§L'educazione nel corpo. Per una somatica della relazione pedagogica
Educazione somatica per insegnanti
di Alice Devecchi e Silvia Sfligiotti

Alice Devecchi e Silvia Sfligiotti condividono da diversi anni uno scambio riguardo le proprie esperienze dirette di insegnamento nell’ambito della storia dell’arte e del design e la relazione che esse hanno con il movimento somatico sperimentato su di sé. La call for papers di Roots Routes n.36 ha dato loro l’occasione di riprendere e ampliare il dialogo, facendo emergere alcune considerazioni su cui costruire la proposta di un modello somatico dell’insegnamento. Lasciando l’elaborazione della proposta a futuri contributi testuali, questa conversazione è inquadrabile piuttosto come l’antefatto di un percorso di ricerca che si sta tuttora compiendo.

Alice: Si discute spesso del bisogno di ripensare l’insegnamento, ma durante l’ultimo anno la didattica a distanza ha reso questo argomento ancora più urgente. Come insegnanti, siamo stati spinti a sperimentare nuovi strumenti per insegnare ma non a riconsiderare l’approccio. La disponibilità di strumenti tecnologici non è stata sempre accompagnata da un ripensamento del modello di insegnamento. A qualsiasi fascia d’età si rivolga, la didattica a distanza ha un problema centrale: venendo meno la dimensione della presenza fisica, e quindi di una relazione non mediata dalla tecnologia, emergono criticità che incidono sulla qualità dell’insegnamento da una parte, e dell’apprendimento dall’altra. Quindi credo che affrontare questo tema adesso sia non solo attuale ma anche urgente.

Silvia: Tra l’altro si parla di rinnovamento ma in qualche caso, per esempio nell’arte e nel design, basterebbe iniziare riprendendo qualcosa che in passato c’era e poi è stato messo da parte.

Alice: Penso a Johannes Itten. Nel periodo in cui insegna al Bauhaus chiamato da Gropius (tra il 1919 e il 1923), Itten estende la sua personale filosofia di vita, dall’impronta mistica e orientale, al modo di insegnare. Propone esercizi di respirazione e di concentrazione sulle percezioni somatiche, utili a conquistare la consapevolezza dell’unità di corpo e mente. Questi sono, secondo Itten, propedeutici all’apprendimento delle basi della progettazione. Oggi lo chiameremmo Basic design. 

Siamo già passati per una sperimentazione di metodi didattici che tengano in considerazione il corpo e la dimensione estetica a esso legata, riconoscendone la fortissima centralità nella “meccanica” dell’apprendimento.

Silvia: Al Bauhaus insegnava anche Gertrud Grunow, che con la sua Teoria dell’armonizzazione proponeva un lavoro di movimento ritmico associato a suono, forma e colori per raggiungere un equilibrio tra corpo e mente (Burchert 2019). Poi, nel 1923, László Moholy-Nagy diventa responsabile del corso propedeutico. Ciò che scrive in quegli anni a proposito dell’apprendimento è notevole: in un testo intitolato Il futuro ha bisogno della persona completa afferma che solo nella persona completa, che è “forte, aperta e felice”, può trovare fondamento una successiva specializzazione (Moholy-Nagy 1929, p.11). Un altro caso in cui il corpo è stato messo al centro della ricerca è stato negli anni Settanta il lavoro di Global Tools, guidato dall’idea che l’educazione dovesse coincidere con la vita. Questo  gruppo di architetti e designer, legati all’esperienza dell’architettura radicale italiana, proponeva workshop di ricerca intorno al tema del corpo, mettendolo in relazione con oggetti improbabili e disfunzionali per creare nuova consapevolezza (Borgonuovo e Franceschini 2018). Nella loro diversità, questi esempi hanno qualcosa in comune con il nostro interesse per la somatica. 

Alice: Proviamo a definire “educazione somatica”.

