§Cura: care - cure - curate
Crossing the color line - Healing from the past:processi di cura e di guarigione nella comunità afro italiana
di Sabrina Onana

Mentre i discorsi politico-mediatici si concentrano ormai da anni sulla ”crisi migratoria”, le policies ad essa legate e/o i fatti di cronaca che coinvolgono “gli immigrati”, nella seconda parte del docu-film Crossing the color line – healing from the past dieci Afro-italiani/e si esprimono in prima persona su queste tematiche (rese) controverse e sulle esperienze di razzismo vissute. Portatori e portatrici di un background migratorio, e quindi di una doppia eredità, ma anche dello stigma dell’immigrato in un paese in cui identità nazionale e “bianchezza” sono ancora indissociabili nell’immaginario collettivo (ma soprattutto “bianchezza” e “nerezza” antagonistiche), gli Afrodiscendenti italiani – la cui presenza non è ancora normalizzata – sono spesso percepiti come turbatori dell’equilibrio etnico-culturale del loro paese, che mette in dubbio la loro italianità e li considera come una presenza esogena che deve “integrarsi”, non “comunitarizzarsi”, o addirittura ”tornarsene nel proprio paese”.

Sabrina Onana, Parigi, 2017

Crossing the color line – healing from the past offre la possibilità di accedere direttamente alle storie, alle preoccupazioni, ai bisogni e alle ferite di una minoranza il cui vissuto ci consente di comprendere l’ancoraggio nazionale di movimenti sociali globali come l’afro-femminismo o l’antirazzismo, informandoci al tempo stesso sulle specificità del contesto italiano.
Passato e presente si intrecciano attraverso le esperienze degli intervistati e gli excursus storici sulla storia coloniale italiana ed europea, permettendoci di capire non soltanto come si è venuto a creare nel corso dei secoli la figura dell’Altro, l’Africano razzializzato, ma anche il modo in cui questa percezione continua ancora oggi a strutturare il senso comune e le traiettorie individuali.
In un contesto in cui la polarizzazione ideologica si fa sempre più intensa, urge comprendere le conseguenze contemporanee di un passato collettivo che ha lasciato un segno nelle coscienze individuali e nazionali. Un segno che deforma il rapporto con sé stessi e con gli altri e dal quale, ancora oggi, si cerca di guarire.

Crossing the color line - healing from the past (2020), locandina del film
Crossing the color line - healing from the past (2022), locandina del film

Crossing the color line è un progetto profondamente legato al tema della cura e della guarigione, entrambe intese come processi che coinvolgono tanto le individualità quanto la collettività e che hanno bisogno di essere stimolate sia a livello micro che macrosociale.
Per guarire bisogna curare, e più il lavoro di cura avanza, più la guarigione si diffonde, nelle anime, nelle storie, nella Storia, e nel corpo sociale.
Inizialmente il progetto audiovisivo e documentario Crossing the color line aspirava ad iniziare un lavoro di cura all’interno della società italiana: infatti è nato nel 2018, in un contesto socio-politico caratterizzato dall’avanzare del populismo, dalla generalizzazione del malcontento popolare e dall’aumento di fenomeni di odio e di violenza di matrice razzista in una società in cui lo “straniero”, strumentalizzato da buona parte del discorso politico-mediatico, è diventato metus hostilis.
Il processo di guarigione però riguardava anche la comunità afrodiscendente in Italia, che oscilla tra invisibilità (negli spazi di potere e di legittimità) e ipervisibilità (nei fatti di cronaca o nell’essere “le uniche persone nere della stanza”), alienazione (spesso spinta dal desiderio di assimilazione) e sindrome dell’impostore identitario, isolamento strutturale e desiderio di sentirsi  – ed essere – totalmente parte di un qualcosa (gruppo, nazione, famiglia). Per le donne nere poi, a questo intenso travaglio interiore si aggiunge l’esperienza dell’ipersessualizzazione del proprio corpo, dell’asimmetria simbolica nelle relazioni amorose, del colorismo nella comunità nera, del rifiuto o del feticismo in quella bianca, dell’esclusione dagli standard tradizionali, del desiderio di conformarsi e dell’impossibilità di riuscirci senza rinnegarsi.
To cure, quindi, significava in questo caso dare la parola ad altri, ad altre, che, come me, ma a modo loro – ovvero secondo la loro storia, personalità, educazione e sensibilità -, hanno vissuto e continuano a vivere la complessità della doppia appartenenza, della double-sight e della double-consciousness (Du Bois, 1994) dello stigma migratorio, del trauma razziale, dell’eredità coloniale, dell’etnicità tattica (Colombo, 2002; 2006), dell’alienazione identitaria (Fanon 1996), dell’esperienza del margine…e quindi, della guarigione (healing) come processo necessario alla propria costruzione identitaria.

Foto scattata a Verona il 24 marzo 2023, Fucina Culturale Machiavelli (Via Madonna del Terraglio, 10) in occasione della “Settimana di azione contro il razzismo” promossa dall'UNAR nell’ambito del progetto Get Under My Skin!

