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Italia, 2030. Immaginare un futuro queer-crip
di Mara Pieri

Introduzione
Come ti vedi tra dieci anni? La maniera in cui ciascun*[1] risponde alla domanda riflette immaginari, speranze, proiezioni, ma anche paure, aspettative, incertezze che emergono da elementi tanto sociali quanto individuali. Da queste risposte si può ricostruire la geografia di una generazione e di vissuti collettivi a partire dalla specificità delle vite individuali.
Questo articolo si propone di riflettere sugli immaginari raccontati in risposta a questa domanda nell’ambito di una ricerca condotta tra il 2016 e il 2019 in Italia e Portogallo. La ricerca ha l’obiettivo di raccontare le esperienze di giovani adulti LGBT+ (lesbiche, gay, bisessuali, trans e non-conformi) con malattie croniche dedicando un’attenzione specifica a tempo, cura e visibilità[2]. Le ragioni per mettere al centro della ricerca questa intersezione risiedono nella molteplice precarietà che le persone LGBT+ con malattie croniche vivono. In primo luogo, esse occupano una zona grigia tra salute e disabilità: nonostante molte malattie croniche siano fortemente invalidanti sul piano quotidiano, non sono riconosciute come disabilità e spesso non sono associate a sintomi visibili. In secondo luogo, come persone LGBT+, esse vivono costantemente esposte alla sistematica omo-transfobia che le priva di diritti e le espone a discriminazioni e invisibilità, in particolare in Italia, dove il quadro legislativo è ancora carente. Infine, per l’appartenenza generazionale alla fascia che va dai 24 ai 40 anni, si tratta di soggetti che hanno vissuto gli effetti della crisi economica del 2008 in un momento in cui l’aspettativa sociale è l’entrata nella vita adulta attraverso la costruzione di una famiglia e l’autonomia economica. Queste forme di vulnerabilità stratificata e intersezionale si co-costruiscono attraverso rimandi tra eteronormatività, capacitismo e neoliberismo.

Le linee dritte: eteronormatività e capacitismo
Prima di passare ad analizzare nel dettaglio gli immaginari prefigurati nel corso delle interviste è opportuno osservare più da vicino il quadro teorico utilizzato per cogliere queste molteplici appartenenze. Quando si tratta di collocare la sessualità e il genere in un più ampio contesto di aspettative culturali e rapporti socio-economici, le teorie queer offrono strumenti di interpretazione estremamente utili. In particolare, la definizione di eteronormatività, coniata da Butler (1993) a partire dall’eterosessualità obbligatoria di Rich (1980), restituisce la pervasività di un insieme di norme sociali orientate a definire l’eterosessualità e l’allineamento tra sesso e genere come normalità. Sara Ahmed (2006) raffigura l’eteronormatività come insieme di linee dritte che l’aspettativa sociale definisce per il percorso individuale di ciascuno: monogamia, riproduzione, matrimonio – rigorosamente eterosessuali – costituiscono tappe di un percorso lineare di realizzazione nell’età adulta. Ogni deviazione da esso si prefigura come un fallimento rispetto all’aspettativa collettiva. Altro pilastro dell’eteronormatività è l’allineamento tra sesso ascritto alla nascita, orientamento sessuale, identità di genere e performance di genere. Come insieme di tali allineamenti, il concetto di normalità definisce una linea di separazione tra ciò che è normale e ciò che è deviante. Il modo in cui l’eteronormatività obbligatoria funziona all’interno dei rapporti sociali si riflette in aspettative implicite e sanzioni esplicite: per esempio, attraverso stereotipi, discriminazione diretta e omofobia istituzionalizzata.
A partire dal concetto di eteronormatività obbligatoria, McRuer elabora la teoria Crip, con l’intento di creare un quadro teorico in cui inscrivere sessualità e disabilità in ottica intersezionale (McRuer, 2006). Il nome “crip” viene da “cripple”, insulto usato in lingua inglese nei confronti delle persone con disabilità. Così come “queer” è un insulto riappropriato e rovesciato nel suo significato peggiorativo per creare una teoria di trasformazione e rivendicazione (Warner, 1993), “crip” rappresenta una forte dichiarazione di intenti che si demarca come differente dai due modelli principalmente usati fino ad allora per analizzare la disabilità, il modello medico e il modello sociale (Monceri, 2017). Pur riconoscendo la dicotomia tra normalità corporale e disabilità come fondamento delle costruzioni sociali della diversità, la teoria crip utilizza una visione al contempo intersezionale e culturale della disabilità. Al centro dell’analisi, McRuer pone il sistema di abilità obbligatoria (2006): al pari dell’eteronormatività, si tratta di un sistema di norme, aspettative sociali, legami strutturali che affermano, producono e riproducono la superiorità della normalità corporale su ogni forma di diversità. Se l’abilità è definita, per comparazione, come assenza di malattia, invalidità o disabilità, il sistema che la riproduce afferma che: l’abilità è preferibile e che rappresenta quello a cui tutti, collettivamente, aspiriamo. Il sistema di abilità obbligatoria richiede costantemente che le persone con disabilità incorporino per gli altri una risposta affermativa ad una sola implicita domanda: “Sì, ma in fondo, non vorresti essere come me?”[3] (McRuer, ibid.: 9).