Silvia: Con educazione somatica ci si riferisce a quei metodi, in genere legati al movimento, che partono dalla consapevolezza di sé, da un’osservazione delle proprie percezioni e dal riconoscimento del corpo, o meglio del soma, come luogo dell’intelligenza e fonte principale dell’apprendimento. Martha Eddy ne ha dato una definizione molto più ampia e precisa (Eddy 2017, pp.5-8). Credo che l’educazione somatica possa farci da modello perché rappresenta molto di ciò che noi vorremmo realizzare nell’educazione in generale. È fondata sull’essere accompagnati in esplorazioni attive e consapevoli e non sull’essere riempiti di contenuti; questo “riempimento”, che Paulo Freire chiamava “educazione depositaria”, rappresenta l’opposto dell’educazione “coscientizzante” (Freire 1970). Nell’approccio somatico l’insegnante ti affianca e ti sostiene in un percorso ma non ti impone niente, anzi, ti aiuta a riconoscere e a chiarire la tua esperienza. Non ci sono modelli a cui attenersi, né movimenti da imitare. E poi c’è la condivisione, grazie alla quale ciò che scopri viene portato in una dimensione intersoggettiva. Così l’attenzione alla tua esperienza non ti porta a chiuderti a quelle degli altri, anzi, ti rende più disponibile a riconoscerle. Questo è la normalità nell’educazione somatica, ed è ciò che dovrebbe succedere sempre quando si apprende e quando si insegna.

Alice: L’apprendimento tramite il corpo in movimento è assolutamente connaturato all’uomo. Fin dalla nascita il corpo si protende nello spazio, muovendosi. A partire da una porzione di spazio molto circoscritto, che è il grembo della madre, il bambino guadagna gradualmente l’autonomia motoria che gli permette di sviluppare un reticolo di coordinate elaborate, in modo progressivo, muovendosi. L’uso del corpo come interfaccia per l’apprendimento, dunque, è quanto di più spontaneo possa esserci. Tuttavia, nel percorso di scolarizzazione che ognuno di noi intraprende la dimensione estetico-percettiva legata al corpo viene via via separata dagli aspetti più esclusivamente cognitivi, anestetizzando la capacità somaestetica di cui siamo naturalmente dotati. 

Somaestetica è una parola coniata da Richard Shusterman nel suo Coscienza del corpo (2012) unendo due termini di origine greca: “soma”, che è il corpo in quanto unità – e non già separazione – di carne e mente; ed aisthesis nel senso etimologico di conoscenza derivata dalle sensazioni. Quindi somaestetica significa capacità di sentire tramite il corpo, anzi tramite il soma come unità indivisibile di corpo e mente. Esercitare la capacità somaestetica vuol dire conoscere e potenziare il nostro intero sistema percettivo somatico nell’apprensione del mondo circostante, che si tratti dell’ambiente spaziale o di un oggetto, ma anche della relazione intersoggettiva. 

Partendo dalla considerazione che il coinvolgimento del soma nella percezione è sì innato, ma nella maggior parte delle nostre azioni è implicito e automatico, la nostra proposta riguarda la possibilità che, prima ancora di insegnare allo studente come si fa a percepire meglio questa dimensione, sia l’insegnante a fare questo lavoro su di sé in modo tale da essere una guida che permette l’emergere di un modo diverso di relazionarsi all’interno della cornice dell’apprendimento. Affinché una relazione sia significativa, divenendo perciò funzionale a uno scopo di apprendimento, è importante che entrambe le parti siano sufficientemente coscienti del coinvolgimento del loro soma nello scambio relazionale. 

Silvia: E questo richiede un ripensamento del nostro ruolo come insegnanti. Mi sono accorta che le mie esperienze somatiche solo dopo un certo tempo hanno avuto effetto nell’ambito educativo. Avevo interiorizzato gli esempi di insegnamento che ho ricevuto, che erano di tutt’altra natura; per superarli ho dovuto disimparare molto. È stato inevitabile, perché il percorso che avevo fatto metteva in luce delle contraddizioni nel mio insegnamento. 

Attingere alle nostre conoscenze somatiche e portarle nell’insegnamento non è scontato né immediato ma, con diversi gradi di libertà, credo che sia possibile farlo quasi ovunque. Certo, c’è la scuola come istituzione, ci sono le aspettative degli studenti, che vengono da scuole che spesso non hanno permesso loro di coltivare questo aspetto… Bisogna anche avere il coraggio di esporsi: finché ti senti costretta dall’istituzione o ti ci nascondi dietro – anche se non ti impone esplicitamente niente, è comunque un contesto che condiziona la relazione – queste possibilità non si aprono. Dobbiamo essere disponibili a non considerarci figure detentrici del sapere, che “trasferiscono” questo sapere alle persone che hanno di fronte, ma persone in continua ricerca. Per me è stato importante lavorare con Elisa Ghion, insegnante di Contact improvisation. Elisa è in ricerca mentre insegna, si interroga sulla direzione da prendere strada facendo in base a ciò di cui ha bisogno il gruppo. Il suo esempio mi ha mostrato che si può fare senza spiazzare chi impara. Così l’insegnante diventa tutt’altro rispetto all’idea che se ne ha comunemente.

