§anche le statue muoiono
Decolonizzare l’università per decolonizzare la società. L’esperienza di Decolonising the Academy
tra riflessione teorica e azione politica.
di Giulia Rossini, Cecilia Fasciani e Luca Villaggi

Premessa

Questo contributo si pone l’obiettivo di ricostruire e rendere pubblica l’esperienza politica, culturale e teorica del collettivo Decolonising the Academy, costituitosi a partire da aprile 2019 all’interno dell’Università di Bologna. Decolonising the Academy si sviluppa come uno spazio di riflessione e discussione collettiva in cui confrontarsi criticamente con i segni lasciati dall’eredità della storia coloniale, del razzismo strutturale e del privilegio bianco all’interno dell’università e delle istituzioni accademiche e culturali. Ispirandosi a esperienze come quella di Rhodes Must Fall nelle università sudafricane, il collettivo affronta la questione della continuità del passato coloniale italiano, delle forme contemporanee del razzismo e del funzionamento del dispositivo del confine nel governo dei movimenti migratori attuali, ma allo stesso organizza seminari in cui conoscere e ragionare sui maggiori contributi avanzati dal pensiero radicale nero e afroamericano, dalla critica postcoloniale, dal femminismo nero e postcoloniale. Lo spazio universitario risulta essere strategico in quanto riproduce i rapporti di potere, marginalizzando specifiche narrazioni e prospettive; l’individuazione di saperi situati e il loro ripensamento in un’ottica decoloniale, antirazzista e intersezionale può così contribuire a una messa in discussione complessiva delle disuguaglianze di potere che strutturano la società.

Dopo aver restituito pubblicamente i contenuti e le modalità dei seminari che sono state organizzate dal collettivo, e averne inquadrato i principali riferimenti e dibattiti teorici, il presente contributo intende analizzare un caso specifico in cui queste riflessioni hanno contribuito a organizzare un momento di soggettivazione politica all’interno della città di Bologna. Verrà quindi condotta un’indagine sulla mobilitazione convocata in solidarietà alle proteste negli Stati Uniti a seguito dell’omicidio di George Floyd; riconoscendo le forme specifiche del razzismo strutturale nel contesto italiano, questo evento ha permesso di sperimentare una pratica di alleanza tra posizioni e soggettività differenti, nel corso del quale il privilegio bianco è stato rovesciato e trasformato in uno strumento al servizio della presa di parola di migranti, rifugiati e nuove generazioni che intendevano denunciare nello spazio pubblico l’esercizio del razzismo sui propri corpi.

1.Esperienze di decolonizzazione dell’Accademia

Quando nel marzo 2015 student* e attivist* si riunirono sotto il grido di Rhodes Must Fall, il mondo accademico internazionale fu costretto a confrontarsi con le contraddizioni poste dai residui etnocentrici e coloniali e dal razzismo istituzionale che connotano gli apparati del sapere. Partendo dalla necessità di rimuovere dall’Università di Cape Town la statua di Cecil Rhodes, figura emblematica del colonialismo britannico, le proteste permearono immediatamente tutto il mondo dell’educazione, costringendo l’opinione pubblica e l’accademia sudafricana, ma non solo, a interrogarsi sul significato della decolonizzazione dei saperi. Dal movimento Decolonising Our Universities in Malesia, alle proteste in America Latina contro la privatizzazione del sistema universitario, abbiamo assistito alla nascita di mobilitazioni plurali ed eterogenee a livello globale, e anche l’Europa è diventata teatro di sollevazioni che si oppongono al perpetuarsi del razzismo sistemico attraverso vari momenti di protesta.

La National Union of Students (UK) riprese prontamente la protesta nata in Sudafrica, dando vita a Rhodes Must Fall In Oxford, data la presenza di una statua di Cecil Rhodes davanti all’ingresso di Oriel College, una delle sedi dell’Università di Oxford. Il contesto britannico era già stato animato dalle campagne Why is my curriculum white? e #LiberateMyDegree incentrate sulla bianchezza, sul razzismo istituzionale, e sulla neocolonialità dei curricula accademici. Come avvenuto durante le sollevazioni a Cape Town, le istanze presentate da tali mobilitazioni chiamavano in causa ogni aspetto della colonialità, svelandone la natura sistemica. 

