§memorie di famiglia
Il peso delle cose. Gli oggetti quotidiani nelle memorie familiari di vittime, perpetratori, astanti.
di Elena Pirazzoli

«Il modo in cui gli oggetti vengono tramandati è pura narrazione. Ti lascio questo perché ti voglio bene. Oppure perché qualcun altro lo ha lasciato a me. Perché l’ho comprato in un luogo speciale. Perché te ne prenderai cura. Perché ti complicherà la vita. Perché farà schiattare di invidia il tale o il tal altro. Le eredità non sono mai banali. Che cosa viene ricordato e cosa dimenticato, nel passaggio? L’oblio può perpetuarsi, i possessori di un tempo esser via via cancellati, ma può anche verificarsi l’opposto, una lenta accumulazione di storie».
(De Waal, 2012)

Cose sopravvissute
Gli oggetti del quotidiano, raccolti in cumuli o sopravvissuti singolarmente, sempre più nel corso del Novecento sono diventati per noi indici delle vittime: per quello che riguarda l’Occidente, questo fenomeno ha assunto proporzioni estreme nel caso della Shoah. Le cose sono percepite come metonimie delle persone cui sono appartenute, come testimoni muti degli accadimenti, reliquie per contatto dei corpi che hanno vestito, calzato, decorato, di cui sono state strumenti, necessità, doni.

Diverse narrazioni – documentarie o finzionali – hanno seguito la strada delle cose per raccontare la scomparsa e darle sostanza. Tra i tanti esempi, i netsuke di avorio da cui parte Edmund De Waal per ricostruire le vicende di un ramo della propria famiglia, gli Ephrussi, in Un’eredità di avorio e ambra (2012). Oppure gli oggetti raccolti, suddivisi per categorie e conservati in scatole da Augustine (o colei che si pensa essere tale), l’anziana donna ucraina cercata da Jonathan Safran Foer in Ogni cosa è illuminata (2002), e descritta nel suo ruolo auto-attribuito di custode delle ultime tracce degli abitanti dello shtetl di Trachimbrod. 

Cose preziose, utili o anche solo care, seppellite dai loro proprietari prima della fuga o implose dopo la distruzione del paese, giacciono sotto terra in un’attesa senza fine. Quella che ci appare come un’invenzione narrativa dell’autore corrisponde in realtà a verità: dal terreno dei Vernichtungslager (“campi di sterminio”) ovvero Chełmno, Treblinka, Sobibór e Bełżec, affiorano ancora piccoli effetti personali – pettini, bottoni, anelli, fermacapelli – o i loro frammenti, ora oggetto di scavi archeologici del recente passato (Gilead, Haimi e Mazurek, 2010). E già nel 1944 Vassilij Grossmann, quando era corrispondente al seguito dell’Armata Rossa, raccontava dei bagagli spogliati ai deportati di Treblinka: avviate le vittime all’eliminazione, le guardie procedevano a selezionare gli oggetti in preziosi o utili – da mandare nel Reich – oppure di nessun valore, «infinitamente cari per i loro legittimi proprietari e mero ciarpame per i signori di Treblinka», che venivano gettati in fosse nel terreno (Grossmann 2010, p. 30).

Ancora più che nel romanzo, nella trasposizione filmica (regia di Liev Schreiber, 2005) il protagonista, discendente di un salvato, si definisce “a collector of family things”: un collezionista di “cose familiari”, ossessionato dagli oggetti, concepiti come tracce di ogni singolo istante di una vita umana, che lui trattiene per paura di dimenticare – “because sometimes I’m afraid to forget”. Memorabile è la scena in cui si vede la parete della stanza del protagonista fitta di buste di plastica trasparente, ognuna contenente una “cosa familiare” accompagnata da un’annotazione catalogatrice.

È l’archivio di un “collezionista di attimi” – riprendendo Heinrich Böll – ovvero di incontri, persone, stati d’animo, emozioni: un progetto infinito e impossibile che nasce dalla necessità di non perdere nulla, di registrare tutto, per arginare il vuoto di una scomparsa ereditata e inelaborabile.