Alice: Sì, l’insegnante è più un accompagnatore, un elemento che partecipa alla ricerca in modo paritario. Il suo apporto è fondamentale per le conoscenze che ha e mette a disposizione, in più però accompagna con un ruolo di facilitazione. Si costituisce come elemento abilitante per processi di apprendimento condiviso e cooperativo. Mettersi – come hai detto tu – “in ricerca”, coltivare il dubbio, accettare il disorientamento e valorizzarlo come possibilità di esplorare nuove strade sono atteggiamenti che, se tenuti dall’insegnante, promuovono la partecipazione e la collaborazione. A questo proposito mi è venuto in mente un programma di ricerca della UAL-University of the Arts London. Cultures of Resilience (Manzini & Till, 2015) ha previsto numerosi workshop pensati per elaborare collettivamente delle pratiche artistiche finalizzate a riconnettere luoghi e persone normalmente distanti. Analizzando alcune di esse, Carla Cipolla (2018) osserva che cruciale nel favorire nuove relazioni all’interno delle attività proposte è stato l’aspetto della vulnerabilità, la disposizione a riconoscere e mostrare di essere esposti a un potenziale vulnus da parte dell’altro. Il riconoscimento della vulnerabilità consente l’accesso all’altro. Senza questo passaggio la relazione resta superficiale, sostiene Cipolla. Viceversa la relazione significativa, anche se temporanea,  passa per una reciproca disponibilità ad essere vulnerabili. La vulnerabilità è anche molto legata alla propria fisicità, a ciò che ‘mostriamo’ del nostro corpo, all’atteggiamento prossemico che dichiara apertura o meno all’altro. 

Silvia: L’aspetto relazionale di cui parli è fondamentale nella pratica del design e dell’arte: è un motivo in più per portare l’approccio somatico nel nostro insegnamento a livello universitario in questi ambiti. Si dà per scontato che artisti e designer sappiano creare delle modalità aperte di relazione con gli altri nel proprio lavoro, ma se questa cosa non la si è esercitata negli anni dell’apprendimento, se chi insegna propone un modello gerarchico e “trasmissivo”, ci si trova sprovvisti di queste risorse. Questo l’ha sottolineato bene Fernanda Villari, una studentessa di cui ho seguito di recente come relatrice la tesi, dedicata proprio all’apprendimento. Riguardo alle sue esperienze di studio, mi ha detto di aver notato spesso uno scollamento tra l’importanza data a parole al valore sociale del design e la mancanza di un approccio veramente aperto e dialogico nella didattica. 

È necessario provare a comprendere il punto di vista di chi apprende, e mettere da parte la voglia di trasmettere tutte le proprie conoscenze. L’idea di un programma predefinito da svolgere andrebbe abbandonata, perché non può esistere un programma finché non si incontra quel gruppo specifico di persone. Non è un’idea nuova – Freire parlava di ricerca comune del “contenuto programmatico dell’educazione” (Freire 1970) – ma è difficile trovarla applicata. Se cerco di capire cosa cercano le persone che studiano con me, posso fare proposte che si mettono in relazione con la specificità di quella situazione. È importante ricordarsi cosa è stato per noi apprendere, i momenti in cui qualcosa è diventato “nostro”, e ciò che invece abbiamo rapidamente dimenticato. Tempo fa ho partecipato a un workshop con Ivano Gamelli, che insegna Pedagogia del corpo all’Università di Milano Bicocca. Mi aspettavo che mi desse degli strumenti pratici per lavorare con gli studenti, invece mi ha spiazzato: abbiamo lavorato su di noi, sui nostri modelli, sulle nostre esperienze. Mi è stato chiaro che qualunque trasformazione somatica nel mio insegnamento doveva passare prima di tutto da un lavoro su me stessa. Abbiamo tutti delle esperienze che possono farci da modello a cui attingere quando vogliamo coltivare quella parte di noi. Gamelli parla di trovare una “postura”, mi piace molto questa parola (Gamelli 2016).