Se la statua di Rhodes a Cape Town è stata prontamente rimossa, il dibattito riguardo la statua sul suolo britannico è ancora in atto: dopo l’iniziale decisione di rimuoverla nel 2016, nel 2020 è stata istituita una commissione per stabilirne il futuro, ma di recente l’Università ha ulteriormente posticipato la decisione alla primavera 2021.

Sempre nel 2015, anche in Olanda, sotto lo slogan No democratisation without decolonisation, nascono varie mobilitazioni, che hanno spinto la creazione della Diversity Commission of The University of Amsterdam (UvA). Chi ha partecipato a tale esperienza si è interrogat* su come ribaltare l’assunto epistemologico che contrappone in modo binario il mondo moderno alla colonia, decolonizzando così una contemporaneità fortemente etnocentrica, grazie anche al portato delle analisi e delle pratiche del femminismo nero. Mobilitazioni di questo genere hanno giocato un ruolo fondamentale nel chiarire la centralità degli spazi di (ri)produzione del sapere attraverso il confronto e l’affronto con i residui coloniali, normalizzati nei luoghi di formazione. La necessità impellente risulta quella di ripensare l’accademia nella sua totalità, attraverso pratiche antirazziste diversificate, atte a decolonizzare i saperi. 

La violenza epistemica, già ampiamente analizzata da figure come Gayatri Chakravorty Spivak (2016), risulta essere lo snodo centrale per comprendere la matrice del razzismo istituzionale che caratterizza l’accademia. Boaventura De Sousa Santos, autore di Epistemologies of the South (2014), sottolinea come la distruzione delle epistemologie non occidentali possa essere definito come un vero e proprio epistemicidio: «The energy that propels diatopical hermeneutics comes from a destabilizing image that I designate epistemicide, the murder of knowledge. Unequal exchanges among cultures have always implied the death of the knowledge of the subordinated culture, hence the death of the social groups that possessed it. In the most extreme cases, such as that of European expansion, epistemicide was one of the conditions of genocide. The loss of epistemological confidence that currently afflicts modern science has facilitated the identification of the scope and gravity of the epistemicides perpetrated by hegemonic Eurocentric modernity. The more consistent the practice of diatopical hermeneutics, the more destabilizing the image of such epistemicides» (De Sousa Santos, 2014, p.149).

Photo Credits: Charlie Shoemaker / Getty Images file

2. La complessa condizione italiana 

Viene naturale domandarsi quale posizione occupi l’Italia in questo vivace e contraddittorio panorama internazionale. Se infatti in numerosissime università in varie parti del mondo sono stati costruiti ampi spazi di dibattito grazie ad attivist* e studios* dediti a decolonizzare i luoghi di formazione, l’accademia italiana presenta un generale ritardo nel confrontarsi con la propria eredità coloniale. Come suggerisce Mia Fuller, studiosa del colonialismo italiano, l’Italia è immersa nelle tracce del proprio passato coloniale, ma tali reminiscenze sono di difficile lettura e interpretazione (Fuller, 2011). Bisogna pertanto dotarsi di pratiche e strumenti per imparare a saper guardare, nonostante una generale mancanza di volontà di affrontare le responsabilità coloniali dello Stato italiano, attuando così un processo di occultamento dei crimini perpetrati all’interno della nostra lunga storia coloniale.

Complice una mancata defascistizzazione effettiva del nostro Paese, la lettura dell’esperienza coloniale italiana che incontriamo frequentemente è bonaria, riabilitativa e, a volte, drammaticamente celebrativa. Come evidenzia Miguel Mellino: «Nel dopoguerra il fascismo venne sempre più defascistizzato, ovvero progressivamente purificato (attraverso la minimizzazione, la romanticizzazione e la caricatura) dai suoi aspetti più sinistri e violenti, prima di tutto dalla sua intrinseca ideologia razziale, suprematista […]. Lo stato razziale fascista apparve sempre di più come una mera eccezione o una parentesi e per questo è come se il razzismo non abbia un ruolo di rilievo e non debba essere indagato come momento di riflessione nella storia italiana» (Mellino, 2013, pp 112-113).

Di colonialismo, in Italia, si parla poco e male, utilizzandolo per ricostruire il passato glorioso di uno Stato nazione che si stava, anche e soprattutto grazie all’esperienza coloniale, costituendo, ma al contempo celando non solo i crimini, ma anche il legame strutturale che il colonialismo ha avuto con la formazione dello Stato italiano. Risulta quindi interessante evidenziare gli elementi di continuità e di riabilitazione che hanno permesso alle tracce del passato coloniale italiano di permanere così a lungo nello spazio pubblico; dalla statuaria, alle permanenze linguistiche, alla toponomastica, all’educazione, emerge chiaramente la difficoltà della cultura italiana nel confrontarsi con il proprio passato coloniale. 