Eteronormatività e abilità obbligatoria lavorano allo stesso tempo e si rafforzano a vicenda attraverso la riproduzione quotidiana di stereotipi, aspettative e norme. In primo luogo, entrambe si fondano sull’idea che la normalità sia lo specchio di standard naturali e che possa dunque essere riconosciuta in maniera inequivocabile e obiettiva. In questo modo, si presuppone che ciò che devia da tale normalità – ad esempio, l’omosessualità o la disabilità – siano sempre necessariamente visibili e dunque riconoscibili. Questo aspetto è particolarmente importante per l’esperienza di malattia cronica, come vedremo più avanti. Il concetto di normalità è così legato a gerarchie di valore per cui alcune vite contano meno di altre (Butler, 2004): di conseguenza, le vite delle persone LGBT+ e delle persone disabili sono automaticamente considerate meno desiderabili e meno complete di quelle delle persone abili, eterosessuali e cisgender.
In secondo luogo, i sistemi di normalità obbligatoria non producono in sé una cancellazione della devianza: in altre parole, è proprio attraverso la presenza dell’alternativa anormale che la normalità viene rafforzata come traiettoria preferibile. L’esclusione materiale e simbolica delle persone LGBT+ e disabili allerta sulle conseguenze negative dello scostamento dalla norma. Inoltre, rafforza alcuni binarismi concettuali che vanno ben oltre la dicotomia tra etero/omosessuale e abile/disabile: per esempio, uomo/donna, bianc*/non bianc*, ricc*/pover*, cittadin*/stranier*. La struttura dicotomica crea una rassicurazione rispetto all’ordine sociale e consolida così anche il sentimento di appartenenza.
Infine, i sistemi di eteronormatività e abilità obbligatoria attribuiscono alle identità un carattere di fissità nel tempo. Al contrario, sia le teorie queer che la teoria crip si basano sulla fluidità e sull’auto-determinazione come basi del concetto stesso di identità (Butler, 1993; Kafer, 2013). L’abilità costituisce, di fatto, un privilegio estremamente fragile: l’esposizione a malattie, incidenti, e allo stesso invecchiamento pone i nostri corpi costantemente di fronte a cambiamenti inaspettati che alterano la nostra abilità. La normalità corporale riproduce quindi un’illusione di stabilità anche attraverso discorsi individualizzanti che raccontano la disabilità o la malattia come eventi sfortunati che capitano ad alcune persone. In maniera molto simile, la privatizzazione delle scelte LGBT+ è stata (e per molti versi lo è ancora) usata come rassicurazione sul fatto che le deviazioni dalla norma cis-eterosessuale costituiscono un mero fatto individuale. Così, a livello collettivo, la risposta che vediamo spesso è quella di rinchiudere simbolicamente le persone LGBT+ nelle loro camere da letto e le persone disabili dentro le proprie case, come se sessualità e disabilità fossero aspetti che hanno influenza solo sul piano individuale (McRuer & Wilkerson, 2003). I corpi LGBT+ e disabili disturbano quando occupano lo spazio pubblico (le proteste che si ripetono puntualmente durante i Pride ne sono un esempio) perché fanno tremare il senso di stabilità legato al concetto di normalità. Tuttavia, la privatizzazione della sessualità e della disabilità permette alla sfera pubblica di non assumere responsabilità per le ingiustizie sociali che ne derivano e minimizzare così i costi di intervento sociale: una tendenza che il neoliberalismo più recente ha incrementato consistentemente (Kafer, 2013).