Alice: Infatti per questo è interessante partire dalle nostre esperienze personali. Il tentativo di individuare nel tempo e nello spazio della nostra vita i momenti, le cose, le attività che ci hanno portato alla consapevolezza di ciò che in quel momento stavamo facendo con il corpo, ci conduce a riflettere su questo tema. Se l’insegnante prima di tutto lavora su di sé, al contempo fare in modo che lo studente si interroghi su quali sono i suoi punti di accesso alla somaestetica diventa possibile e lo spinge a considerare attentamente questo aspetto. In effetti non è detto che per tutti il punto di accesso sia lo stesso. Ci sono esperienze radicate in noi che riconosciamo più facilmente come estetiche – ad esempio contemplare un dipinto – e altre che lo diventano se le guardiamo dalla prospettiva somatica. Una volta capito di cosa si tratta riusciamo a individuarle anche indietro nel tempo e nello spazio.  

Cercando di mettere a fuoco un percorso personale emerge, per quanto mi riguarda, un intreccio di esperienze legate principalmente agli ambienti del Gruppo T e in generale all’Arte Programmata, alla frequentazione assidua delle architetture urbinati di Giancarlo De Carlo e ai due sport che ho praticato: equitazione e nuoto. Scomodando il  “tutto fa brodo” di P.K. Feyerabend, posso dire che gli elementi di questo intreccio hanno formato la mia capacità somaestetica.  

Gli ambienti immersivi e interattivi e gli spazi architettonici antimodernisti, da una parte; il contesto acquatico e la relazione con l’animale, dall’altra, hanno in comune lo spiazzamento che provocano, il disequilibrio per cui il soma è portato ad adattarsi a situazioni ambientali o relazionali in continua variazione. 

Prendendo in considerazione l’equitazione, tra te e la terra c’è di mezzo il cavallo. Mentre nel nuoto sei immerso in un liquido che incide moltissimo sul modo in cui ti puoi muovere. Dell’equitazione e del suo potenziale nello stimolare la consapevolezza somaestetica accenna anche Kristina Höök nel suo Designing with the body (2018). Höök sostiene la necessità di progettare partendo da una lettura cosciente e attenta di quello che il corpo fa. 

Il cavallo ha una sua personalità autonoma, un suo corpo con le sue sensazioni. Il cavaliere esegue movimenti, anche minimi, che diventano comandi che il cavallo riceve per via somatica. Per far funzionare in modo efficiente la relazione si deve stabilire nel tempo il binomio cavallo-cavaliere, in cui i due corpi si adattano reciprocamente, trovando una loro aderenza. 

Il nuoto, invece, richiede delle capacità propriocettive particolari chiamate ad agire in un ambiente estraneo alla quotidianità, cioè l’acqua, che fornisce al sistema vestibolare feedback completamente diversi rispetto all’aria. L’unità corpo-mente, il soma, deve calarsi in una situazione nuova, e a volte deve addirittura sforzarsi di immaginare. Ad esempio, per trovare i punti di appoggio della mano nell’acqua – cioè per fare in modo che la mano “prenda” l’acqua – ci si può immaginare di aggrapparsi a un blocco solido per tirarsi in avanti. Si trasforma il fluido in qualcosa di solido con un atto di immaginazione motoria. Per arrivare a questa finezza di controllo, è necessario un continuo esercizio di consapevolezza somaestetica e di propriocezione. 

La relazione, assente nel nuoto, nell’equitazione è invece una dimensione molto importante – anche se è una relazione uomo-animale – che spinge il cavaliere a essere cosciente di quanto e come ogni variazione anche microscopica, ogni spostamento del baricentro o differenza di respiro possa influire sul movimento del cavallo.

Attività di movimento nel giardino dell’ISIA Urbino. Foto di Borja Martinez, 2018

Silvia: Molto di ciò che hai detto sulla relazione posso collegarlo alla mia esperienza con la Contact improvisation, una forma di danza nata negli anni settanta negli Stati Uniti, basata sull’interazione tra due o più persone a partire dallo scambio di peso. Richiede da una parte grande disponibilità e ricettività, dall’altra grande chiarezza: non si comunica verbalmente, l’intenzione è trasmessa col corpo e se non è chiara è difficile per gli altri interagire con te. Infatti si usa la parola “ascolto” in senso esteso: è una forma di attenzione aperta e inclusiva in cui tutti i sensi, compresa la propriocezione e la cinestesia, raccolgono quello che avviene intorno a te, e in particolare la comunicazione che passa attraverso il punto di contatto con l’altra persona, che cambia continuamente col movimento. In base a queste informazioni il soma prende le sue decisioni. Lo sguardo diventa secondario: serve più che altro per conoscere lo spazio. È importante poi non affezionarsi troppo a un’intenzione, perché l’altra persona può interpretarla a suo modo e portare il movimento in una direzione diversa rispetto alle tue aspettative.