Effetti personali di Warwara Zenzura, #StolenMemory, Arolsen Archives

Diversi saggi si sono focalizzati sul valore e il peso di questi oggetti per le generazioni successive (in particolare, Hirsch e Spitzer, 2006). Negli ultimi anni, alcune istituzioni hanno organizzato progetti di ricerca e restituzione di oggetti personali, divenuti – per il destino in cui sono incorsi i loro proprietari e/o per il passare del tempo –  necessariamente oggetti familiari, da consegnare a eredi. Dal 2016 gli Arolsen Archives – International Center on Nazi Persecution hanno portato avanti il progetto #StolenMemory, aprendo i propri fondi non solo documentali, ma fitti di oggetti confiscati e ritrovati. La necessità di un servizio di registrazione e rintracciamento delle persone scomparse prese corpo nel 1943 negli Allied Force Headquarters di Londra e venne affidata alla British Red Cross: nel dopoguerra gli uffici dell’International Tracing Service (ITS) furono collocati a Bad Arolsen, cittadina dell’Assia, in posizione centrale tra le diverse zone di occupazione. La natura di questo archivio nasce così da un’esigenza cruciale del dopoguerra: ritrovare persone, riconnettere familiari, tracciare destini individuali.

Nel tempo sono stati convogliati qui milioni di documenti: liste di trasporto e di esecuzione, schede personali di deportati, internati, Zwangsarbeiter (lavoratori coatti), nominativi di eliminati nel sistema concentrazionario nazista o sfuggiti alla morte e raccolti in campi per DPs – displaced persons. Insieme agli incartamenti, sono arrivati qui anche più di 3.000 effetti personali appartenuti a queste stesse persone, loro confiscati all’arresto e depositati negli archivi dei campi, in particolare Neuengamme e Dachau: portafogli, documenti d’identità, foto, lettere, certificati, ma anche piccoli gioielli, fedi, orologi, penne stilografiche, portasigarette. Oggetti di nessun valore se non quello affettivo – e reliquiale.

Nel 2007 gli Arolsen Archives sono stati aperti ai ricercatori, dalla seconda metà degli anni 2010 una parte dei documenti digitalizzati è consultabile on line; dal 2016 il progetto #StolenMemory pubblica sul sito dell’istituzione e attraverso i social media gli oggetti e le notizie che li riguardano e organizza mostre itineranti attraverso l’Europa, andando alla ricerca dei discendenti dei loro proprietari. A oggi, ne sono stati restituiti alcune centinaia.

StolenMemory still dal video. Effetti personali di Wiesława Brzyś, madre di Wanda Jaronszyńska

Un analogo progetto è portato avanti dalla Zentral- und Landesbibliothek di Berlino: una ventina di anni fa si è deciso di capire – o meglio affrontare – la natura inventariale di tutti i volumi rubricati con un numero progressivo anticipato da una J. Descritti nei cataloghi del dopoguerra con l’eufemismo Geschenke, “donazioni”, erano invece frutto della spoliazione sistematica di ogni bene degli ebrei – Juden – della città. A questi beni confiscati, definiti NS-Raubgut, sono stati nel tempo aggiunti anche quelli che furono venduti a forza dai loro proprietari perseguitati, in modo da poter racimolare denaro per la fuga o la sopravvivenza. È stato quindi avviato nel 2002 un progetto sulla provenienza dei volumi della biblioteca, cercando di risalire attraverso ex libris o annotazioni ai loro legittimi proprietari o ai loro eredi. Una ricerca estremamente difficile, il cui unico esito, a volte, è quello di far emergere i destini terribili dei proprietari dei libri.

In occasione della 14. documenta di Kassel, l’artista Maria Eichhorn ha esposto parte di questi volumi nel quadro di un suo più ampio lavoro sulla NS-Raubkunst, “l’arte rubata” dai nazisti. Arte, ma anche solo oggetti quotidiani, mobili, strumenti musicali, stoviglie, giocattoli, libri, all’interno di un complesso progetto di arianizzazione e ridistribuzione di quei beni, o del loro sfruttamento economico in forma di materie prime.

Maria Eichhorn, Unlawfully Acquired Books from Jewish Ownership by the Berliner Stadtbibliothek in 1943, registered in Zugangsbuch J (accession book J), documenta 14, Kassel, 2017 (foto: Elena Pirazzoli)

Cose compromesse

«[…] il periodo nazista aveva derubato i tedeschi di tutti gli oggetti abbastanza buoni; ciò ha portato alla crescita di uno sconfinato sentimento di vergogna e colpa, al quale i tedeschi reagiscono inconsciamente con una penetrante invidia verso coloro che hanno tutta la moralità dalla loro parte. I tedeschi non potevano riformare un legame con gli oggetti buoni perché gli oggetti stessi contenevano aspetti del nazismo. Coloro che appartenevano alla seconda generazione non dovevano lavorare sulla perdita di un oggetto come nel caso di un normale processo di lutto. Piuttosto, il loro problema era come trovare un oggetto, poiché l’oggetto era compromettente, danneggiato, frammentato, con aspetti negativi che erano stati scissi».
(Friedrich, 1995)