La teoria crip permette di inquadrare disabilità e sessualità in maniera intersezionale e tracciare linee di congiunzione che vanno nel profondo di complesse intersezioni identitarie. Ma in che modo le malattie croniche si inscrivono nel discorso sulla disabilità e, in particolare, nel quadro della teoria crip? Per malattie croniche si intendono tutte le condizioni che hanno durata superiore a tre mesi e per le quali è probabile una prosecuzione nel tempo (Armstrong, 2014; Bury, 1982). La parola “cronico”, viene dal greco “kronos”, tempo: si tratta quindi di malattie che permangono nel tempo e che attraverso il tempo mutano. In Italia, si stima che esistano circa 23 milioni di persone con una o più malattie croniche (Censis, 2018). Va detto che nella definizione di malattie croniche si includono condizioni estremamente diverse che vanno dal diabete alle malattie reumatiche, dall’ipotiroidismo alla fibromialgia, fino alla sclerosi multipla, la malattia di Crohn e alcune malattie rare. Un aspetto particolarmente interessante delle malattie croniche è che spesso non si legano a sintomi visibili, anche se possono essere invalidanti e limitare fortemente le attività del quotidiano. Per questo motivo, si tratta di condizioni che occupano una zona grigia tra disabilità e normalità, tra visibilità e invisibilità. Proprio questi aspetti ne rendono particolarmente interessante lo studio, in particolare in relazione ai giovani adulti che, in quanto LGBT+, abitano altre zone di (in)visibilità (Pieri, 2019). Guardando all’abilità obbligatoria come sistema di oppressione, la teoria crip include le malattie croniche come condizioni che espongono chi le vive a forme di discriminazione capacitista e offre così un allargamento del concetto di disabilità che viene dal ribaltamento della prospettiva da cui si guarda ai corpi che si discostano dalla normalità.

© Elia Nadie (2017)

Come ti vedi tra dieci anni? Accettazione e resistenza
La ricerca realizzata si basa su 24 interviste narrative (Poggio, 2004) condotte a persone italiane e portoghesi tra il 2016 e il 2019 in cui le esperienze come persone LGBT+ e quelle di malattia cronica emergono costantemente tessute insieme. La domanda finale, “Come ti vedi tra dieci anni?”, rivela una sorta di punto di arrivo del percorso narrativo, in cui passato e presente si intrecciano per delineare un futuro possibile che riflette tanto la temporalità della malattia quanto quella dei desideri e delle sofferenze legate all’esperienza LGBT+. In questo articolo mi soffermo su alcuni aspetti specifici emersi nelle interviste realizzate in Italia e che disegnano possibili traiettorie di futuri queer-crip.
Un primo aspetto interessante è legato al tema dell’accettazione. Nelle analisi della società italiana, l’accettazione passiva ne è spesso considerata una cifra identificativa e, con un’accezione più negativa, come sinonimo di fatalismo o rassegnazione (Calzada & Brooks, 2013). Le interviste rivelano senza dubbio una forma di accettazione della situazione politica italiana che assume la forma di sfiducia rispetto al cambiamento politico che il paese può esprimere sulle politiche LGBT+. Nonostante i paesi dell’Unione Europea siano stati investiti, negli ultimi dieci anni almeno, da un’onda di interventi legislativi che hanno garantito sempre maggiore contrasto alla discriminazione verso le persone LGBT+, l’Italia è stata piuttosto lenta nel mutamento in questo senso e oggi rimane al 34esimo posto su 49 in quanto a politiche LGBT+[4]. La tappa più significativa è avvenuta nel 2016, con l’approvazione delle unioni civili per le persone non-eterosessuali, resa possibile solo a costo della rinuncia ad altri diritti fondamentali, come il riconoscimento della stepchild adoption (Lasio & Serri, 2019; Franchi & Selmi, 2018). La volgarità e la violenza dei dibattiti politici che hanno preceduto la discussione di ogni legge che avesse a che fare con politiche LGBT+, in effetti, generano nelle persone intervistate un senso di scoraggiamento riguardo al futuro. Per molte di loro, la questione della genitorialità rimane una questione centrale non solo per quanto riguarda il contesto di diritti in cui si può realizzare, ma anche perché legata indissolubilmente ad altre due questioni: la malattia, che limita le capacità fisiche, e la precarietà, che impedisce di ottenere stabilità necessaria a costruire una famiglia. Ad esempio, Logan[5], intervistato non-binario e pansessuale, racconta:

Vorrei adottare almeno due bambini però non lo so, la vedo un po’ dura come cosa, anche andando all’estero,
un po’ per tutto, per tutte le mie diversità. […]. La vedo un po’ dura per come sta andando, cioè non è che sta andando così velocemente e comunque se anche dovessero passare le adozioni gay […] in caso di transizione la vedo un po’ più dura. […] Io vorrei vivere in Italia, mi sposterei proprio solo per l’adozione ma tra dieci anni già sarebbe ottimistico, secondo me. Mi devo laureare, trovare un lavoro, avere una stabilità economica e non è comunque facile da nessuna parte. (Logan, 24 anni)

Nelle parole di Logan emerge una profonda sfiducia nei confronti di un possibile cambiamento politico possibile nei prossimi dieci anni in Italia, in particolare relativo alle adozioni. Tuttavia, emerge anche la preoccupazione per la situazione economica incerta e la consapevolezza che sulla disponibilità economica peseranno le conseguenze della malattia cronica, sia per l’ingente spesa in terapia e medicine, sia per la ridotta capacità lavorativa che essa comporta. A questi timori si accompagna la consapevolezza che, come persona non-binaria, Logan potrebbe incorrere in ulteriori ostacoli nel percorso di genitorialità. L’ipotesi della migrazione, contemplata come ultima possibilità, permetterebbe di aggirare gli ostacoli legislativi che oggi (e, nella visione di Logan, tra dieci anni) impediscono alle persone LGBT+ di essere genitori, ma non fornirebbe alcuna soluzione alle difficoltà economiche date dal quadro di precarietà e malattia cronica. In queste poche parole, si riassume un concentrato di come eteronormatività e abilità obbligatoria costruiscono dei percorsi lineari di esistenza a cui alcune persone hanno accesso e altre no. Così, anche sul piano dei diritti, la genitorialità è considerata un legittimo desiderio unicamente per chi non solo dimostra un allineamento tra genere (cisgender), orientamento sessuale (eterosessuale) e abilità, ma si inserisce anche a pieno titolo nel regime produttivo capitalista.
Una differente sfumatura di accettazione per il futuro emerge in relazione alla proiezione di sé rispetto alla malattia cronica. È piuttosto significativo che nessuna tra le persone intervistate esprima una decisa fiducia circa la possibilità di guarigione o di significativo miglioramento delle proprie condizioni attuali. In qualche modo, si potrebbe affermare che la cronicità della malattia, quell’orizzonte di presenza costante e continua nel futuro, finisca per essere incorporata anche sul piano dei desideri, come instabilità terminale (Lerum et al., 2015). Le narrazioni che emergono dunque raccontano di un futuro ancora segnato dalla malattia, in cui la speranza è di apprendere a gestire la propria condizione in maniera serena:

La malattia ce l’avrò ancora. Non solo ce l’avrò ancora ma voglio avercela ancora perché non posso viverla adesso col pensiero di liberarmene. […] Devo pensare che tra 10 anni […] sarò molto più capace di quanto non sia ora o di quanto non fossi 7 anni fa di farmene carico e di accompagnarmi dentro questa cosa. Sicuramente significherà che nella mia vita sarò sempre fragile. (Nina, 26 anni)

Mi piacerebbe vivere in condizioni in cui sento meno la mia malattia e che sia la città dove vivo, sia il lavoro che faccio, che sia le persone che frequento…che la mia malattia diventi ininfluente, non so come dire, che non faccia più nessuna differenza che io sia malata o no […]. Io non desidero essere più sana, desidero che così come sto adesso sia la condizione ideale per stare. (Maia, 27 anni)