In questo panorama incerto e peculiare, l’educazione si configura come un terreno strategico di analisi e rielaborazione di pratiche orientate alla decolonizzazione dell’esistente. Come ha messo in luce Gianluca Gabrielli, in Italia il mondo dell’educazione è pervaso da dinamiche coloniali (Gabrielli, Montino, 2009). Dalla scuola elementare, all’Università, possiamo constatare come i programmi di studio riproducano costantemente la bianchezza, marginalizzando sistematicamente i saperi non allineati ad una retorica ancora oggi coloniale. I saperi rappresentano il punto di partenza della nostra indagine; a partire dal nostro posizionamento di student* e attivist*, non potevamo non domandarci come riuscire a stimolare un dibattito sul tema che riuscisse a smuovere il torpore accademico nel quale ci sentivamo immers*. 

3.Decolonising The Academy

Pertanto, di fronte al massiccio ritorno, su scala nazionale, europea, ed infine globale, di pulsioni nazionaliste e razziste, abbiamo sentito la necessità di interrogarci collettivamente sul ruolo che le istituzioni universitarie e accademiche possono giocare in tale fase politica. Abbiamo analizzato come le politiche e i sentimenti razzisti oggi rivolti contro i migranti e le migranti abbiano radici lontane, sistematicamente occultate nel dibattito pubblico, e nella storia europea e italiana. L’idea di una subalternità e di una inferiorità dei popoli che abitano i territori da cui oggi partono le migrazioni era emersa in contemporanea con le politiche coloniali europee, e abbiamo ritenuto che le strutture di questi rapporti di potere influenzino ancora fortemente gli eventi a cui stiamo assistendo in questi anni. Il nostro obiettivo era quello di ragionare sul modo in cui questi schemi sono tuttora presenti nelle nostre università e nella conseguente costruzione dei saperi al suo interno. Riproducendo al proprio interno le disuguaglianze, possiamo osservare il modo in cui all’interno dell’accademia italiana il punto di vista dei soggetti non occidentali è tenuto ai margini, e i migranti e le migranti affrontano ostacoli crescenti nell’accesso agli studi e alla ricerca. 

Convinti che la decolonizzazione dell’università implichi che i saperi elaborati al suo interno debbano porsi un autentico obiettivo di trasformazione ed emancipazione sociale, che passa anche per il decentramento dello sguardo e della posizione da cui siamo abituat* a interpretare il mondo, abbiamo così ragionato intorno a tali linee di analisi, e costituito il collettivo di student* Decolonising the Academy. Il nome scelto è un esplicito rimando a quelle esperienze internazionali esplorate precedentemente, e alle quali ci siamo ispirati. Infatti, l’intento originario consisteva nel tentativo di replicare, almeno in parte, quelle pratiche, e di proporle all’interno dell’università italiana, e nello specifico in quella bolognese, con il fine di mettere in moto dei processi di decolonizzazione della produzione di conoscenza che si dà all’interno degli spazi accademici. 

È un percorso che, tuttavia, abbiamo prima di tutto avviato tra noi stess*, rintracciando gli elementi di colonialità nei linguaggi e nelle parole che utilizziamo quotidianamente. Successivamente, ci siamo dedicati alla costruzione di una prima grande iniziativa pubblica, ad aprile 2019, in una piazza della zona universitaria; dopo la sua ottima riuscita in termini di produzione analitica e di partecipazione da parte della comunità accademica, abbiamo deciso di strutturare la nostra progettualità in modo più continuativo, dando continuità alle elaborazioni di quell’evento in assemblee e in altri momenti pubblici. Abbiamo sempre costruito ciascun confronto a partire da testi di studios* e militant* anticoloniali, decoloniali e anti-imperialisti, provando a invitare persone che avessero lavorato e approfondito tali questioni, e che potessero aiutarci nello sviluppo di quei discorsi. 