Questa esperienza di continua sorpresa e spiazzamento è utilissima per l’insegnamento, perché ti rende disponibile a ripensare quello che avevi in mente: impari a lavorare con quello che c’è in quel momento. Un punto di svolta è quando ti accorgi che cadere non è un fallimento, ma l’inizio di un movimento che non avevi previsto. Portando questa idea nella didattica: che cosa vuol dire per un’insegnante “cadere” di fronte a una classe? Può essere, per esempio, ammettere di non avere una risposta: puoi dirlo onestamente, e avviare insieme la ricerca per rispondere alla domanda. 

L’importanza dell’improvvisazione l’ho trovata anche in Emergent strategy, un libro di Adrienne Maree Brown, attivista e facilitatrice statunitense (brown, 2017). Uno dei suoi principi è Less prep, more presence!. Ha ragione, bisogna prepararsi di meno ed esserci di più! Spesso utilizzo solo una parte del materiale che preparo per ogni lezione, perché la situazione mi porta in una direzione diversa. Ed è questo che conta, la presenza, che se viene coltivata può esserci anche nella didattica a distanza. Presenza è essere aperta a ricevere richieste e proposte, a rispondere a quelle anziché proseguire come avevi previsto. Alcuni contesti limitano l’improvvisazione, per via delle strutture, delle aspettative, o dell’alto numero di studenti. Per fortuna ci sono degli spazi dove posso coltivarla con libertà. 

L’altra esperienza somatica che sta avendo un forte effetto su di me è la consapevolezza attraverso il movimento di Moshé Feldenkrais. È fondata su movimenti minimi, che richiedono però un’attenzione focalizzata e un continuo confronto tra le proprie sensazioni nei vari momenti di attività e di pausa. Inoltre l’insegnante non mostra il movimento, lo descrive solo, lasciando che chi impara trovi il suo modo di farlo; a volte propone di immaginarlo soltanto. Feldenkrais parla di apprendimento organico, affermando che questo è il modo in cui si apprendono le cose più importanti (Feldenkrais 1977). È una pratica lenta, che insegna la sperimentazione paziente, come direbbe Tim Ingold (Ingold 2017). Nell’educazione somatica bisogna avere pazienza e non aspettarsi risultati immediati o predefiniti, ma accogliere quello che si scopre strada facendo. 

Alice: La pazienza e l’apertura verso l’inatteso sono senza dubbio atteggiamenti di importanza cruciale sia per insegnare che per apprendere. Tra le prime cose che propongo agli studenti come introduzione per l’intero corso c’è la visita alle architetture di Giancarlo De Carlo a Urbino, da cui io stessa ho imparato molto in termini somaestetici. Sono sempre piuttosto perplessi di fronte a questa attività, che non riescono a inquadrare in ciò che si aspetterebbero da un corso di Storia dell’arte contemporanea. Le ragioni per cui ritengo ogni anno di dover cominciare con un giro architettonico sono di due ordini. Intanto l’architettura di De Carlo è un elemento di forte rottura – anche se solo apparentemente – rispetto al tessuto storico a cui i ragazzi sono abituati ed è una traccia di contemporaneo che va assolutamente riconosciuta. In secondo luogo gli spazi di De Carlo sono disseminati di piccole e grandi sorprese somaestetiche, inciampi per un soma poco attento che viene continuamente stimolato a partecipare attivamente all’esplorazione cinestetica. Ai ragazzi resta nella memoria somatica questa prima esperienza che diventa una sorta di porta d’accesso al paradigma contemporaneo delle arti. 