Secondo la suddivisione proposta da Raul Hilberg, le figure coinvolte dalla Shoah furono victims, perpetrators, bystanders: se gli oggetti delle vittime sollevano una sensazione di resto sacro da preservare, qual è il destino degli oggetti dei perpetratori e di coloro che hanno assistito? Questi ultimi, sono una categoria difficile da definire: spettatori, astanti, osservatori? Zona grigia? O «soggetti implicati»? (Rothberg, 2019).

Alla fine del conflitto, la Germania fu divisa in settori di occupazione: con modalità e severità diversificate a seconda della gestione statunitense, britannica, francese o sovietica, fino al 1951 fu attuato un programma di Entnazifizierung, “denazificazione”. Attraverso la somministrazione di questionari, i tedeschi furono classificati in base al loro grado di adesione al regime: dai perpetratori criminali ai seguaci conformisti, che ne trassero delle opportunità personali. I criminali maggiori – successivamente denominati NS-Täter, gli autori dei crimini – furono processati, mentre coloro che vennero identificati come Mitläufer – chi “corre insieme”, seguendo la corrente – vennero esclusi da alcune professioni pubbliche. Dai questionari emerse come la massa dei cittadini avesse in qualche modo aderito al regime: pochissimi si erano opposti, la maggioranza aveva scelto il nazismo per convinzione, opportunismo, indifferenza.

Dopo una prima fase di sanzioni, addentrandosi nella Guerra fredda si voltò pagina, aderendo a una forma di silenzio complice: l’adesione al regime divenne una sorta di “conoscenza tacita” per la generazione di Täter e Mitläufer e un segreto, diffuso su scala nazionale, per i loro discendenti (Schwab, 2004, p. 180). Meglio tacere e dimenticare, sia nella sfera pubblica, sia in quella privata, lasciando scivolare nell’oblio ciò che non si voleva affrontare. Tuttavia, il ritorno del rimosso è un fenomeno carsico: il non elaborato riaffiora inatteso, in forme consapevoli o inconsapevoli, e attraversa le generazioni. 

Nel passo citato in esergo, lo psicoanalista Volker Friedrich intende per “oggetti” non solo le cose, ma in generale ciò con cui il soggetto ha o stabilisce una relazione. Ma anche attenendosi alla dimensione letterale, il nazismo ha effettivamente compromesso il rapporto con le cose. Pervadendo tutti gli aspetti della realtà, dalla cultura alla produzione, dall’architettura ai giochi da tavolo, dai caratteri a stampa fino al paesaggio, dopo il 1945 nulla sembra più essere innocente, ogni cosa può celare una relazione – in forma di collusione o abuso – con il passato e il regime.

Lettere, sussidiari, cartoline, figurine, spille e simboli delle associazioni legate alla NSDAP – Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, fino agli album di famiglia: le cose scabrose sono state riversate nei mercatini delle pulci, spezzando i legami con i loro vecchi proprietari e soprattutto rendendo irrintracciabili le connessioni con i loro discendenti.

Nora Krug, German Things n. 1 e From the Scrapbook of a Memory Archivist n. 2

Attualmente è la terza generazione, quella dei nipoti, a trovarsi sulle spalle il peso del passato. Tra questi, l’autrice e illustratrice Nora Krug, che nel graphic novel Heimat. A German Family Album (2018-19) cerca di affrontare il nodo di Schuld und Scham, “colpa e vergogna”: un sentimento collettivo, ereditario e tuttavia superficiale, indistinto. Per precisare questa colpa astratta, questa vergogna ingombrante e imbarazzante, Krug decide di indagare all’interno della propria storia familiare, per conoscere le scelte – o le non-scelte – dei propri nonni e zii; per trasformare il senso di colpa in un’assunzione di responsabilità. La ricerca non può che partire dalle tracce lasciate dai propri familiari: lettere, diari, documenti, stoccati e dimenticati in cassetti, cantine, soffitte. 