Con l’inizio dell’anno accademico 2019/2020 abbiamo provato a intessere e approfondire legami non solo con le persone interessate all’interno della nostra comunità accademica, tra ricercat*, professor*, e student*; ma abbiamo provato a farlo anche con altre esperienze che si muovono su altri territori, prendendo contatto con loro. Partendo dagli spazi della nostra università, abbiamo quindi strutturato collettivamente una serie di incontri che puntavano a un grande evento da organizzare in città alla fine del mese di novembre, che ci desse anche il giusto slancio per continuare il lavoro nell’anno successivo. L’evento, della durata di due giorni, avrebbe coniugato il lavoro eminentemente accademico con momenti di socialità, mostre fotografiche e dibattiti con il pubblico. Ha inoltre visto la partecipazione di molte persone provenienti da altre città, come Marie Moïse da Milano, Renata Pepicelli da Pisa e Gabriele Proglio buy legal testosterone propionate in usa optimum da Torino. 

Partendo da un incontro che si concentrasse sul rimosso coloniale italiano tanto in riferimento al periodo del Risorgimento quanto al ventennio fascista, e dunque che andasse ad indagare quali siano le conseguenze, oggi, di tale rimozione, abbiamo ripercorso storicamente insieme a Fulvio Cammarano e Paolo Capuzzo, attraverso una prospettiva politico-economica, le vicende coloniali italiane, dalla Libia a quella che a suo tempo venne chiamata Africa Orientale Italiana, collegando tali pratiche imperialiste al fenomeno dell’irredentismo, e quindi al mito della vittoria mutilata, che si presentò come un fondamentale laboratorio politico per il fascismo. Abbiamo poi proseguito con una presentazione multimediale di Wu Ming 1 in merito alla resistenza “italiana”, reinterpretata non tanto come un’epopea esclusivamente nazionale, né solamente bianca, ma evidenziando come nella guerra di liberazione italiana combatterono partigiani appartenenti ad oltre cinquanta nazionalità e provenienti da ogni continente, così come la Resistenza al fascismo italiano cominciò nelle colonie d’oltremare e vi presero parte anche italiani. È poi seguita la mostra Five Degrees – How climate change is influencing India’s farmers suicides con il fotoreporter Federico Borella, un progetto pubblicato su molte testate internazionali che tratta il delicato tema dei suicidi tra gli agricoltori dovuti alla siccità nello stato del Tamil Nadu, nel sud dell’India, basandosi su uno studio dell’Università di Berkeley che mette in relazione il cambiamento climatico con l’aumento dei suicidi tra i lavoratori dei campi agricoli indiani. Il tentativo di neutralizzare ogni conflitto di genere, razza e classe è una delle armi principali a disposizione del capitalismo contemporaneo: rispetto alla più aperta repressione, la scelta di tentare di addomesticare istanze femministe e di indebolirne il portato rivendicativo è più sottile, ma non meno pericolosa. Assistiamo infatti in tutta Europa alla messa in campo di una precisa strategia politica, da parte delle frange più radicali delle destre, ma anche da parte della sinistra neoliberale. Attraverso un’analisi serrata e un approccio radicalmente antirazzista, anticapitalista, e femminista, abbiamo successivamente ripercorso alcuni filoni fondamentali della storia del femminismo decoloniale, cercando di comprendere in che modo l’’interconnessione delle lotte possa rappresentare uno strumento di liberazione. Assieme a Marie Moïse, Renata Pepicelli, e Marta Panighel. 

L’ultimo incontro era invece volto ad analizzare il nesso esistente tra le politiche migratorie europee e la struttura sociale ed economica del continente europeo e, nello specifico, della penisola italiana. Nel corso degli ultimi anni, l’attuale regime dei confini europei è infatti diventato la maggiore espressione di ciò che più voci hanno definito necropolitica (Mbembe, 2016), una forma di politica che si esercita dando la morte a migliaia di esseri umani. Ma ad essere minacciata non è solamente l’esistenza fisica delle donne e degli uomini che partono alla volta dell’Europa. Il radicale smantellamento dei sistemi di accoglienza e le crescenti restrizioni al riconoscimento dei permessi di soggiorno e delle richieste di asilo e di protezione, hanno aumentato la subalternità delle soggettività migranti, esponendoli a gradi maggiori di ricattabilità e di sfruttamento sul lavoro. Abbiamo quindi cercato di capire quale strategia complessiva ispiri le attuali politiche migratorie, italiane ed europee, con Gabriele Proglio e Maurizio Ricciardi. I confini europei sono stati infatti al centro di un dibattito e di una rappresentazione mediatica estremamente polarizzati, che ha contrapposto, da un lato, il Ministero degli Interni, e dall’altro, gli interventi umanitari che hanno luogo nel Mediterraneo, rimuovendo troppo spesso le biografie, il protagonismo e le pratiche di queste donne e di questi uomini che sfidano quelle frontiere che vorrebbero ostacolare la loro libertà di movimento. Abbiamo così cercato di esplorare le possibilità di costruzione di una narrazione efficace partendo da questi elementi, e di attuazione di pratiche di solidarietà nei territori e nelle città. Il Laboratorio Sociale Afrobeat ha concluso l’evento, con un concerto live che ha avuto luogo nello stesso spazio dove precedentemente avevamo stimolato i dibattiti con il pubblico.

