno dei ripensamenti più importanti intorno agli approcci pedagogici contemporanei, in questo senso, riguarda un’attenzione all’articolazione tra le culture, le religioni e le pratiche culturali e religiose per come si realizzano nei microcontesti quotidiani delle persone.
Piuttosto che leggere, allora, i nostri contesti scolastici plurali con un approccio culturale o etnico, bisognerebbe andare oltre “il paradigma culturalista” e spostarsi verso una prospettiva che possa cogliersi nell’essenza di una pluralità e di un incontro tra differenti provenienze e tra specificità plurali. E che si costruisca attorno ad un noi relazionale, non etnico, non culturale, non razziale (Gandolfi, 2018).

Questi laboratori sono stati occasioni di piccole sperimentazioni in cui si è riparti dalle biografie, dalle pratiche quotidiane e come tali ci hanno riportati non tanto a singole appartenenze, a specifiche identità culturali, ma a una “pluralità”.  Quel che ne è emerso è un “noi relazionale” che ci spiazza rispetto alle nostre rappresentazioni così ancorate a definizioni etniche, culturali, razziali.
Non solo, ma nel piccolo, nei prodotti che sono l’esito di queste esperienze laboratoriali emergono processi di creolizzazione e ibridazione, processi che non sono né lineari né orientati verso valori assiologici prescrittivi (come nel caso dei processi di ‘assimilazione’ ma anche della cosiddetta ‘integrazione’) Piuttosto, sono discontinui, strategici e soprattutto relazionali (Jacoviello, Sbriccioli, 2012).
Nel piccolo, in queste esperienze laboratoriali troviamo tracce di processi di creolizzazione (ibridazioni anche minime di lingue e di pratiche culturali quotidiane) che ci interrogano con forza chiedendoci se considerare ancora i soggetti come individui che “incorporano” un repertorio di identità (Levi, 2011) oppure come “attori di una riconfigurazione” dello spazio sociale (e anche dello spazio scolastico) a partire dalle azioni e dalle relazioni tra di essi.
Sono processi che portano in sé la forza e le contraddizioni del contatto tra culture.
Eppure che ci obbligano per lo meno ad un ripensamento dei nostri spazi che provi a focalizzarsi sui conflitti e sulle ridefinizioni continue delle identità in relazione all’incontro, alla relazione.

Soprattutto ci raccontano di una realtà quotidiana che è molto più articolata e meticciata di quanto ancora ce la rappresentiamo e di come ci ostiniamo a nominarla.  E che quando gli studenti e le studentesse la raccontano, quando “si raccontano” – anche con semplicità e talora apparente superficialità – non hanno bisogno di definirla in termini culturali o etnici o razziali, né tantomeno nazionali ma in termini di vissuto quotidiano condiviso.

Ascoltare bene le canzoni dei video e alcuni dei testi raccolti e offerti è avvertire che quasi un mondo possibile si gioca nelle storie di tante adolescenze, di tanti passaggi difficili e spezzati dentro la vita: è una sfida delicata e vitale, irrinunciabile per tenere aperto o per ricucire, insieme al futuro anche il ritmo della vita, di generazione in generazione. Una convivenza che vive transizioni molto incerte – e che è interessata da dinamiche vorticose, dall’indefinitezza del disegno di ciò che nasce – è sempre “impreparata” a dare spazio al nascente. Eppure il nascente germina e trova spazi, prende forme magari torte e contorte nelle ombre e nei margini, nelle fratture e nelle spaccature: anticipazioni quelle che si creano nelle persone, tra le relazioni, nelle biografie; anche dentro i muri, nelle menti e nei mondi chiusi.
Per vivere facendo esperienza occorre «salvare l’adolescenza», «salvare la sua potenza individualizzatrice e creatrice nel caos che la circonda» (Zambrano, 2008, p. 40), è salvare la ribellione della gioventù. L’adolescenza «custodisce qualche segreto della vita propriamente umano, o almeno pare che scopra con più evidenza la condizione propria dell’umano […]: la necessità e l’entusiasmo di creare». (Zambrano, 2008, p. 38).
Proprio per questo l’adolescenza porta con sé l’ombra del possibile suicidio e deve trovare suoi spazi adeguati di riserbo e di visibilità.
Infine occorre forse dire (anche) che non bisogna rubare ai giovanissimi l’incontro con le diversità adulte. Neppure la prova del confronto con i tempi già vissuti. È un confronto prezioso tanto quanto la prova dell’“urto” con il tempo presente, tempo doloroso e bellissimo, con contemporaneità plurali. L’incontro di corpi e di vite che vengono da tempi diversi crea una soglia preziosa sulla quale l’essere contemporanei è scoperta della preziosa riserva di ‘inattualità’ cui il presente (con i suoi futuri e le sue memorie) ci chiama.
È preziosa la cura di gesti simbolici per le adolescenti e gli adolescenti, in questi loro trovano l’“efficacia” di una loro presenza nel tempo.
C’è un modo particolare di vivere la contemporaneità, la partecipazione al proprio tempo, nella vita concreta, quotidiana, quella fatta di relazioni. Un modo che potremmo così indicare: essere al cuore e, insieme, non coincidere con il tempo presente, non adeguarvisi. C’è la cura di uno scarto, di un “anacronismo”, sempre cercando altro. Forse può maturare la capacità di dialogare e interagire al cuore e a distanza con il proprio tempo, per cercarvi un senso, per incontrare ciò che si cela, ciò che attende. Ciò che viene a noi pur partendo da lontanissimo: può essere questo il frutto di un apprendimento, di una ricerca, di un riscatto, di una svolta.
Giovani e ragazze hanno diritto all’inizio, e al sogno: con un passato, una memoria con cui fare i conti (da ereditare e da ‘allontanare’); con storie vissute dalle quali ripartire, da ricominciare. A volte da lasciare, a volte da reinterpretare.
Come fare in modo che il mondo, e “il racconto che s’è già narrato prima”, entrino nella strutturazione delle soggettività adolescenziali e giovanili, promuovendo senso e venendo chiamati ad altro, al nuovo? In sofferenza e in elezione, almeno per passaggi finalmente scoperti, nella felicità di trovare punti di possibile pace, con sé, con altri e col mondo. Nella felicità per quanto provato in un incontro, in un progetto, in una prossimità e in un esercizio di creazione.