“Da piccola avevo scovato una scatola che puzzava di muffa nel cassetto del mobile di mogano in salotto. Dentro c’erano le vecchie foto di mio zio e alcuni suoi quaderni di prima media. Riportavano il ciclo vitale del maggiolino e la storia della selvicoltura europea, le eroiche avventure dei vichinghi e la rovinosa guerra dei trent’anni. L’importanza della carità e la necessità dell’igiene personale, la difficile infanzia del Führer che aveva ripristinato la festa della mamma per omaggiare le donne tedesche e i loro figli ariani. […] Mio zio per me era un perfetto estraneo. […] Guerra e morte erano le uniche cose che associavo a lui. Siccome era stato un soldato di Hitler, ho imparato ben presto che non dovevo dispiacermi per la sua morte prematura. Le foto e i quaderni di scuola erano l’unica prova fisica della sua esistenza, e io lo cercavo disperatamente fra le righe dei suoi scritti propagandistici. Era come tastare un muro di cemento alla ricerca di crepe e di perdite”.

Il graphic novel di Nora Krug è fitto di oggetti: cose familiari, cose trovate nei mercatini delle pulci, cose tedesche. Parte di questi oggetti sono stati esposti nel 2019 a Bologna, nel quadro del Festival internazionale di fumetto BilBOlBul, dove l’autrice ha presentato il suo lavoro in forma di mostra, dipanando e disponendo nello spazio l’indagine che sta dietro alle tavole del volume. Documenti, cimeli, fotografie, attraverso cui si è mossa la ricerca e che sono state poi montate insieme in collage, sovrapposizioni, riscritture. In uno dei testi che accompagnava l’esposizione, Nora Krug afferma: “Gli oggetti portano con sé l’idea del passato, della Storia, di una testimonianza che possiamo percepire”. Percepire, ovvero prendere coscienza di una realtà attraverso i sensi: l’oggetto assume il carattere di prova d’esistenza di qualcuno o qualcosa, ma allo stesso tempo rimane testimone muto alle domande di chi cerca risposte che vanno ben oltre la materialità. 

Se l’indagine si focalizza sulle cose familiari, altri oggetti, ovvero le “cose tedesche” – Things German – scandiscono le pagine del graphic novel come metafore, dando chiavi interpretative. Rappresentano allo stesso tempo un oggetto concreto, ma anche la sua storia, il suo significato culturale, il ruolo nella tradizione, l’abuso subito nel passato e una possibilità ermeneutica per il presente. In questo senso, il cerotto Hansaplast è “il più adesivo del pianeta e quando lo strappi per guardare la cicatrice, senti male”, mentre la colla Uhu “anche se […] è la colla più forte che esista, non riesce a nascondere le crepe”. Le descrizioni di queste di due cose tedesche aprono e chiudono il volume, dando la misura della fatica, l’amarezza, ma anche l’incompiutezza della ricerca, che non darà mai risposte ai “perché” che infestano le memorie dei discendenti di Täter e Mitläufer.

Susanne Kriemann, 12650

Una perfetta metafora per il peso inconcepibile del passato nazista è lo Schwerbelastungskörper, “corpo dal carico pesante”: una prova di carico costruita per testare il terreno di sedimento di Berlino e verificare gli effetti che avrebbe potuto provocare la costruzione degli imponenti – smisurati – edifici di regime. Se il grande arco di trionfo con incisi tutti i nomi dei 1.800.000 caduti tedeschi nella Grande guerra e la Grosse Halle concepita per ospitare adunate con 180.000 uditori sono rimaste sulla carta, la concretezza di quei progetti è testimoniata da questo cilindro colossale, dal peso di 12650 tonnellate, alto 12 metri, con un diametro di 21 e uno stelo che sprofonda nel suolo per altri 20 metri circa. 

Nel 2008, in occasione della quinta Biennale di Berlino, con il lavoro 12650 l’artista Susanne Kriemann ha cercato di ricomporre la storia di questa “cosa”: relitto, indizio, corpo del reato. Ha indagato la sua presenza nei giornali fra il 1950 e il 2005, rilevando come sia proprio il dato del peso a cambiare nel tempo nelle descrizioni degli articoli, incrementando negli anni, sempre più gravato dagli aspetti simbolici.