Photo Credits: Federico Borella
Photo Credits: Federico Borella
Photo Credits: Federico Borella

4. Per una politica della coalizione

Come si può cogliere dalla ricostruzione contenuta nei paragrafi precedenti, l’università e le istituzioni accademiche e culturali rappresentano il centro di maggiore interesse delle azioni e delle iniziative di Decolonising the Academy. Tuttavia, siamo sempre stat* consapevoli del fatto che i processi di razzializzazione, le asimmetrie e le posizioni di potere distribuite dalla linea del colore rappresentano un fenomeno strutturale della società italiana, che certamente si riproduce all’interno degli spazi della formazione, ma che al contempo si presenta in tutti i campi della vita sociale. La decolonizzazione dell’accademia implica la decolonizzazione della società, ed è soltanto l’interconnessione di questi due momenti a costituire una pratica realmente efficacia. Questo imperativo ha mostrato tutta la sua urgenza in concomitanza con le mobilitazioni esplose a livello globale come reazione all’omicidio di George Floyd negli Stati Uniti, che a Bologna sono passate per l’iniziativa Say their name del 6 giugno 2020, che ha visto il protagonismo diretto di migranti e di afrodiscendenti di molteplici generazioni, dalla quale si è costituita l’esperienza di Black Lives Matter Bologna. Il collettivo ha scelto di aderire e di partecipare all’evento del 6 giugno con la consapevolezza che una vera critica e decostruzione della colonialità e del privilegio bianco passi per la costruzione di infrastrutture e di alleanze che si mettano al servizio e agevolino la presa di parola e la diretta attivazione dei soggetti che vivono sul proprio corpo gli effetti del razzismo strutturale, decentrando in questo modo la nostra specifica posizione.

Di fatto, tra Decolonising the Academy e Black Lives Matter Bologna esiste oggi un rapporto di collaborazione che si è sostanziato nell’organizzazione di alcune iniziative culturali negli ultimi mesi del 2020. La pandemia ci ha obbligato a organizzare le nostre attività sul piano digitale, ma siamo comunque riusciti ad offrire dei momenti di discussione e di dibattito molto ricchi e partecipati. Abbiamo presentato l’ultimo volume di Sandro Mezzadra, Un mondo da guadagnare (2020), e ci siamo confrontati con lui soprattutto in merito a quella che è stata definita una politica della coalizione. Come è emerso nel corso della discussione, ciò che ha caratterizzato le recenti mobilitazioni sociali degli Stati Uniti, ma anche dell’America Latina, è stata la progressiva convergenza e la reciproca contaminazione di movimenti sociali anche profondamente eterogenei fra loro; i movimenti transfemministi, i movimenti antirazzisti, e i movimenti sindacali, che hanno tentato di costituire una rappresentazione diretta dell’eterogeneità e delle differenze che contrassegnano il lavoro. L’auspicio è che anche in Italia crescano queste forme di coalizione e di alleanza, sul presupposto che soltanto la federazione di molteplici soggettività è in grado di sfidare le strutture del capitalismo contemporaneo.