Tentativi tenaci, nei microcosmi del quotidiano, di andare nella direzione, di nuovo, di un “noi relazionale”. Un noi non dato ma continuamente da inventare e da sperimentare.
Un noi che non chiuda in un’unicità o in una sovrapposizione, ma che sia un movimento circolare, un transitare, un errare.
Un essere “in-between” (Bhabha, 2001) in uno spazio e un tempo da inventare e articolare, qui e ora, tra qui e lì, tra molteplici appartenenze, ma anche tra noi e gli altri.
Una “sfasatura”, un “anacronismo”, per dirlo di nuovo con le parole di Giorgio Agamben (2008). Un riflesso e insieme una competenza della sensibilità umana che si costruisce al momento dell’incontro. Per cui ci vuole un tempo, un allenamento e una pratica da mettere in atto che implica fatica, difficoltà, resistenza. Anche perché la posta in gioco è alta e ben più articolata e complessa che una competenza, un “savoir faire”: è un “savoir vivre”.

Note

[1]  Non darci la (tua) voce. ASCOLTACI! – La porta 
[2] L’articolo è frutto del lavoro comune di Paola Gandolfi e Ivo Lizzola ed è stato scritto in forma di conversazione a due voci tra gli autori. Le parti in stampato sono di Ivo Lizzola e quelle in corsivo di Paola Gandolfi.

Bibliografia

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Paola Gandolfi insegna Migrazioni transnazionali e sperimentazioni educative, Antropologia e politiche educative dei contesti contemporanei e Transnational migrations and Arts presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli studi di Bergamo. Tra i suoi più recenti ambiti di ricerca: le sperimentazioni nei contesti educativi segnati dalla pluralità e la conversazione tra pratiche educative, pratiche artistiche e pratiche etnografiche nei contesti contemporanei in Europa e nel Maghreb. Tra le sue pubblicazioni: Noi migranti. Per una poetica della relazione (Castelvecchi, 2018), Rivolte in atto (Mimesis, 2012), Corpi in movimento. tra arte e realtà nella Tunisia in transizione, «Etnografia e Ricerca Qualitativa», n. 1, vol. 9, 2016 (93-122).

Ivo Lizzola è docente di Pedagogia sociale e Pedagogia del conflitto, della marginalità e della devianza presso l’Università degli studi di Bergamo. La sua ricerca e l’attività di formazione nei servizi educativi e sociosanitari hanno riguardato lo sviluppo delle politiche sociali (con attenzione ai giovani e alle marginalità) e i temi della cura, delle vulnerabilità e della giustizia. Tra le sue pubblicazioni: Oltre la pena. L’incontro oltre l’offesa (Castelvecchi, 2020), Un senso a questi giorni (Castelvecchi, 2020), Aver cura della vita. Dialoghi a scuola sul vivere e sul morire (Castelvecchi, 2021), In tempo d’esodo (Città Nuova, 2023).