Silvia: A proposito di esperienza dello spazio, questo è un altro fattore che ci condiziona nell’insegnamento. Spesso è difficile modificarlo, ma anche quando si lavora in spazi strutturati si può provare a indirizzarli diversamente con delle azioni, per esempio sedendosi in un punto diverso da quello previsto. Nelle attività somatiche è consueto avere un momento di confronto tra i partecipanti disposti in cerchio. Tutti vedono tutti, ogni persona interviene collegandosi a quello che ha detto la persona prima di lei, in modo spontaneo, senza fretta, accettando volentieri anche il silenzio. Il cerchio è una forma potente di incontro perché scardina la gerarchia che colloca l’insegnante a un’estremità dello spazio, in un luogo separato. Quando ci si siede in cerchio, si dà attenzione alle parole che vengono portate nello spazio delimitato dai nostri corpi. L’insegnante è partecipe quanto gli altri, non osserva dall’esterno. Ecco, questa cosa è la normalità nell’educazione somatica, ed è invece una rarità nella scuola, perciò cerco di ricrearla il più possibile in classe. Nell’unica lezione che ho tenuto finora in presenza quest’anno per creare il nostro cerchio abbiamo dovuto letteralmente smontare un’aula.

Alice: A questo punto potremmo ricapitolare e avanzare qualche proposta.

Silvia: Prima di tutto, invitiamo chi è interessato a partecipare a questa conversazione con noi. La nostra idea è che chiunque abbia un suo punto d’accesso alla somaestetica, un’esperienza di apprendimento da cui attingere per ricreare in noi le stesse condizioni che si spera di poter dare a chi apprende con noi. 

Poi vorrei riprendere due concetti. Il primo è il disorientamento come momento positivo, descritto da Ann Cooper Albright nel suo libro How to Land come un’occasione preziosa per imparare ad agire in situazioni di incertezza (Albright 2018). Il secondo viene da László Moholy-Nagy che, quando descrive lo stato originario della “persona intera”, parla di “organica sicurezza di sé” (Moholy-Nagy 1929, p.11). Per me non si tratta una sicurezza di sé basata unicamente sulla conoscenza o peggio sull’arroganza data dal ruolo. Posso essere sicura di me anche se sono disponibile a essere disorientata, o a ricredermi; questa sicurezza è organica perché radicata nell’esperienza, nella fiducia in ciò che i miei sensi percepiscono, nella capacità del mio soma di farlo diventare un sapere organico e integrato. La dimensione intersoggettiva fa sì che la mia conoscenza non diventi più importante dell’esperienza degli altri, ma sia uno strumento che metto a disposizione. È necessario riconoscere il luogo in cui si è ora, questo particolare punto sul nostro percorso, e su questa base costruire onestamente una proposta di insegnamento e apprendimento insieme a chi studia con noi.

Alice: A questo si ricollega il tema della vulnerabilità intesa come disponibilità all’apertura. E mi fa venire in mente il teorico dell’antifragilità, Nassim Nicholas Taleb, quando dice: «Non credo nell’apprendimento strutturato; al contrario, credo che si possa essere intellettuali senza essere secchioni, purché si abbia una biblioteca privata al posto di un’aula e si trascorra il tempo come flaneur privi di scopo (ma razionali) beneficiando di ciò che il caso può offrirci fuori e dentro la biblioteca. A patto di possedere il giusto rigore, abbiamo bisogno di casualità, confusione, avventure, incertezza, scoperta di sé, eventi quasi traumatici» (2013, p. 264). Per essere antifragili dobbiamo prima di tutto essere sempre in dubbio perché la certezza inamovibile ci rende rigidi; possiamo invece accogliere il dubbio in senso positivo, assecondare il disorientamento e disporci alla vulnerabilità. Anche la questione dello spazio circolare, anti gerarchico, è una proposta pratica per ripensare l’insegnamento in senso somatico.

Potremmo concludere sottolineando che le nostre esperienze, nella loro diversità, dimostrano che per esercitare la percezione somatica – meglio, la somaestetica – non è necessaria una disciplina specifica, quanto un’attenzione costante e una disposizione di ascolto del corpo, proprio e dell’altro, in qualsiasi cosa si stia facendo: una passeggiata architettonica, uno sport e tutto ciò che implichi un coinvolgimento anche minimo del corpo. In questo senso l’esercizio somaestetico è alla portata di tutti.

Bibliografia
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Cipolla C.
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Alice Devecchi è PhD in Design, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Urbino e curatrice indipendente. La sua ricerca si concentra sulle intersezioni tra pratiche artistiche contemporanee e tematiche trasversali a spazio, movimento e intersoggettività.

Silvia Sfligiotti è graphic designer, docente e critica della comunicazione visiva. Co-fondatrice dello studio Alizarina, svolge ricerca sulla storia del graphic design e sul rapporto tra progettazione e movimento somatico. Insegna all’ISIA Urbino, alla Scuola Politecnica di Design Milano e all’Università della Repubblica di San Marino.