La certezza della fragilità e la netta consapevolezza che essa c’è per rimanere fa sì che l’orizzonte di desiderio non sia eradicare la malattia nel futuro ma apprendere ad accompagnarsi nel percorso che impone. La prospettiva di Nina, che trova eco nel racconto di Maia, ribalta l’approccio normativo alla malattia e alla disabilità, per cui l’opzione desiderabile è sempre e comunque la cura (McRuer, 2006). Essa riflette infatti una considerazione dell’esperienza di malattia cronica come di un percorso in divenire in cui è importante avere realismo: accettare che la condizione di cronicità è potenzialmente duratura nel tempo ma, contemporaneamente, aiutarsi nell’inserire armoniosamente la fragilità che ne deriva in una condizione generale di esistenza. Allo stesso tempo, la speranza è che anche il contesto sociale sia capace di accogliere inquadrare la diversità non come un malfunzionamento da riparare ma come una forma di ricchezza da inserire nel proprio tessuto. Il percorso smaschera la potenziale tossicità di discorsi di eradicazione della malattia e di mistificazione della cura (Clare, 2017), mettendo al centro l’autodeterminazione dei soggetti nel prendersi cura di sé e nel rivendicare la fragilità come punto di partenza per la propria definizione di sé. In questi casi, dunque, il futuro possibile è soprattutto un futuro prudente, nel quale la fragilità diventa parte stessa dell’orizzonte e assume una valenza identitaria. Alla domanda implicita che l’abilità obbligatoria pone, “Sì, ma in fondo, non vorresti essere come me?” (McRuer, 2006: 9), le interviste analizzate sembrano rispondere con un deciso “no” che abbraccia la fragilità e la pone come condizione inalienabile per costruire traiettorie altre.

©Elia Nadie (2017)

Ripensare autonomia, intimità e cura
Le storie raccolte rivelano una generale condizione di solitudine e isolamento dati dalla doppia intersezione di malattia cronica e identità LGBT+. Molte persone intervistate vivono in casa dei genitori per la necessità di avere assistenza quotidiana a cui non hanno accesso attraverso il sistema di welfare[6], ma anche per fare fronte alle difficoltà economiche a cui la precarietà lavorativa le espone. In molti casi, hanno accesso a ridotta partecipazione sociale, data dalla scarsa accessibilità di luoghi di ritrovo, anche LGBT+, e dalla ridotta autonomia negli spostamenti. In diversi casi, la prospettiva del futuro si rivolge a colmare questo senso di isolamento e in particolare al desiderio speranza di vivere relazioni sessuali e sentimentali soddisfacenti. Questo aspetto si lega spesso con la necessità di negoziare relazioni di cura tanto con i/le possibili partner quanto con il contesto familiare. Jack, che vive con i genitori, racconta che insieme all’associazione di malati cronici di cui fa parte sta prendendo forma un’idea concreta per il futuro che unisca la necessità di autonomia con quella di cura:

Col gruppo stavamo anche pensando a (qualcosa di collettivo) perché alla fine siamo tutti ragazzi giovani che hanno i genitori ma ovviamente i genitori muoiono. Pensavamo di costruire una comunità, una casa dove ognuno si può arrangiare e aiutare a vicenda…perché quello sarà il finale. (Jack, 29 anni)

Da una parte, emerge la necessità di elaborare per il futuro delle strategie collettive che guardino al sistema di cura come un elemento separato dalle relazioni significative, siano esse di famiglia o di coppia. Un aspetto infatti ricorrente della società italiana è l’assoluta centralità delle famiglie di origine nel ricoprire ruoli di cura verso i proprio membri più fragili (bambini, anziani, malati), soprattutto quando non si può ricorrere a forme assistenziali messe a disposizione dallo stato (Saraceno, 2004). La convivenza da adulti con le proprie famiglie limita in alcuni casi la possibilità di avere relazioni sessuali e sentimentali, soprattutto quando le famiglie non appoggiano l’identificazione LGBT+ (Bertone, 2013; Santos & Santos, 2017). L’esperienza di Jack prefigura una modalità di pensare alla cura che decentralizza la famiglia dal proprio ruolo e ribalta la prospettiva, affidando alla comunità la responsabilità collettiva di farsi carico delle fragilità di ciascun*. Nuovamente, in questo futuro possibile la dimensione individuale della malattia cronica, e, implicitamente, della sessualità, sono portate ad un livello collettivo: sono legate tra loro in modo inestricabile, così che cura, relazioni, autonomia e sessualità si ridefiniscono una in relazione all’altra. Un’altra interessante riflessione in questo senso emerge dalle parole di Marco:

Non escludo nemmeno che in un futuro ci possa essere, se il sesso dovesse continuare a essere assente dalla vita, una donna, […] di quelle persone anziane che si sostengono e si danno una mano, da quel punto di vista là che sia uomo o donna non cambierebbe più nulla perché la sessualità a quell’età là (non conta). Di secondario c’è la carezza, l’affetto e il prepararsi il tè e il caffè la mattina. Sicuramente io non mi immagino una vita in cui potrò rimanere solo ancora molto a lungo. Voglio avere qualcuno al mio fianco, qualcuno…per cui essere importante, anche senza sesso. (Marco, 42 anni)