In Crossing the color line la cura è cura della memoria e cura delle persone, cura della piccola e della grande storia.
Curarsi per poter curare: è un principio che la regista ha vissuto in prima persona per poter approcciare in modo diretto, ma con tatto, politico, ma non ideologico, temi sensibili, controversi, e pezzi di vita e di storia dolorosi, veicolando in fine un messaggio di speranza, di condivisione, di comunità e di ricostruzione.
To cure significava riuscire a portare prima gli/le intervistati/e e poi gli/le spettatori/rici attraverso l’analisi introspettiva e la decostruzione di un “presente danneggiato”, parassitato, che deforma le identità e macchia le relazioni interpersonali.
Per poter realizzare questo film, bisognava da una parte aver vissuto un processo di riconciliazione tale da riuscire a trascendere interiormente le osservazioni di tipo olistico per poter dedicare spazio e tempo alla pluralità delle storie personali, che l’analisi strutturale tende a schiacciare ed uniformizzare collettivizzando le identità; dall’altra (ri)conoscere le disuguaglianze sistemiche e le dinamiche di potere così come le realtà storiche, equilibrio necessario al radicamento delle soggettività e del processo di cura individuale in un continuum storico, politico e sociale indispensabile sia per una comprensione profonda dell’attualità e delle esperienze individuali, sia per la rigenerazione collettiva di un corpo sociale corroso e logorato da ideologie che riattualizzano schemi passati malati da cui è necessario guarire.
Nell’ottica della cura, le testimonianze sono state anche un esercizio di riappropriazione della narrazione per i/le partecipanti, portandoli/e a verbalizzare e rendere intelligibili emozioni, stati d’animo e ferite della loro storia che hanno bisogno di essere (ri)conosciute, raccontate e condivise, per poi poter ricreare – insieme al pubblico – ascolto, umanità, contatto e guarigione reciproca.
Invece di negare la Storia e le storie, Crossing the color line – healing from the past ha voluto creare ponti spazio-temporali portando l’Italia attraverso passato, presente e futuro per incoraggiare un lavoro di memoria e di cura storicizzato, che, seppur abbandonato da molti, è necessario invece per comprendere le dinamiche contemporanee e l’assetto geopolitico post-coloniale. Come direbbe lo storico David Roediger: we all want out of race, but first we have to make our way through race[1].
All’era del coaching, del pensiero positivo, edonista e della medicalizzazione della sofferenza psichica, un lavoro serio di cura che abbraccia e si estende su più generazioni, continenti ed epoche, presentando il processo di guarigione come un lavoro da svolgere a lungo più che a breve termine, può sembrare scomodo oltre che utopistico. Eppure curare alla radice è più importante di limitarsi ad individuare i sintomi, e studiare le cause di un problema è indispensabile se davvero si vogliono comprendere le conseguenze, e guarire… Guarire dal peso del passato, dalla rabbia del presente, dalla paura del futuro. Guarire dall’ignoranza di quel che è stato, dall’amarezza di quel che è e dall’incapacità di riuscire a costruire quel che sarà.
Conosciuta per la sua saggezza e nobiltà d’animo, la scrittrice franco-senegalese Fatou Diome incoraggia così la gioventù africana: «Vorrei dire ai giovani africani di guarire dalla loro memoria. Il risentimento non è un progetto o un vantaggio, è un freno che ci limita. […] Alzatevi e prendete possesso del vostro destino! Non lasciate che il passato vi possieda. Piuttosto possedete il vostro passato e create il vostro futuro» [2].

Estratto Crossing the color line healing from the past

Note

[1] David Roediger alla Journée d‘étude Gauche et Race, martedì 15 ottobre 2019 ak CERI, Sciences Po Paris.
[2] Versione originale: «Je voudrais dire à la jeunesse africaine de guérir de sa mémoire. Le ressentiment n’est pas un projet ni un avantage, c’est un frein qui nous restreint et nous limite. (…) Levez-vous et appropriez-vous votre destin. Il ne faut pas que le passé vous possède. Possédez votre passé et créez votre futur».

Bibliografia

Du Bois W. E. B., The Souls of Black Folk. New York, Avenel, NJ: Gramercy Books; 1994.
Colombo E., Le società multiculturali, Carocci, 2002.
Colombo E., Multiculturalismo quotidiano. Verso una definizione sociologica della differenza, in “Rassegna Italiana di Sociologia, Rivista trimestrale fondata da Camillo Pellizzi” 2/2006, pp. 269-296.
Fanon F., Peau noire, masques blancs, 1952, tr. it. Pelle nera maschere bianche, Marco Tropea Editore, 1996.

Sabrina Onana. Italo-camerunense d’origine, nata a Parigi e cresciuta a Napoli, Sabrina Onana è una giovane regista, fotografa e designer indipendente di 25 anni laureata in Sociologia Contemporanea all’Ecole Normale Supérieure e alla Sorbona e in Scienze Sociali e Politiche all’Università PSL-Paris Dauphine di Parigi.