Un simile incontro sembra essersi prodotto nel corso della presentazione del nuovo libro di Alessandro Portelli, Il ginocchio sul collo (2020), denso di analisi sulla storia della schiavitù e della segregazione razziale negli Stati Uniti, e che ragionava sull’omicidio di George Floyd nei termini dell’ultimo esempio dei tentativi della cultura occidentale di negare e sottomettere tutto ciò che costruisce e rappresenta come altro da sé. Ecco, quella iniziativa ha visto partecipare e discutere con l’autore il circolo Arci Ritmolento, Decolonsing the Academy, Fiom-Cgil Bologna e Black Lives Matter Bologna, e tutte queste realtà si sono confrontate, a partire dalle proprie qualità, sulle strategie più efficaci per affrontare le contemporanee forme di sfruttamento del lavoro e le gerarchie di classe, genere e razza. Cooperando sempre con Black Lives Matter Bologna, abbiamo infine organizzato due incontri che si sono tenuti a febbraio 2021 all’interno della ricca programmazione culturale di Black History Month Bologna, contenuta nell’edizione Ostinato di quest’anno. Abbiamo discusso partendo dalla presentazione di Marx nei margini (2020), con i curatori Miguel Mellino e Andrea Ruben Pomella e con Mackda Ghebremariam Tesfau delle pieghe bianche del marxismo, e del modo in cui è possibile disattivarle spingendolo a fare i conti con le sue rigidità e i suoi punti ciechi inerenti al ruolo giocato dal colonialismo, dall’imperialismo e dalle diseguaglianze di genere e razza nello sviluppo del modo di produzione capitalistico, al fine di predisporre una pratica politica antirazzista e transfemminista all’altezza della congiuntura attuale. infine, abbiamo discusso con gli autori Federico Rahola e Luca Queirolo Palmas e con Antonella Bundu di Underground Europe (2020), un volume estremamente suggestivo che convoca la tradizione del pensiero radicale nero al fine di tendere dei parallelismi tra la storia esperienza della Underground Railroad, che permise alle schiave e agli schiavi afroamericani di fuggire dagli Stati schiavisti del Sud e di muovere a Nord, e le rotte migratorie contemporanee, mostrando come i dispositivi dei confini europei non sono mai del tutto in grado di imbrigliare gli aneliti di liberazione e di emancipazione che le spingono.

Photo Credits: Massimo Paolone / The New York Times

Bibliografia

Bhambra G., Nişancıoğlu K. & Gebrial D. (a cura di), Decolonising the University, Pluto Press, London, 2018.
Fuller M., Italy’s Colonial Futures: Colonial Inertia and Postcolonial Capital in Asmara, California Italian Studies, 2011.
Gabrielli G., Montino D. (a cura di) La scuola fascista. Istituzioni, parole d’ordine e luoghi dell’immaginario, Ombre corte, Verona, 2009.
Mbembe A., Necropolitica, Ombre Corte, Verona, 2016.
Mellino M. Cittadinanze postcoloniali. Appartenenze, razza e razzismo in Europa e in Italia, Carrocci, Roma, 2013.
Mellino M., Pomella A. R., Marx nei margini: Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale, Alegre, Roma, 2020.
Mezzadra S., Un mondo da guadagnare. Per una teoria politica del presente, Meltemi, Milano, 2020.
Portelli A., Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immagini, Donzelli, Roma, 2020.
Rahola F., Queirolo Palmas L., Underground Europe. Lungo le rotte migranti, Meltemi, Milano, 2020.
De Sousa Santos, B.Epistemologies of the South: Justice Against Epistemicide, Routledge, London, 2014.
Spivak G. C., Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza, Meltemi, Milano, 2016.

Cecilia Fasciani (Avezzano, 1995) è laureanda in Global Cultures (LM) all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, e attivista nel collettivo “Decolonising the Academy” nonché in quella transfemminista “La MALA Educación”. I suoi ambiti di ricerca riguardano la tradizione intellettuale del pensiero radicale Nero e la storia del colonialismo italiano. Documentarista e fotografa, ha firmato diversi cortometraggi e due lungometraggi su tematiche sociali e di genere.


Giulia Rossini (Domodossola, 1996), è laureanda in Arti Visive all’Università di Bologna e attivista nel collettivo transfemminista “La MALA Educación” e nel collettivo “Decolonising the Academy”. I suoi ambiti di ricerca riguardano strategie di decolonizzazione dell’arte pubblica e dei contesti formativi attraverso uno sguardo transfemminista queer. Di recente ha preso parte al workshop della mostra retrospettiva di Cesare Pietroiusti Un certo numero di cose (a cura di Cesare Balbi, Mambo, 2019-20).

Luca Villaggi (Parma, 1996), è laureando nel Corso di Laurea Magistrale Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Bologna e attivista del collettivo “Decolonising the Academy”. I suoi interessi di ricerca riguardano il rapporto tra le trasformazioni del lavoro, della cittadinanza e dei sistemi di welfare. Attualmente sta scrivendo la sua tesi di laurea sotto la supervisione del professore Vando Borghi, sulla crisi del welfare state come punto di osservazione privilegiato sulla crisi generale della riproduzione sociale.