Qualche anno dopo, nel 2012-13, la stessa artista ha collaborato con il Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit Berlin-Schöneweide con una nuova riflessione sugli oggetti e il loro peso storico. Il centro di documentazione sul lavoro coatto è situato nelle baracche di un ex campo nella periferia est della capitale tedesca, riutilizzate come depositi e mantenute fino alla trasformazione museale degli anni 2000. In una sezione dell’esposizione, Kriemann presenta un progetto fotografico sulle tracce del lavoro forzato in Germania, andando alla ricerca di baracche per Zwangsarbeiter ancora esistenti in diverse parti del paese e della città (durante la guerra vi erano 3.000 di questi campi solo a Berlino; si stima fossero 30.000 in totale) e individuando quali oggetti sono prodotti oggi da aziende che negli anni della seconda guerra mondiale si avvalsero della manodopera coatta. Il sistema di sfruttamento dei prigionieri permise al regime, alle fabbriche statali ma anche alle aziende private di continuare a produrre per tutta la durata del conflitto. Nelle sue fotografie, Kriemann mostra gli oggetti resi anonimi, privati di loghi, ma le loro forme familiari li rendono riconoscibili. Cose normali, che tutt’ora abitano le nostre case, ma adombrano la collusione con il nazismo.

Spuren von Zwangsarbeit

Il lavoro di Kriemann si inserisce nel quadro della campagna enthielt Spuren von Zwangsarbeit – “contiene tracce di lavoro forzato” portata avanti dal Centro di documentazione di Berlin-Schöneweide. I 26 milioni di lavoratori forzati (linkare a:https://www.ns-zwangsarbeit.de/recherche/spuren/) – soprattutto cittadini di paesi occupati, ma anche ebrei, rom, sinti e prigionieri di guerra, in particolare gli internati militari italiani – furono impiegati non solo nella produzione bellica, ovvero quella volta a garantire tutto ciò che era kriegswichtig, “essenziale per lo sforzo bellico”, ma per la produzione di oggetti apparentemente innocenti: la birra, il pane, le scope [4].

Le cose compromesse ci appaiono ovunque: nascoste nei recessi più profondi delle case, come esposte sugli scaffali del supermercato. Più che mettere in atto una loro disinfestazione dagli spettri del passato, ora si tratta di integrare gli elementi negativi che sono stati scissi da esse. E, forse, questo potrebbe innescare una comprensione più profonda della nostra storia.

Bibliografia
De Waal E., The Hare with Amber Eyes. A Hidden Inheritance, Chatto & Windus, London 2012; trad. it. C. Prosperi, Un’eredità di avorio e ambra, Bollati Boringhieri, Torino 2012
Friedrich V., The Internalization of Nazism and its Effects on German Psychoanalysts and their Patients, in «American Imago», 3 (fall 1995: Psychoanalysis and Power), p. 266.
Gilead I., Haimi Y., Mazurek W., Excavating Nazi Extermination Centres, in «Present Pasts» 1 (2009), pp. 10-39
Grossmann V., L’inferno di Treblinka (ed. orig. 1945), Adelphi, Milano 2010
Hilberg R., Perpetrators, Victims, Bystanders. The Jewish Catastrophe 1933-1945, Aaron Asher Books, New York 1992, trad. it. D. Panzieri, Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945, Mondadori, Milano 1994.
Hirsch M., Spitzer L., Testimonial Objects: Memory, Gender, and Transmission, in «Poetics Today», 27 (2), pp. 353–383, 2006.
Kriemann S., 12650, Aprior, Ghent 2008
Krug N., Belonging. A, German Reckons with History and Home, Simon & Schuster, New York 2018; le edizioni successive hanno cambiato titolo: Heimat. A German Family Album, Penguin Books, London 2019, trad. it. G. Granato, Heimat. L’album di una famiglia tedesca, Einaudi, Torino 2019
Rothberg M., The Implicated Subject. Beyond Victims and Perpetrators, Stanford University Press, Stanford 2019
Safran Foer J., Everything is illuminated, 2002; trad. it. M. Bocchiola, Ogni cosa è illuminata, Guanda, Parma 2002
Schwab G., Haunting legacies: trauma in children of perpetrators, «Postcolonial Studies», 2 (2004), p. 177–195.

Elena Pirazzoli, PhD in Storia dell’Arte, si occupa di cultura visuale, studi memoriali e public history. Ricercatrice indipendente, dal 2019 al 2021 è stata Wissenschaftliche Mitarbeiterin per l’Universität zu Köln nel quadro del progetto Le stragi nell’Italia occupata 1943-45 nella memoria dei loro autori. Collabora con Fondazione Villa Emma di Nonantola, Scuola di Pace di Monte Sole, Museo Ebraico di Bologna, Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia e la compagnia teatrale Archivio Zeta.