In questo futuro immaginato, la dimensione della cura si stabilisce nuovamente come centrale insieme ad un’idea della sessualità che rompe con le norme che, anche negli studi queer, mettono al centro l’aspetto identitario del definirsi come LGBT+. Nel futuro immaginato da Marco, l’aspetto importante è incontrare un equilibrio tra cura e relazioni che offra un conforto emotivo, anche senza la dimensione strettamente sessuale, che Marco immagina perderà importanza, ma che fornisca anche quel tipo di assistenza quotidiana a cui la cronicità della malattia esporrà sempre. Se nell’estratto emerge una concezione della vita sessuale come legata ad una specifica età, si osserva anche una disponibilità alla ridefinizione di ciò che rende un rapporto realmente significativo in cui, nuovamente, la dimensione della cura, del sesso e dell’intimità si confondono in maniera non lineare.


Il futuro queer-crip scrive dritto attraverso linee storte
Un detto popolare portoghese dice che “Dio scrive dritto attraverso linee storte”, a suggerire che i percorsi di vita possono essere tortuosi ma hanno sempre un senso per le persone che li attraversano. Gli esempi  analizzati qui raccontano come, attraverso traiettorie che fuggono a quella linearità a cui eteronormatività e capacitismo indirizzano, le persone LGBT+ con malattie croniche trovano modi per dare un senso al proprio percorso nonostante queste pressioni normative. La “normalità” infusa da eteronormatività e capacitismo tende a mettere in relazione dicotomica accettazione e resistenza, vulnerabilità e forza, cura e autonomia. Tuttavia, come queste storie dimostrano, si tratta di elementi che possono coesistere, anche mantenendo la propria contraddizione in termini, attraverso il vissuto di ciascun*. Nel guardare alle traiettorie disegnate dalle persone intervistate come suggestioni per un futuro queer-crip non si deve cadere nel tranello di romanticizzarle: la sofferenza che emerge da ciascuna di esse non ne è un aspetto secondario, ma un pilastro fondamentale. In altre parole, il futuro possibile e immaginato non emerge “nonostante” la fragilità ma grazie al fatto che le molteplici forme di vulnerabilità vissute come LGBT+ e malat* sono elaborate in direzioni che ribaltano gli schemi di oppressione eteronormativa e capacitista. In questo modo, possiamo immaginare il futuro queer-crip dell’Italia 2030 come un futuro in cui scrivere dritto significa fare spazio ad una molteplicità di linee storte, sghembe, erratiche e sbilenche.

Note
[1] Le declinazioni maschile e femminile di aggettivi e nomi sono sostituite dall’asterisco per superare la dicotomia di genere e mantenendo la fluidità di scrittura e lettura.
[2] Tutte le informazioni sul progetto su http://chroniqueers.tumblr.com. La ricerca è stata finanziata dalla Fundação pela Ciência e a Tecnologia (PD/BD/114078/2015). L’autrice desidera ringraziare Grazia Bosi per le preziose riflessioni condivise in corso di stesura.
[3] Traduzione a cura dell’autrice.
[4] Fonte Rainbow-Europe LINK https://rainbow-europe.org/country-ranking
[5] Tutti i nomi delle persone intervistate sono di fantasia per proteggerne l’anonimato.
[6] Il mancato riconoscimento di diverse malattie croniche nel quadro delle disabilità non offre accesso a molt* a pensioni integrative e ai servizi di cura della persona.

Bibliografia
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Mara Pieri PhD student in the programme “Human Rights in Contemporary Societies” at the Centre for Social Studies, University of Coimbra (Portugal), Mara holds a BA and an MA in Sociology at University of Trento, Italy. In her work, she brings together disabilities studies and queer and crip studies through an intersectional approach and a specific focus on chronic illness. Her research interests include supercrips; medicalization; chronic illness and invisible disabilities; accessibility; sexualities in Southern Europe; LGBT lives through intersections. Since 2017 she is a member of the Board of the Sexuality Research Network of the ESA European Sociological Association and since 2018 she coordinates the Research Stream on Sexuality and Gender of the APS – Portuguese Sociological Association.
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